UN SEME DALLE FORTI RADICI
L’infanzia di Emma era stata quanto di piùlontano ci si potesse immaginare dai film americani che i famosi registi di Hollywood amavano portare in scena.
Mentre sul grande e piccolo schermo si vedevano famiglie armoniose e felici, in grado di avere dialoghi sani ed esperienze formidabili, la sua famiglia invece era severa, per usare un eufemismo, con princìpi molto rigidi che ruotavano sostanzialmente intorno a un unico concetto: l’uomo era il capo famiglia e la donna doveva obbedirgli senza remore.
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Da piccola Emma era una bimba luminosa e sorridente, amava stare all’aria aperta e si sentiva spensierata, come solo una bambina di sei anni può esserlo. Il suo sorriso però cominciò a ombrarsi ogni giorno un po’ di più. I suoi genitori litigavano un giorno sì e l’altro pure, a nulla serviva nascondersiin camera, le urla l’avrebbero seguita fin dentro l’armadio. Suo padre amava comandare la madre per il semplice gusto di sentirsi uomo, in particolare quando rientrava in casa dalla pesca si scatenava l’inferno. Lei e i fratelli recitavano la parte dei soldatini mentre la moglie quella di una geisha premurosa e obbediente. La famiglia viveva nella serenità solo quando lui era fuori in mare aperto. La madre si prendeva cura della casa in modo meticoloso e ai figli donava moltissimo amore, viveva quasi solo per loro.Vivevano a Monterey, una cittadina di trentamila abitanti nello stato della California, a quattro ore di distanza da San Francisco.
Per Emma diventare adolescente significò affrontare una delle sfide più difficili della sua vita. Man mano che cresceva diventava sempre più consapevole delle piccole e grandi ingiustizie che era costretta a subire ogni giorno in famiglia. Non poteva indossare gonne corte, altrimenti sarebbe sembrata una poco di buono; non poteva uscire con gli amici se in gruppo c’erano più ragazzi che ragazze; non poteva mettersi un filo di lucidalabbra come le sue coetanee, ma soprattutto non poteva mai controbattere i suoi genitori, perché una brava donna deve obbedire in silenzio.
Fu in quel periodo che dentro di lei iniziò a germogliare il seme dell’ingiustizia, che con gli anni sarebbe cresciuto a dismisura, con radici talmente forti da restare saldamente avvinghiate al suo cuore per molto tempo.
A causarle maggiore sofferenza era il trattamento impari con cui lei e i suoi tre fratelli venivano trattati. A loro era concesso di uscire liberamente per la città senza preoccuparsi di sporcarsi il vestito, non erano tenuti a fare le faccende di casa ed erano liberi di alzare la voce quanto volevano.
Quando capitava che rispondessero a tono alla madre lei era solita perdonarli.
«Sono maschi» ripeteva lei alzando le spalle in segno di noncuranza.
Emma invece doveva essere sorridente e obbediente, collaborativa in casa e silenziosa, non doveva rispondere né ai genitori né ai fratelli, ed evitare di creare qualsiasi tipo di problema.
«Lasciali perdere Emma, non aggravare la situazione, sono maschi, sai che loro alzano la voce ma poi si calmano. Tu stai buona, anche se loro hanno torto. Ed evita di irritarli maggiormente» era il ritornello che si sentiva ripetere.
A volte cercava di far ragionare la madre: «Nasciamo tutti con gli stessi diritti e ognuno di noi ha dei doveri. Perché io devo rispettare le regole e loro no? Perché devo aiutarti solo io nelle faccende di casa? Perché loro possono permettersi di non studiare e uscire a divertirsi tutto il giorno, mentre io devo stare chiusa in casa a fare i compiti?».
La madre, che la amava immensamente, cercava di rabbonirla dicendole che era ancora piccola per capire come girava il mondo.
Ma il semino dell’ingiustizia continuò a crescere a tal punto che Emma, quando se ne sentì soffocare, decise che per poter ottenere la libertà desiderata e la vita dei suoi sogni doveva allontanarsi dalla sua famiglia e affrontare le intemperie della vita in modo autonomo e coraggioso.
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