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2025. Rosi è a bordo della sua nuova Mercedes con Paolo, parlano del loro matrimonio. Una macchina in lontananza sbarra la strada, un uomo in piedi, i freni non rispondono, e poi l’impatto.
2027. Maxina si risveglia dopo un coma durato due anni. Non ricorda nulla. Neppure il suo viso quando le mostrano una foto dicendole che adesso è diverso per via delle plastiche. Nulla. Lei è nata quel giorno.
Fragile, ingenua e stralunata, Maxina si lascia alle spalle tutto ciò che era connesso alla sua vecchia identità, decisa a vivere la nuova vita lontana dalle logiche comuni e dalla morale che la famiglia le impone.
Insofferente, decide così di allontanarsi e andare nell’unico posto dove si sente accettata, tra i diversi come lei: nella periferia della città. Qui incontra Svetlana che si prenderà cura di lei, e poi Alex in fuga da una vita che sembra aver perso ogni senso.

 

CAPITOLO UNO
21 dicembre 2027
Il primo risveglio fu al buio. Sentiva le bende sugli occhi e le
fasciature su tutto il corpo. Un dolore fastidioso, ma sopportabile,
al cranio, come di ferita che sta guarendo. Non poteva
muoversi, né vedere, e non c’era nulla da ascoltare. Assenza di
suoni umani, solo il lieve rumore, fruscio, ticchettio di qualche
apparecchio vicino a lei. Percepiva appena qualcosa di
estraneo attaccato al suo corpo. Ma non sapeva quanto fosse
rimasto del suo corpo. Di fronte al lento emergere denso di
quella spaventosa consapevolezza, desiderò morire.
Più forte della sofferenza fisica era l’orrore di essere in un
incubo senza nome.
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Sprofondò di nuovo nel sonno comatoso dal quale era uscita
per qualche secondo senza sapere dove e perché fosse lì, immobile,
come una mummia, e, soprattutto, chi fosse.
La seconda volta fu in grado di vedere. Nella stanza c’era la
penombra creata dalle veneziane abbassate. Ci volle un po’ di
tempo prima di riuscire a mettere a fuoco le immagini. Poi fu
tutto chiaro e nitido. Sapeva di avere dormito a lungo, ma non
poteva immaginare quanto. Si accorse di non essere sola,
c’erano almeno tre persone intorno a lei. Parlavano piano, con
una certa cautela, ma si leggeva molta emozione sui loro volti
sconosciuti. Dicevano: «Rosi, ciao».
«Rosi, bentornata.»
«Rosi…»
Si guardò intorno, inclinando per quanto possibile la testa,
cercando di scoprire chi fosse Rosi. Gli sguardi convergevano
tutti su di lei. Sapeva di essere una donna. Probabilmente Rosi
era lei, o almeno tutti si aspettavano che quel suo corpo
immobile del quale non si rendeva pienamente conto, quell’essere
che non aveva consapevolezze se non di essere vivo e di sesso
femminile e di avere occhi, perché stava vedendo al di fuori di
sé tutt’intorno in quella stanza bianco crema, fosse Rosi.
Si concentrò su se stessa. Era libera da gessi e da fasciature e
con un certo sforzo riusciva a muovere le mani. Pensò alle gambe:
sembravano di cemento. Ordinò al cervello di farle spostare.
Impossibile. Dopo faticosi tentativi, riuscì appena ad alzare
gli alluci, ne vide la punta sollevarsi sotto il lenzuolo.
Considerò il piccolo movimento un successo. Era ancora tutta intera.
Sorrise debolmente alle persone ansiose che continuavano
a chiamarla. Sentiva che doveva in qualche modo rassicurarle.
Almeno così, forse, l’avrebbero lasciata in pace.
Voleva restare sola. Voleva continuare a dormire. Ma
qualcosa le diceva che non sarebbe più riuscita a scivolare
nell’incoscienza, che ormai era sveglia e doveva affrontare
quell’angosciosa certezza: era viva. Sapeva di essere viva,
sapeva cos’era la vita, ma ignorava quale fosse la sua. A chi
apparteneva quel corpo di donna intrappolato in un letto,
probabilmente d’ospedale? Chi era Rosi? Chi erano quelle figure
intorno a lei? Il suo sorriso strampalato fu interpretato come
il ritorno definitivo a uno stato di coscienza di sé, un segno di
tale importanza che vide i loro occhi farsi lucidi.
L’infermiera, la distinse finalmente, spinse fuori dalla
stanza quei due fantasmi con dolce premura: «Su, su, lasciatela
riposare».
E fu finalmente sola.
Pensava. Doveva ricordare qualcosa di sé. Il nome.
Sensazioni. Memorie. Ma non c’era niente oltre il vuoto,
oltre all’evidenza di dovere avere dei ricordi da cercare. Non aveva le
forze per combattere con l’ansia. Preferì lasciarsi andare alla
luce bianca che sentiva nella testa, subito dietro agli occhi.

CAPITOLO DUE
«Rosi, tu devi sapere…» Era una donna robusta, dai lineamenti
un po’ duri, ispessiti. Forse era stata una bella donna,
perché niente era grossolano in lei, ma c’era qualcosa di
appena gonfiato, invecchiato, come di una grazia perduta.
Le teneva la mano. Sentiva grossi anelli alle sue dita dalle
unghie curate e vedeva le macchie scure dell’età, efelidi brune
che le facevano tenerezza. Quella mano le era estranea.
Eppure apparteneva a sua madre.
«Devi sapere cosa è successo in tutto questo tempo. Te lo
spiegherò un po’ per volta. Ti aiuterò a ricostruire.» Aveva
un tono di voce profondo, cercava di parlare con calma, studiando
le parole, ma si intuiva una certa impazienza. Doveva essere
una donna pratica, poco abituata a scontrarsi con
fatti inspiegabili, ma piuttosto certa di potere ricondurre
con la ragione tutte le situazioni alla normalità, o
perlomeno allo stato più vicino alla normalità. Doveva avere circa
sessant’anni, portati male. Gli occhi grigi, chiarissimi, erano
però rimasti giovani. Limpidi e mobili trasmettevano un certa freddezza.
Aveva un profumo intenso, maturo. Era molto elegante. La
sfiorò con la manica della camicetta di seta arancio.
«Ricordi qualcosa? Ricordi tuo padre, Rosi?» Gli occhi grigi
si velarono di lacrime, per un attimo. La mano sfiorò la fronte,
scosse appena i capelli corti biondo cenere.
«Non ricordo niente. Mi spiace.» Distolse lo sguardo da
quella solida signora di una certa età, un po’ altera, dalla voce
calda, che diceva di essere sua madre.
«Ricorderai, stai tranquilla. Ci vuole solo tempo. Tanto
tempo.» Le strinse di più la mano, sorrise: «Sei cambiata un
po’, sai Rosi? Però sei sempre bellissima».
Ma lei non si era ancora vista nello specchio. Aveva paura di
non riconoscersi.
E poi le avevano appena tolto un cerotto dalla testa. Doveva
avere il cranio pelato. Sentiva che i capelli stavano ricrescendo
e quei peli cortissimi le davano fastidio quando girava la
testa sul cuscino.
«Tuo padre ti voleva molto bene. Eri tutto per lui. E anche
tu lo amavi, volevi essere come lui. Era un medico, ricordi?
Anche tu eri, anzi, sei un medico.»
Aveva lo sguardo assente.
«Rosi, mi senti? Stai bene?»
«Sì, sto bene. Ma non ricordo.»
«Rosi. Tuo padre è morto un anno fa. Dovevo dirtelo. Ti ha
seguito giorno dopo giorno. Sempre. Se sei viva, se sei qui, è
merito suo.»
Avrebbe dovuto provare dolore. Ma non sapeva per chi doveva
piangere. Suo padre. Com’era, chi era stato? Probabilmente
l’aveva presa in braccio infinite volte quand’era bambina e
l’aveva sollevata in alto e lei aveva provato vertigine,
eccitazione, felicità. Si sforzò di ricordare e di rivivere un
affetto e un amore che le erano appartenuti, che erano stati
solo suoi. Bianco opaco. Il nulla. Provò una grande pena. Le
sarebbe piaciuto piangere. Ma era come vedere un film. La
storia di qualcun altro.

CAPITOLO TRE
Nel giro di una settimana si abituò a una strana routine.
Veniva il fisioterapista al mattino, si occupava di lei per un paio
d’ore. Le massaggiava energicamente tutto il corpo, le faceva
compiere movimenti ginnici, aiutandola a piegare braccia e
gambe, che man mano diventavano per lei sempre più facili,
perché stava lentamente riappropriandosi del controllo dei
suoi arti.
Quando alzarono per la prima volta il lenzuolo, ebbe una
folle paura di scoprire deformità o menomazioni, per cui fu
rassicurante vedere delle gambe dritte e lunghe seppure molto
magre, con due sottilissime cicatrici rosa che dall’interno
coscia arrivavano al ginocchio, per poi scendere ancora. Ben
rimarginate, come se fosse passato del tempo…
In breve riuscì a eseguire movimenti in modo autonomo,
ad appoggiare i piedi per terra, addirittura a reggersi in piedi
sostenendosi solo alla sponda del letto. Una sera si spinse a
tentare qualche passo, fino a raggiungere il lavandino con lo
specchio di fronte al letto. Lo sforzo era stato immenso. Trovò
una sedia alla quale appoggiarsi. Alzò gli occhi e vide il suo
volto riflesso.
Strinse le mani sullo schienale della seggiola per sostenersi.
Quel volto le era completamente sconosciuto e non le
trasmise alcuna informazione o emozione. Un viso regolare
ed emaciato incorniciato da una zazzera cortissima di capelli
castani.
Nel primo pomeriggio c’era l’ora dello psicologo. Un uomo
giovane, dall’aria serena e gli occhiali sottili, cercava di spie-
garle con la massima tranquillità la sua situazione.
Fu il primo che in effetti le chiarì quello che era successo alla sua vita
e lo fece senza mezzi termini, con asciutta semplicità. Fu l’unico
a non dare per scontato nulla, a considerarla veramente
una sconosciuta a se stessa e lei avrebbe voluto stare con lui
più a lungo.
«Capita spesso ai ricostruiti come lei» e la guardò al di sopra
degli occhiali, quasi scusandosi di avere usato quel termine
«di perdere il contatto con il proprio passato, ma cerchi di
non preoccuparsi troppo per questo. Piano piano recupererà
tutto, quasi tutto, e ricorderà. Io sono qui per aiutarla» fece
una pausa che lei sfruttò subito. Quella parola l’aveva incuriosita.
«Chi sono i “ricostruiti”?» chiese.
Lo psicologo prese fiato: «Le persone che come lei hanno
subito incidenti molto gravi, con lesioni agli arti e agli organi
vitali tali da rendere necessari molteplici trapianti e una
lunghissima degenza. Nel suo caso c’è stato anche un coma che si
è protratto per molto tempo. Penso che sia presto per scendere
in dettagli. Quando vorrà conoscere tutti gli interventi che
sono stati fatti su di lei, me lo dirà. Vuole saperlo adesso?».
«No, non ancora. Mi dica piuttosto cosa mi è successo. Da
quanto tempo sono qui?»
«Lei era una giovane dottoressa. Due anni fa ha avuto un
grave incidente automobilistico. Le sue condizioni erano veramente
disperate, ma con le nuove tecniche e soprattutto
con la tenacia di suo padre, che l’ha seguita personalmente
giorno e notte, è stata salvata e…»
«Due anni fa?» lo interruppe spaventata.
«Sì.»
«Dio mio. Ero sola in macchina?»
«Ricorda qualcosa?»
«No.»
«No, non era sola. Con lei c’era il suo fidanzato.»
«Ho un fidanzato, allora. Quanti anni ho?»
«Trentatré. Ma ne dimostra molti di meno, sa? La sua pelle
è completamente nuova, simile a quella che aveva prima, ma
più giovane. Suo padre era uno specialista in questo.»
«E il mio fidanzato? Come si chiama?»
Il dottore lesse dei fogli da una cartellina aperta sulla
scrivania: «Paolo. Paolo Soria. Vuole vedere una sua fotografia?».
Lei annuì. Prese la foto tra le mani. Un ragazzo bruno
sorrideva vicino a una ragazza bionda. Sullo sfondo un paesaggio
montano.
«E lui come sta?»
«Purtroppo è morto sul colpo. Mi dispiace Rosi» e di nuovo
la guardò, scrutando le sue reazioni.
«Dispiace anche a me. Ma non lo conosco. Cioè, non so, non
ricordo. Chi è la donna?»
Il dottore esitò: «Sarò sempre sincero con lei Rosi, anche se
tutto le sembrerà complicato e difficile da capire, avremo il
tempo per rimettere a posto tutti i tasselli. Quella donna è lei,
Rosi. Ora è diversa, qui aveva anche i capelli tinti».
«Sì, ma guardi: anche il viso non mi assomiglia molto.
Perché?» era un po’ ansiosa, adesso.
Si era vista di sfuggita nello specchio, ma era evidente la
differenza dalla persona della fotografia. Il suo viso attuale le
pareva più regolare, leggermente più affilato, e soprattutto la
bocca, il taglio degli occhi erano molto diversi.
«Rosi, lei ha subito molte plastiche. Dopo il suo incidente
era completamente sfigurata. Nella ricostruzione, anche ossea,
è stato fatto il meglio. E infatti lei è più bella, lo sa?»
«Ma non mi assomiglio più» abbassò gli occhi e si fissò i
piedi. Era stanca e in fondo non le importava un granché di
avere un’altra faccia. Tanto non si ricordava niente di Rosi e
non aveva voglia di sforzarsi più di ricordare. Le dispiaceva
per quel fidanzato che non poteva piangere.
«Rosi, parli con sua madre, cerchi di farle tutte le domande
che si sente dentro. L’aiuterà.»
Capì che era un commiato, e si alzò sulle sue gambe magre
per tornare in camera.
«Ci vediamo domani, alla stessa ora. Riposi adesso.»
Appena l’ora finiva pensava all’estenuante fisioterapia per
gambe, braccia e addominali che avrebbe ripreso il giorno
dopo. Come se fossero più importanti loro del suo cervello
bianco. Bianco sporco, qualche volta

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Sabina Matz
SABINA MATZ, nata a Torino, trascorre l’infanzia in Liguria per poi trasferirsi a Torino per gli studi universitari. Oggi ha scelto di vivere nelle meravigliose colline del Monferrato, dove si dedica al suo bed & breakfast e alla gestione di un circolo culturale. Blu è il suo romanzo d’esordio.
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