Nella quiete dell’isola di Serifos, in Grecia, vive Daniel, persona apparentemente serena, ma che nasconde un passato segnato da ombre: un rapporto spezzato con la propria famiglia lo ha reso un uomo prudente, capace però di grande profondità emotiva. La sua vita subisce un inaspettato scossone quando Elias, un turista canadese, arriva sull’isola. Tra i due uomini nasce un rapporto intenso e spontaneo, fatto di piccoli gesti e conversazioni profonde, un legame che sfida le convenzioni e le ferite del passato, aprendo per Daniel una vita che non credeva possibile.
Mentre le giornate si intrecciano con le storie e i rituali degli abitanti dell’isola, Daniel si ritrova a mettere in discussione tutto ciò che credeva di sapere su di sé e sul suo posto nel mondo. Ma l’estate ha i suoi confini, e con la fine della permanenza di Elias sull’isola, anche le scelte più difficili si fanno inevitabili.
Capitolo uno
Sarà stato per il blu cangiante e assurdo delle lenti a specchio. Erano i più sfacciati, tanto da attirarmi. Li avevo già visti a qualche turista, ma non erano mai diventati un desiderio. Il ragazzo della bancarella mi ha allungato uno specchio rotondo e si è rituffato subito nel suo telefono, senza perdere tempo in adulazioni. Troppo grandi per la mia faccia. Un alieno, gli occhi delle mosche: un insetto extraterrestre. Un paio di smorfie – furtive, anche se non c’era nessuno. In posa con il mio profilo migliore per uno scatto da fotomodello: meglio di fronte, per prendermi in giro fino in fondo. Ho cercato almeno un motivo per farmi quel regalo: costavano poco e mi mascheravano bene il naso. Mentre rimettevo il portafoglio in tasca ho ringraziato solo io.
Li ho tenuti. Ero un ribelle, un anticonformista. Non vedevo l’ora di incrociare chiunque. Progettavo le mie mosse in un combattimento di sguardi, per rispondere pan per focaccia ai sorrisi sarcastici e a certe mute opinioni al vetriolo. Mi immaginavo acuto e tagliente. Con chi conosco, invece, prevedevo piccole schermaglie farcite di quelle battute che a me non vengono mai: era il caso di prepararmene qualcuna, per non fare la solita figura di chi risponde sempre e solo con un sorriso. Magari quegli occhiali potevano farmi diventare simpatico e brillante. Forse avevo appena comprato un feticcio magico e miracoloso, al mercatino del venerdì.
Non mi ricordo di com’è andata effettivamente la prova per strada. Forse sono arrivato a casa senza incrociare anima viva: a quell’ora la gente era ancora al mare o chiusa in casa. Livadi si anima soprattutto la sera, sia di turisti che di gente del posto. Oppure non è successo niente per davvero, o mi sono fatto scorrere tutto addosso come sempre. Non ho ricordi precisi, e sono sincero.
Li ho messi nella grossa ciotola che ho sul mobile della cucina – dove metto di tutto, e dove ritrovo quello che cerco. Cose che lì hanno la loro residenza fissa: il telefono che non uso mai, un metro e due cacciaviti che potrebbero sempre servirmi e le monete fino agli spiccioli più piccoli. Matite e penne, un blocchetto di post-it gialli, le chiavi e il portafogli insieme a tutto quello a cui non so dare una collocazione precisa. Ci può finire anche qualcosa che è nuovo e appena arrivato, come quegli occhiali.
Devono essere rimasti lì almeno una settimana, visti i miei ritmi. Non li ho messi più fino a quando mi è venuta voglia della mia bella camminata panoramica e distensiva. Anche per me è la montagna di Serifos, dato che non ha un suo nome. In pratica è tutta l’isola, e definirla montagna fa ridere. Avrò letto cento volte che non arriva a duecento metri di altezza: lo so, ma continuo a non ricordare quel numero preciso. È che non mi importa: io cammino e basta – e sono anche avvantaggiato che non parto dalla costa. Salgo direttamente dal sentiero che passa qui vicino.
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Non mi piace la parola trekking e non mi definirei mai un trekkinghista: ancora devo chiarire se si può dire così, in un improbabile inglese grecizzato. Mi metto quel certo tipo di scarpe e calze, prendo la mia borraccia d’acqua e certe volte un panino, quasi sempre un po’ di frutta e vado. Certo, anche d’estate. Magari non scelgo proprio la giornata più afosa, ma qui di solito il vento non manca mai. Quel giorno difatti era strano perché non c’era per niente, e l’avevo notato. Ho messo quegli occhiali. Li ho pescati dalla ciotola e mi sono chiesto come avevo fatto a comprarli. Li trovavo brutti anche senza metterli. Ne avrò almeno un’altra mezza dozzina in un cassetto, tutti con storie simili. Potevo sfiorare il ridicolo, tanto nessuno ci avrebbe fatto caso – men che meno la mia amica di terra rossiccia, adornata di cespugli e ciuffi che d’estate sembrano solo secchi. Per me ha il suo fascino, e mi piace così. È molto discreta e la conosco bene, molto bene. So tutto di lei, e lei di me. A volte le parlo come se le raccontassi le confidenze di qualcuno, così certi ricordi mi sembrano meno miei. Lei non chiede niente e non cerca spiegazioni o risposte. È l’ideale per camminare con la testa sgombra – vuota, se fosse possibile: se dicessi di esserci mai riuscito sarei un bugiardo. Qualche ora con lei è una piacevole distrazione, un bel modo di passare il tempo.
E mi avvicino al cielo.
Non è mai stata una forma di evasione o una fuga. Il nostro rapporto è iniziato fin dai miei primi giorni qui, quando avrei pagato per poter parlare con qualcuno che non mi avrebbe giudicato. Avrei raccontato la mia storia solo a patto di un’amicizia vera, profonda – quasi sacra, per come la idealizzavo. Ne avevo solo un’idea, una teoria. Non ho mai avuto una persona che con il suo esempio potesse farmi capire cos’è e cosa significa.
Volevo confidarmi, non confessarmi – e non potevo rivolgermi al mare, che non conoscevo per niente. L’ho fatto con lei, ma senza parlare per davvero come un matto: immaginavo una telepatia, o qualcosa di simile. Le ho dato una voce, per ricevere quello che voglio sentirmi dire. Un timbro da saggia, di una fumatrice elegante che ha vissuto i risvolti di tante vite – che poi alla fine son pochi, con poche variabili: me lo ripete spesso, che la vita è così. Non dice di avere strani poteri, ma conosce già tutti i fatti, tutta la storia. Mi risponde che tutti raccontiamo gli stessi piaceri e le stesse sofferenze, le stesse situazioni che ormai conosce. Siamo fatti di momenti importanti, laceranti o gioiosi, eppure soliti. Allora mi dice di credere in quello che ho scelto – che è la mia strada, quella giusta per me. Non vuole sentir parlare di pentimenti, di colpe, di sbagli irrecuperabili. Se lo faccio sparisce, oppure diventa sorda, cieca, piatta.
Mi capita di volermi fermare con lei. Immagino che ci mettiamo seduti a un tavolo piccolo, di metallo, di un bar che non è né al chiuso né all’aperto. Non stiamo bevendo niente. Non ci sono camerieri o altri clienti, non ci sono nemmeno altri tavoli, ma mi piace pensare che si tratti di un bar. Non metto a fuoco mai niente, oltre noi due. Può essere ovunque. È un limbo che può diventare altro, a piacere. Difatti tutte le volte che le parlo di un posto che vorrei vedere e le chiedo se vuole venirci, lei annuisce e siamo lì. Ci stiamo per il tempo che serve – magari attimi brevi, un click fotografico in cui le mostro di cosa sto parlando, e sono quasi sempre fantasie che ripristino da qualcosa che ho visto alla televisione. Subito dopo siamo di nuovo seduti al tavolo, con il mio parlare così umorale che riprende e continua fino a chissà dove. Se ne sta lì con me, mi ascolta e fuma – fuma un’unica sigaretta che non spegne mai, che non ha mai una fine. Tutte le volte che alzo gli occhi lei è lì che mi guarda, attenta: non mi ha perso di vista nemmeno per un secondo, e tanto meno si è mai distratta. Deduco che non ha mai pensato di fare altro, e che sono importante.
A volte l’ho portata dove mi è successo qualcosa. Quelli dei miei ricordi diventano sempre momenti in cui restiamo in silenzio. Non ci guardiamo: sarebbe un errore. Spesso non vuole seguirmi fino in fondo: allora vivo qualcosa di simile a un abbandono. Mi sento solo e per ripicca mi perdo nel cielo e nel mare. Mi isolo e mi fisso su un certo gioco che inizia da un colore solo, e poi si arricchisce di sfumature e impressioni eteree, distaccate, ancora più fantasiose. E così leggere.
Io ho solo ricordi pesanti.
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