Un ansioso dovrebbe evitare le isole, soprattutto se piccole come questa.
Non sapevo che non me ne sarei più andato. Pensavo che prima o poi sarebbe arrivato un buon motivo per andare in un altro posto. Ma non ho mai odiato Serifos.
Qui – al massimo – potrebbe succedere di dover fare un lungo girotondo, oppure di dover tornare indietro, ma non che ci si possa perdere davvero. Dà l’idea di un anfiteatro. Si vede bene quando si arriva dal mare. Una grande baia con un bel porto e due piccoli centri, Livadi e Chora. Due gruppi di edifici bianchi, uno sul mare e l’altro sulla prima collina. Poi ci sono tanti altri cubetti bianchi sparpagliati lungo la salita, così disordinati che non si capisce di quale cittadina facciano parte. Sembrano escursionisti indecisi fra salire e scendere. Mi fanno venir voglia di mettere le cose a posto, di raggrupparli meglio portandone solo certi in cima – a Chora, e lasciar scivolare gli altri fino al mare, a Livadi. Il bello è che anch’io vivo a metà strada dalla costa, ma dall’altro lato – dove siamo solo cinque punti bianchi ben distanti l’uno dall’altro. Defilati. Noi non uniamo niente. Diamo l’idea di emarginati – i più antipatici di Serifos, gli asociali. Quelli che.
Poi c’è la schiena dell’isola, la dorsale che scende verso il mare. A piedi non è mai tanto semplice. Meglio prendere una barca a Livadi e fare tutto il giro completo. Per noi è la parte segreta – di grotte, insenature e piccole baie che non abbiamo sempre voglia di far scoprire a tutti.
Grazie a Polifemo sta arrivando molta più gente. L’ente turistico ha fatto bene a sfruttare quello che forse è il momento più horror di tutta l’Odissea. Era ora – e potevano pensarci prima. Io sono qui da vent’anni, e una volta i pochi turisti sceglievano Serifos apposta. Questa è l’isola del Ciclope, il gigante con un solo occhio che si è mangiato diversi marinai di Ulisse, prima di venire accecato con un palo. Il bello è che per tante persone la storia diventa vera quando sono proprio qui. Tutta l’Odissea diventa realtà. Chiedono se ci sono reperti, se c’è un museo. Partecipano ad almeno un’escursione e sperano di scoprire quel qualcosa che è sempre sfuggito a tutti. Un sasso lavorato, un disegno rupestre, un frammento qualsiasi. Lo scopriranno loro. Fotografano sé stessi con quei telefoni con cui fanno tutto e da cui non si separano mai – per sentirsi sempre presenti e protagonisti. Mi fanno ridere. So che il mio è sempre nella ciotola, e che lì sta bene. Me lo hanno regalato l’anno scorso, ed è uno di quelli moderni, pieno di tecnologie che non mi servono.
Era rimasto lì anche quel giorno.
Mi incuriosiva. Camminavo verso un uomo che mi stuzzicava con il suo far niente. L’ho battezzato “sfaticato” appena ha incrociato le braccia dietro la schiena. Ho dato per certa la sua pigrizia e ho sorriso, tanto da quella distanza non poteva vedermi. Dovevo essere un’occasione da sfruttare, un ufficio informazioni che gli andava incontro per soddisfare le sue esigenze. Immaginavo che si stava compiacendo della sua fortuna, e mi piaceva che fossi io. Ero libero di divertirmi a esagerare. Sarei stato l’uomo della provvidenza, forse il salvatore. Lui la pecorella smarrita, io il pastore. Non ho
niente del lupo, e avevo il sole alle spalle. Poteva distinguere solo la sagoma scura di un uomo
piccolo, o di un ragazzino. Da lì a poco avrebbe definito una barbetta e un paio di occhiali orrendi.
Cercavo di Immaginare le sue ipotesi su me. Mi guardava. Stava fermo sul bordo del sentiero, a sottolineare che non voleva sbarrarmi il passo – e l’accortezza mi piaceva. Io oscillavo tra un fastidio leggero e una curiosità divertita.
Ho ricambiato appena ho iniziato a distinguere qualche particolare. Non trasmetteva il massimo dell’ovvietà: in testa qualcosa di tela floscia, occhiali neri da sicario e un pizzetto scuro. In camicia e pantaloni chiari. Non riuscivo a distinguere con esattezza i colori per colpa di quei maledetti occhiali che distorcevano tutto. Scoprivo solo in quel momento che avevano quell’effetto, e non me lo aspettavo. Avevo camminato per un paio d’ore senza farci caso. Pensavo di aver visto tutti colori veri, reali, quelli di sempre. Mi confermavo un ottuso abitudinario.
Due strisce nere ai lati del torace per uno zainetto, e mi mancava di vedere le scarpe per capire bene cosa ci faceva lì. Allora ho coniato il termine trekkinghista. Mi è uscito un “se ha le scarpe da trekkinghista”. Ho sorriso della mia brutta invenzione – a cui riservo ancora una minima speranza di diventare un termine almeno lecito, dato che proviene da una lingua straniera. Divertito dal mio obbrobrio, ho aggiunto la curiosità di sapere quale lingua di questo mondo poteva essere la sua. Mi piace sfoggiare il mio ottimo inglese con quei turisti che hanno l’idea dei greci pastori e pescatori ignoranti e retrogradi.
Mi piace stupirli.
Lo guardavo da quegli occhiali osceni e mistificatori, messi pensando di non incontrare un’anima. Ribadivo il loro costare poco, e maledicevo anche quel fattore. Lo fissavo sapendo che anche se fossi stato lì a mezzo metro non avrebbe potuto essere certo che stavo guardando proprio lui. L’essere praticamente una maschera era l’unico pregio della bruttura che avevo in faccia. E comunque lo guardavo perché ce l’avevo davanti, piazzato in mezzo a tutto quello che potevo considerare panorama. Non avevo bisogno di scuse per continuare a farlo, ma avrei voluto vederlo bene, o almeno meglio. Avrei potuto togliermi gli occhiali, magari solo per un momento. Avevo la tentazione di fingere di dovermi strofinare la fronte, o di toccarmi la faccia, gli occhi. Potevo essere sudato. Forse la distanza fra noi era già troppo poca. Tentennavo fra il farlo e non farlo, e intanto con ogni passo gli andavo inesorabilmente incontro. Sono arrivato al momento in cui avrei potuto salutarlo apertamente o fingermi distratto da qualcos’altro – come se ci fosse stato qualcosa più a destra, e poi davanti ai miei piedi che continuavano a muoversi. Lo guardavo di sottecchi, come se farlo con naturalezza fosse stato un gesto da maleducato. Ero nel mio imbarazzo, e non era successo niente. Rivendicavo iI mio diritto di essere introverso. Avrei voluto essere tranquillo e disinvolto, avrei voluto saper sorridere ad uno sconosciuto che stavo per incontrare. Invece quella era una violenza, una costrizione a cui dovevo sottostare. Stare lì ad aspettarmi era una prepotenza. Se non avesse usato un formale ed educato sir lo avrei bocciato, e sarei stato sgarbato anch’io, o almeno freddo.
Non l’ha usato.
Non avevo mai ipotizzato che parlasse il greco. Aveva anche una voce che non mi aspettavo per niente. Bella, di quelle che fanno sognare le donne. Da cantante lirico – di cui non capisco nulla. Se avessi detto baritono sarebbe stato tenore – e viceversa. O un attore teatrale – di quelli classici, un po’ vecchia maniera. Di Shakespeare ho visto diverse cose, ma non l’ho mai letto. Uno che declama poesie, una voce solista che quando recita ti avvolge. Oppure un doppiatore, o uno speaker radiofonico. Ma certe idee mi vengono in mente soprattutto adesso, lì per lì ho vissuto solo la sorpresa per come parlava e con cosa. E scoprivo che aveva un suono bello.
Mi ha chiesto se ero l’isola – e la prima volta che gli ho fatto sentire la mia brutta voce nasale è stato per essere antipatico. Un maestrino puntiglioso che lo correggeva. Se si fosse girato e mi avesse mandato a cagare nella sua lingua madre avrei avuto modo di scusarmi, almeno.
Elias.
Per me ho scelto Daniel, mentre inserivo la mia mano nella sua. Era l’ultimo giorno di luglio.
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