3 marzo 2013
Abbassa lo sguardo affondando le mani nelle tasche pesanti. Cammina con il collo incassato, ogni tanto si ferma per controllare l’ora. Ha tempo, non ha fretta, ha tutto il tempo che vuole. Deve solo camminare, magari cercare un posto dove scaldarsi e poi riprendere a camminare.
Nella mano destra stringe la maniglia della valigia, una vecchia valigia un tempo rossa. Sopra ci sono ancora diverse etichette sbiadite, forse di compagnie aeree, navi. Non si legge quasi nulla. Non è la sua valigia. Dopo otto anni sono in qualche modo arrivati a lui. L’ha recuperata in un deposito. La valigia è pesante, la cerniera arrugginita. Odora di muffa, di tempo passato.
Una valigia e una città sconosciuta.
Trova un riparo dalla pioggia, stira le braccia in alto, si abbassa un attimo sui talloni. Chiude gli occhi cercando un po’ di riposo. La pioggia continua il suo ritmo, lento ma costante. Apre gli occhi, si alza, solleva il cappuccio della felpa, riprende la valigia per dirigersi in discesa.
I lampioni disegnano sull’asfalto pallidi cerchi color ocra. Sale lungo una scalinata ed entra in una strada con diversi camion incolonnati. Cammina per circa un chilometro senza fermarsi, ogni tanto guarda la valigia: gli dispiace che si stia bagnando, ma non può farci nulla. Può solo camminare.
I camion iniziano a muoversi lentamente, il terreno vibra. Passa sotto un ponte, da sopra i rumori netti delle macchine che passano. Toglie l’acqua dai capelli, si appoggia al muro. Per terra una grossa pozza. Rabbrividisce per il freddo, sistema meglio il colletto e riprende la strada.
All’incrocio si immette in un viale alberato, procede su grosse lastre in pietra: ai lati palazzine a tre piani, lungo la strada nessuno. Esce dal viale seguendo una via secondaria e rientra in albergo. Saluta il portinaio, ritira la chiave, sale le scale ed entra in stanza. L’ambiente è piccolo ma curato e pulito. Toglie i vestiti fradici e li mette in ordine sopra le sedie. Dallo zaino tira fuori una tuta e calze pesanti.
Apre la tenda: la stanza è sopra un piccolo parco giochi, fuori solo la notte e la pioggia. Si siede premendo le tempie con i pollici, la testa sembra esplodere come attraversata da scosse elettriche. Nausea, fame. Deve mangiare qualche cosa, prendere qualcosa per il mal di testa e togliersi questo senso di malessere.
Prende il cellulare, lo accende, lo guarda mentre carica i dati. Con una lunga sequenza di colpi secchi arrivano tutte le e-mail, i messaggi e le notifiche accumulate nell’etere da circa cinque ore. Erano tutte in agguato qui attorno, gli viene da pensare e sorride.
Appoggia il telefono sul comodino, resta con i pollici affondati sugli occhi chiusi mentre la stanchezza si rilassa lungo tutto il corpo. La sente come un liquido caldo nei muscoli, lungo le ossa, tra le articolazioni. Sua moglie risponde al terzo squillo.
«Finalmente.»
«Scusa lo avevo tenuto spento.»
«Potevi chiamare.»
«Era spento.»
«Potevi chiamare lo stesso.»
«Ora non cominciare, ho la testa che scoppia.»
«Come è andata?»
«Tutto a posto.»
«Quando torni?»
«Se tutto va bene domani.»
«Non c’era bisogno che andassi.»
«Me lo hai già detto.»
«Non era il momento.»
«Senti, davvero ho la testa che mi scoppia e acidità di stomaco.»
«Non è colpa mia.»
«Non ho detto che sia colpa tua, solo che sono stanco.»
«Non puoi riversare sempre tutto sugli altri.»
«Ma altri chi?»
«Domani a che ora hai il treno?»
«Devo ancora guardare.»
«Non hai ancora preso il biglietto?»
«Lo prendo domani, oggi non sono riuscito.»
Silenzio.
«Come sta Alice?»
«Devo ancora andarla a prendere.»
«Ho voglia di vederla.»
«Anche lei.»
«Tu come stai?»
«Sono preoccupata.»
«Non esagerare, davvero.»
«Domani cerca di tornare.»
«Ti ho già detto di sì.»
«Non farmi del male.»
«Senti, davvero, ho la testa che scoppia.»
«Se è per questo io non ho dormito tutta la notte, non ho mangiato.»
«Mi spiace, domani torno.»
«Cosa fai adesso?»
«Sono in albergo, ora scendo per magiare una cosa e prendermi una bustina.»
«Alice ha preso un bel voto in matematica.»
«Sono contento.»
«Hanno chiamato dalla banca.»
«Lo immaginavo.»
«Non possiamo andare avanti così.»
«Sistemerò tutto.»
«Noi ti vogliamo bene.»
«Lo so.»
«Sono solo preoccupata.»
«Qui piove.»
«Anche qui.»
«Solo che qui c’è anche freddo.»
«Ho voglia di abbracciarti.»
«Domani torno.»
«Cosa era poi?»
«Solo una valigia.»
«Una valigia.»
«Non l’ho ancora aperta.»
«Non fare tardi questa notte.»
«Guarderò un po’ di televisione.»
«Ci sentiamo dopo?»
«No, non serve.»
Posa il cellulare sul comodino, poi lo prende di nuovo, legge qualche e-mail, ne cancella una decina. Si alza, lo spegne e lo mette in carica. Preme la testa con i palmi, si sdraia, toglie le scarpe, chiude gli occhi.
Nessun rumore, solo la pioggia nel buio.
Controlla il respiro. Il freddo si allontana dal corpo, rimane ancora nelle mani e nei piedi. Resta immobile.
Apre gli occhi e si gira su un fianco. Deve alzarsi, andare giù, prendere qualche cosa, dormire, partire e tornare.
Si alza e va alla finestra. Piove. Solo a guardare fuori ci si sente ghiacciare. Prende la valigia, la infila dentro l’armadio. La guarda, inspira e chiude le ante.
Iolanda
Non vedo l’ora anche io che ho già prenotato, forza lettori date una mano con i sostegni, prenotate, prenotate!
Simone Giusti (proprietario verificato)
Come godo a essere il primo ad aprire il contatto con l’autore. 🙂
Ma anziché parlare con l’autore vorrei dire due parole ai lettori, e lo faccio in pisano: “Gnamo, che voglio legge’ ‘sti cinque racconti che m’immagino da urlo!”. 😉