Era metà novembre del 2003 e mi accadde casualmente di ascoltare una conversazione tra due miei colleghi di università che turbò profondamente la mia giornata perché diede conferma, in maniera inequivocabile, della mia inettitudine e della crisi che di lì a poco mi avrebbe divorato.
Camminavo lungo il corso Umberto I per raggiungere l’università. Il cielo era azzurro e le candide nuvole erano mosse da un fresco vento. All’incrocio tra il corso e una stradina secondaria – forse via Seggio del Popolo o via Sant’Arcangelo a Baiano – dietro a un tavolino pieghevole un uomo dimenava animosamente le mani, spostando a grande velocità tre campanelle sul tappeto bianco. Sul suo volto le cicatrici recavano traccia di vecchie schermaglie. La gente si fermava a guardarlo e due turisti quasi sicuramente in combutta con l’uomo fingevano di scommettere sotto quale campanella si nascondesse la biglia, per attrarre qualche sprovveduto. L’uomo mi lanciò uno sguardo velato e senza calore e m’invitò a fare la mia puntata. Lo stupore sul mio volto e la rinuncia a partecipare al gioco fecero imprecare l’uomo. Non prestai ascolto a quegli improperi e proseguii dritto. Giunsi poco dopo alla soglia della scalinata che precede il palazzo dell’università e, come tutte le mattine, prima di varcare una delle tre aperture arcuate mi fermai a fumare una sigaretta, accostato alla sfinge di piperno che fiancheggia l’ingresso. Fu allora che vidi avvicinarsi quei due studenti, di cui non ricordo il nome, ma che ho impressi nella memoria.
Il primo aveva un viso esagonale irregolare, capelli bruni ricci, barba incolta e fronte spaziosa. Gli occhi erano neri, piccoli, vivaci e poco distanziati tra loro; lo sguardo affilato come una lama, le labbra sottili sopra un mento prominente. Sorrideva con ghigno condiscendente che mostrava il suo atteggiamento verso gli altri, avvertiti come inferiori. Indossava un comunissimo paio di jeans, un cappotto grigio scuro e una sciarpa marrone.
Il secondo, della sua stessa corporatura, aveva il volto ovale interamente glabro, grandi occhi castani e morbide labbra rosse. Portava una giacca di velluto color cammello, una maglia bianca di cashmere a collo alto, un paio di jeans e delle scarpe sportive.
«La lezione di oggi si prospetta interessante e ci sarà da divertirsi con la lettura metrica del distico elegiaco, soprattutto se a leggere sarà quel rozzo di Falce» disse lo studente riccio, sogghignando.
«Mi pare si chiami Falco, quel plebeo» rispose il calvo, mentre tirava una boccata dalla sua pipa. I due erano a pochi passi da me, tra noi un gruppo di studenti. Scivolai lungo il basamento che sorreggeva la sfinge in piperno e ascoltai il loro dialogo, seduto a terra per non farmi notare. Dapprima avrei voluto salutarli per avere un confronto, poi il coraggio e le parole mi mancarono e feci fatica a padroneggiare la rabbia che si agitava dentro di me. Ricacciai la collera in fondo all’anima (poteva ancora contenerla) e sorrisi, pensando al mio sogno. Continuai ad ascoltare.
«Immagino già la pessima figura che farà» disse il riccio.
«Non vedo come potrà affrontare la lettura del distico elegiaco, se ieri in aula non è riuscito a dire dove bisognasse mettere l’accento sulla coppia di omografi pèsca e pésca» osservò il calvo, divertito.
«Se alla sua nascita al posto delle balie ci fossero stati dei vecchi mercanti fiorentini, questi gli avrebbero posto come segno distintivo un braccialetto diverso dai soliti, proprio come un tempo quando, per indicare una merce di poco valore, si segnava sulle stoffe una tacca dimezzata» fu la secca conclusione del riccio mentre sfogliava i suoi appunti, tenendo tra le dita una sigaretta fumante. Fu allora che mi tirai su, varcai l’apertura arcuata e salii solitario, nascosto e ignoto a me stesso l’ampia scala monumentale per raggiungere l’aula. Non li vidi mai più da allora, perché abbandonai i corsi universitari da quel giorno. Quell’episodio fu determinante ma oggi non ritengo sia stato la causa principale, perché avevo già deciso di mollare.
I primi mesi di frequentazione mi avevano deluso.
Ricordo l’attesa del primo giorno, mentre attendevo il treno delle sette e un quarto, alla fermata Via Nocera della Circumvesuviana. L’eccitazione per la nuova avventura, il bisogno di ricercare, la vista della facciata aggettante dell’edificio mi avevano scosso il cuore, ma dopo un po’ di tempo non era rimasto nulla di tutto quell’entusiasmo.
Quel giorno di novembre, dopo l’incertezza dei primi momenti, mi fermai all’ingresso dell’aula già piena di studenti; i loro schiamazzi mi angustiavano, avevo la nausea e le vertigini e desideravo solo andare via. Rimasi immobile e pensoso, perché mi era tornato alla memoria un episodio simile dei tempi del liceo. Riguardava sempre l’interpretazione dei segni.
Un giorno, durante l’ora di chimica, la professoressa aveva deciso di svolgere un’interrogazione a tappeto. La domanda era sempre la stessa per tutti: la configurazione elettronica degli elementi. A turno, e seguendo l’ordine alfabetico, furono chiamati alla lavagna tutti i miei compagni che dovevano descrivere, in modo semplice, la disposizione degli elettroni presenti negli orbitali di ogni elemento che la professoressa asseggnava: 1s2 2s2 2p6, e così via. Andarono tutti bene e mentre attendevo il mio turno avevo avuto modo di osservare e imparare; avevo quindi tirato un sospiro di sollievo per la sufficienza che di lì a breve avrei ottenuto.
«Falco, avvicinati alla lavagna. Tocca a te» aveva bofonchiato la professoressa bassa e tarchiata, con il volto paffuto, giallognolo e malinconico. Portava a caschetto i capelli rossicci e ispidi e aveva occhi piccoli e spenti.
«Eccomi!» avevo risposto, ringalluzzito dagli ottimi voti dei miei predecessori.
«Descrivi ai tuoi compagni l’azoto, utilizzando la struttura a puntini di Lewis.»
Ero rimasto in piedi, immobile al mio posto per qualche minuto. Avevo levato lo sguardo alla finestra e gli abissi del mare mi si erano aperti dinanzi, inghiottendo il sole: solo buio e oscuri presagi. La struttura a puntini di Lewis pensai. Ma cosa cazzo è? mi ero domandato.
«Non so rispondere» era stata la mia laconica risposta e, come un condannato atteso dal suo boia, mi ero accomodato al mio posto, avevo atteso la fine della lezione e da quel momento non ero più andato a scuola, almeno per quell’anno.
Decisi, dopo questa rievocazione, di andare via e tornare e casa. Lungo il corso Umberto I mi fermai presso una bancarella di libri usati. Sfogliai una vecchia edizione del Don Chisciotte, la cui cellulosa e lignina emanarono un aroma estasiante come una soffice ciambella alla vaniglia appena sfornata. Riuscii, così, a lenire il dissapore dell’amaro inizio di giornata.
Erano da poco passate le nove di mattina e la città presentava il suo consueto caos. Auto in doppia fila, studenti che dalle città limitrofe invadevano come uno sciame di api i marciapiedi, ragazzi senza casco in due sul motorino. Appena scesi dal marciapiede, attraversai la strada e varcai porta Nolana per prendere il primo treno della Circumvesuviana che mi avrebbe riportato a Castellammare di Stabia. La porta – fiancheggiata da due torri in piperno recanti rispettivamente, da sud a nord, le divinatorie scritte “Fede” e “Speranza”, e che collega corso Umberto I e corso Garibaldi – era teatro del famigerato mercato del pesce. Mentre camminavo, prestando attenzione a non scivolare sui sampietrini irregolari bagnati da abbondanti carrellate d’acqua, ascoltavo gli schiamazzi dei venditori che esaltavano la loro merce.
«Teng ’o pesc’ bell, chi ’o vo?» gridava qualcuno, e dall’altro capo della strada si udiva in risposta: «Pesce vivo mo’ ll’ha pigliato ’a rezza». Mi destreggiavo tra le bancarelle di CD e DVD, tra prostitute in attività in pieno giorno, extracomunitari, sigarette di contrabbando e respiravo l’aria più sincera della napoletanità, quel profumo di pesce che s’insinuava nelle narici. Alcuni lo consideravano un odore disgustoso, per me era invece un odore confortante perché mi evocava il piacevole ricordo dei giorni felici e spensierati trascorsi nella pescheria di mia nonna.
Capitolo due
Sono nato a Castellammare di Stabia nel 1984.
Tra le prime cose di cui ho avuto coscienza, una è stata la differenza, ovvero quella condizione per cui più cose o persone si trovano in rapporto di completa o parziale diversità.
Meditavo su questa condizione mentre ero seduto in treno, osservando i passeggeri, e continuai a rifletterci anche una volta sceso. Alle undici esatte il treno della Circumvesuviana si arrestò alla fermata di Castellammare Via Nocera. Da lì sarei arrivato a casa in dieci minuti, ma non ne avevo voglia, avrei dovuto affrontare mia madre che avrebbe preteso i motivi della mia anticipata ritirata. Allora decisi di scendere a Castellammare Centro, e capitai in piazza Unità d’Italia. Attraversai la strada e mi ritrovai sul lungomare, nei pressi della cassa armonica.
Lì vicino, nella villa comunale, dei bambini giocavano a calcio, dei gruppi di vecchietti si agitavano mentre discutevano di politica locale, alcuni ragazzi giravano in bici, altri facevano footing e, infine, delle coppiette si scambiavano effusioni sulle panchine. La vista di quella promiscuità rappresentò terreno fertile per le mie elucubrazioni sulla diversità di tutte le cose della vita.
Ricordo esattamente il momento in cui ne ebbi prova in maniera inequivocabile. Avevo dodici anni e quindi frequentavo la seconda media. Un pomeriggio invernale mi trovavo a casa del mio compagno di classe Umberto e, benché non ricordi il giorno preciso, ho chiare le sensazioni che quel freddo pomeriggio mi lasciò. Era la prima volta che visitavo casa sua. Avremmo dovuto studiare e invece impegnammo tutto il tempo a giocare ai videogame e a spiare dal buco della serratura la sorella Vittoria che provava abiti per un diciottesimo insieme a un’amica altrettanto attraente. Mi bastò poco per capire che tutte quelle cose che osservavo non sarebbero mai state mie.
Non ricordo il nome della madre di Umberto ma ricordo che era una signora davvero bassa, graziosa, coi capelli corti biondi e occhiali rotondi. Mi osservava mentre ammiravo meravigliato tutti quegli oggetti. Era una casa grandissima. C’era un enorme divano, due poltrone, uno stereo, vasi, fiori e una stupenda libreria, ma la mia attenzione fu catturata dal computer, poggiato su un tavolo di vetro luccicante, fronteggiato da una grande sedia in pelle, molto diversa da quella dove mio padre leggeva il giornale la domenica mattina. Si respirava un’aria di felicità, sembrava come se ai componenti di quella splendida famiglia non mancasse nulla, come se avessero tutto a portata di mano e, caso mai avessero desiderato possedere qualcosa o fare qualcosa, la sensazione era che difficilmente non la avrebbero ottenuta. E in effetti era così.
Allora iniziai a riflettere e arrivai a congetturare che, se i miei desideri fossero stati gli stessi di Umberto, anche io avrei ottenuto quelle cose. Il ragionamento era semplice: Se ho chiesto a mio papà di regalarmi l’ultima versione di He-Man, e papà mi ha risposto che non era pronta e che lo sarebbe stata tra qualche mese, vorrà dire che se gli chiederò di regalarmi questa bella bici rosso fuoco, mio papà mi accontenterà sicuramente, perché ce ne sarà un’altra identica nella vetrina del negozio di giocattoli.
Intanto la signora minuta continuava a osservarmi, accarezzandomi, di tanto in tanto, dietro la nuca, e mi offriva merendine e succhi di vari gusti. Poi arrivò l’ora di cena e mia madre bussò alla porta. Appena la vidi la strinsi forte e, trascinandola per la gonna, la condussi fino allo studio, dove le indicai il computer: «Mamma, ecco. Vedi com’è bello! Non pensi sarebbe fantastico averne uno tutto nostro a casa?».
«Non mi sembra il caso» rispose mia madre, tenendomi per mano, mentre un’ondata d’umiliazione s’impossessò di me.
«Devi sapere che noi ne abbiamo uno perché lo utilizza mio marito per il suo lavoro. Non è adatto ai ragazzi della vostra età. Quando sarai più grande ne avrai uno tutto tuo» disse la signora teneramente, sorridendo con misericordia verso mia madre. Notò un certo imbarazzo sul suo triste volto per l’estraneità a quell’ambiente; il volto di una madre che non aveva potuto offrire gioia al proprio figlio.
Mia madre sapeva che la vita era tutt’altro che mera materialità e consumo. Avrebbe sicuramente auspicato che il proprio bambino da grande agisse secondo umiltà, saggezza e onestà, ma si era trovata impreparata a come rispondere in quella circostanza nonostante sapesse che, prima o poi, sarebbe arrivata.
Col passare degli anni la situazione non era affatto cambiata nella sostanza, ma solo negli accidenti. Ora quel computer che bramavo da bambino aveva mutato aspetto e si aggirava sotto il mio ingenuo sguardo sotto forma di un motorino blu cromato, parcheggiato sul ciglio della strada il sabato sera. Oppure si muoveva per le strade e leggiadramente sfiorava le proprie labbra per correggere le sbavature di rossetto e, seguendo i suoi passi, ne sentivo il profumo estasiante di acqua marina, perdendomi con lo sguardo tra le sue curve sinuose, il suo seno altezzoso, il suo gesto morbido che annodava i capelli corvini del suo capo. Attendevo educato il suo arrivo quando, dalla finestra di casa, la osservavo uscire per andare a scuola e mi incantava il fluttuare eccezionale della sua mano che avvicinava la sigaretta alle labbra, come un ramo muove le foglie al vento sul limitare del ruscello che nutre la natura, sul monte che declina sui fitti boschi della rassegnazione.
Mentre rievocavo queste immagini mi accorsi di trovarmi presso la biblioteca comunale Gaetano Filangieri e decisi di passare lì alcune ore, per consolare il mio animo sconfortato con la lettura dello Zibaldone di Leopardi. Alla biblioteca si accedeva attraversando il portico di Palazzo Alvino (per alcuni Palazzo Vanvitelli) che affaccia sul corso Vittorio Emanuele. I ragazzi l’affollavano in particolare nelle ultime settimane che precedevano gli esami universitari, quando ormai i corsi erano terminati e, soprattutto, quando ai laureandi si aggiungevano i liceali. Era davvero complicato riuscire a trovare la concentrazione, con il continuo mormorio che infastidiva più di un insolente insetto estivo.
L’edificio era in pessime condizioni, abbandonato dalla cosa pubblica. Non credo sia stato mai riverniciato. Fuori c’era un bel giardino, con una fontana in pietra rotonda e una dozzina di pesciolini rossi. All’interno, al piano terra, sulla destra si trovavano due computer e la stanza per gli impiegati, a sinistra un grande mobile che ospitava gli schedari e un ampio tavolo per la consultazione.
Il primo piano era dedicato al deposito libri; al secondo, e ultimo, si trovava la sala studio. Era un luogo familiare, pieno di giovani e di ragazze da osservare e amare. La frequentavo dai tempi del liceo. A casa non riuscivo a combinare niente e i compiti mi annoiavano. In biblioteca, invece, potevo consultare gratuitamente tutti i libri che mi interessavano, fumare in tranquillità fuori sul terrazzo e stringere nuove amicizie.
Dopo la mia decisione di non frequentare più quegli odiosi e nauseanti corsi universitari, la biblioteca divenne la mia seconda casa, il luogo nel quale, nei pomeriggi invernali freddi e piovosi così come nei giorni primaverili caldi e luminosi, sprigionavo la mia creatività, le mie paure, i miei sogni, il mio vivere su una diversa nuvola che vagava incostante nel cielo del destino.
All’ingresso, sul banco, c’era il libro delle entrate e delle uscite che bisognava firmare. Prima di apporvi la mia firma, davo una rapida scorsa per vedere se la ragazza che m’interessava al momento era già arrivata. Erano attimi di attesa dai quali poteva dipendere la mia intera giornata. Ogni mattina trovavo un impiegato diverso preposto al banco dell’ingresso. In tutto erano tre: la signora Carla, la signorina Enza e il signor Alberto. Quella mattina al banco c’era il signor Alberto; occhi verdi e capelli brizzolati: era il personaggio più sofisticato. Sempre abbronzato, mostrava una discreta e accurata attenzione per l’abbigliamento, con accostamenti delicati e fini, d’ottima qualità.
«Buongiorno» dissi salutandolo mentre, seduto alla sedia con le gambe aperte, sfogliava il Corriere dello Sport.
«Ciao Eugenio» rispose soddisfatto, con un accenno di sorriso. Pensai di non averlo mai visto con un’espressione di tristezza sul volto. Era un classico esemplare di felicità organica. Questo, in parte, mi sollevava perché mi accorgevo che c’era chi riusciva a sorridere alle infinite immagini sotto le quali si nasconde, forse, il senso di questa maledetta commedia che è la vita.
«Come va?» gli chiesi, ricambiando il sorriso.
«Sai di cosa ho voglia stamattina? Di una bella scopata.»
«Io mi accontenterei di vedere la ragazza bionda dell’altro giorno ma non è ancora arrivata. Spero che venga.» Era già con la testa nel giornale e non sentì la mia risposta stupida. Firmai, riposi lo zaino nell’armadietto e mi avviai al secondo piano.
Seduto al mio banco, solo, cercavo consolazione nella lettura, cercavo una frase, un pensiero, una parola che potessero colpirmi. Ero lì in agguato mentre sfogliavo le pagine e, di tanto in tanto, ne annusavo l’odore mentre le facevo scorrere veloci con un tocco del pollice sotto al mio naso, oppure alzavo lo sguardo verso la ragazza seduta di fronte a me, pronto a voltare il viso verso la finestra appena incrociavo il suo. Immaginavo come ci si potesse sentire a essere il suo ragazzo, stringerla tra le braccia e baciare le sue rosee labbra, scostando i suoi capelli scuri, e perdersi nei suoi occhi marroni.
All’una meno un quarto la tristezza si impadronì nuovamente di me. La sala studio era quasi totalmente deserta. La ragazza era andata via e io mi alzai per avvicinarmi al suo banco e mi sedetti al suo posto, sul quale era disegnato un cuore con la matita e, all’interno, la banale e stomachevole dedica Antonio ti amo. Chissà se era opera sua. Chissà se Antonio era il suo ragazzo. Chissà se Antonio sbatteva forte senza delicatezza quel fiore maledetto, tenue come un raggio di luce. Quel pensiero mi diede i brividi. Chissà se sapeva che pensavo a lei, dopo averla vista solo una volta. Pensavo al pomeriggio, se alle tre e un quarto l’avrei rivista e il suo sguardo mi avrebbe suscitato quelle immagini che proiettavano dentro di me sensazioni estatiche di piacere e di fantasia, tanto appaganti quanto desolanti, non appena la percezione del reale m’inghiottiva in un profondo abisso di inganni.
Alessandro Ridosso (proprietario verificato)
Grazie Michela, spero di raggiungere presto il traguardo. Crepi il lupo!
catuognomichela (proprietario verificato)
” Il desiderio di rivivere il passato che fugge in fretta, la ricerca di una conferma per la nostra libertà.” Ho letto le poche pagine dell’anteprima e il romanzo mi ha molto affascinata, sono riuscita subito ad immaginare nella mente i vicoli e i palazzi di Castellammare di Stabia, l’università di Napoli, forse anche perché luoghi da me conosciuti, la biblioteca e la casa. Sono riuscita anche ad immedesimarmi nelle sensazioni del protagonista alla vista di quella ragazza. Trovo che le descrizioni sia dei luoghi che delle sensazioni siano molto belle, reali e profonde. Mi dispiace che non ci sia la bozza perché l’avrei voluto leggere tutto. Mi auguro che arrivi presto all’ultimo obbiettivo per poterlo leggere per intero. In bocca al lupo