A che punto mi trovo? Di cosa è fatto il mio presente, i miei interessi, le mie relazioni, i desideri, le nostalgie, gli umori, i pensieri negativi e positivi, il tempo che destino ai ricordi e quello rivolto ai progetti. Cosa si legge sulla mia faccia?
Non so se voglio guardarmi. Sono ancora io?
Sei Aurelio?
La prima volta che me lo sono sentito chiedere è stato a una cena di classe del liceo. Dopo la maturità ognuno di noi aveva mantenuto i rapporti solo con i compagni diventati amici, nessun ritrovo collettivo, nessun appuntamento annuale per ripercorrere gli anni passati insieme. Nessuna cena di classe. Sino al 2014. Quell’anno, su iniziativa di Dario, il compagno più ostinato nel voler ripescare quel pezzo di memoria scolastica, tutti i vecchi compagni erano convinti che sarebbe stato bello rivedersi. Io ne avrei fatto a meno, cerco di evitare questo genere d’incontri, soprattutto quelli affetti da gioventù perduta, quelli che ti ricongiungono a persone che non vedi più da quarant’anni. In quell’improvviso desiderio collettivo di ritrovarsi sentivo una gran puzza di nostalgia. Ho telefonato a Giacomo, certo della sua avversione per i sentimentalismi di ogni genere, per la retorica dei bei tempi andati, insomma ero sicuro che non avrebbe partecipato. Era felicissimo. Ho capito che dovevo arrendermi.
Il ritrovo è stato fissato un sabato di fine maggio, davanti al nostro liceo. Parcheggiata l’auto mi sono incamminato verso un capannello di sconosciuti. Questa serata è una trappola e ci sto cascando dentro, vorrei attraversare quel gruppo di anziani e uscirmene in fretta ma Giacomo mi ha avvistato, ecco Aurelio, ti aspettavano tutti. Sono travolto da un vociare confuso, finalmente, quanto tempo, fatti vedere, fatti abbracciare. Vecchie compagne mi seppelliscono di parole, qualcuna mi bacia, mi stringe la faccia tra le mani, piovono grandi pacche sulle spalle di ignoti in jeans e felpa, strette di mano di sconosciuti in giacca e cravatta. Sono stordito e butto lì frasi a caso che vanno dal semplice ciao, al che bello rivederti, al non sei cambiata per nulla, anche se fatico a distinguere chi ho davanti. Sembra che tutti mi riconoscano. Fino a che si fa avanti un uomo tarchiato, il corpo ha la forma di un fusto di birra. So chi è, Vittorio De Santis, moto Gilera, ex di Lotta continua e ora attivista della Lega, commercialista, divorziato due volte, tifa Atalanta. So queste cose perché lo seguo sui social. Ci tengo a seguire quelli che mi stanno sulle palle, specialmente quelli che mi stavano sulle palle in passato. Si pianta di fronte a me e scoppia a ridere, ma non ci credo, sei Aurelio? Sei davvero tu? Bella domanda. Sono ancora io?
Le otto della mattina, il sole illumina la stanza da bagno ma accendo ugualmente la luce. Ho giurato a me stesso che oggi l’avrei fatto, nessuna indulgenza, nessuna dilazione. La testa. I capelli superstiti sono posizionati ai lati, l’ultima trincea. Una volta al mese vado da un parrucchiere cinese, vicino a casa, un tipo silenzioso. Evita di farmi le solite domande dei barbieri, come li vuole? Oppure, il solito? Il nostro dialogo si è concluso in occasione del primo incontro, quando mi ha chiesto, tagliare? Ho pensato, un cinese che dice la erre. Avrei preferito che dicesse tagliale? Forse sì, come nelle barzellette i luoghi comuni, anche i più stupidi, cercano conferme. Tempo per la rasatura della testa cinque minuti. Vado dritto alla cassa e pago, dieci euro. Mi dà lo scontrino. Oltre al taglio dei capelli mi sono fatto sfoltire le sopracciglia che sono più bianche che nere. Prima le tingevo, un espediente a cui ricorrevo per sembrare più giovane. Mi aveva convinto Emilia, diceva che le sopracciglia scure avrebbero dato risalto ai miei occhi, ma dopo un paio di mesi ho lasciato stare. Ora è tutto coerente, capelli, sopracciglia, baffi e barba miscelano il bianco al grigio. Non mi secca incanutire, non sono questi i mutamenti dell’età che temo, piuttosto è l’anarchia pilifera che mi spiazza, i peli che scompaiono e quelli che appaiono in alcune parti del corpo. E non è tutto, è in atto un’inquietante separazione tra le dita del piede sinistro, l’alluce e il secondo dito si sono avvicinati lasciando un vuoto al centro. Un’interruzione nell’allinea- mento che evidenzia un’estremizzazione a sinistra delle altre tre dita. L’altro piede, il destro, ha le cinque dita unite, compatte. Politicamente non saprei come interpretare la presa di posizione dei miei piedi. La solita frammentazione a sinistra? Invecchio e senza rendermene conto mi sto spostando a destra?
– Ti sei già pesato? Hai visto la mia forbicina delle unghie? Sai che ore sono?
Emilia ha una potenza di fuoco nel farti domande che non ha eguali.
– No, non mi sono pesato, non so dove sia la forbicina, sono le otto e dieci.
– Sbrigati che dobbiamo uscire e ricordami che devo passare in tintoria.
– Va bene.
– E dalla cartolaia. Ma prima devo fare un bancomat.
– Paghi tu allora.
Il silenzio che arriva dall’altro bagno lo conosco, meglio spezzarlo subito.
– Scherzavo, pago io.
– Lo sai che poi te li do.
– Come sempre Emilia.
– Antipatico.
Interrompo il duello a distanza di bagni. Ho notato una fitta boscaglia di peli grigi sulla pancia, l’ombelico è circondato, vicino alla resa. Non voglio scoprire altro e abbandono l’idea di ulteriori indagini corporali. Infilo una maglia della salute pulita, nera con tre bottoncini sul davanti, mi sento subito meglio, più magro. Avvicino il viso allo specchio, la pelle è liscia, non ho rughe, non ancora. Le orbite oculari sono più scavate mentre gli occhi, sottili (due fessure, diceva mia madre) e neri, mi pare non abbiano l’opacità acquosa della vecchiaia. Sono un po’ tristi ma solo un poco. Le orecchie, grandi come quelle di mio nonno Pasquale, fanno bella mostra di sé. A scuola, specie alle elementari erano uno dei passatempi preferiti dei miei compagni. Ho la testa piccola e le grandi orecchie erano un bersaglio invitante, difficile resistere alla tentazione di colpirle. Sui padiglioni auricolari spuntano dei peli bianchi sparsi in modo irregolare, così su entrambi i lobi, proprio al centro. Il ricordo delle orecchie pelose di mio nonno si sovrappone. Sto diventando mio nonno.
– Aurelio mi do un’aggiustata e sono pronta. Tu a che punto sei?
– Dammi un attimo.
Il naso. I punti neri non mancano nonostante i trattamenti a cui sono stato sottoposto da mia madre in gioventù. Hai la pelle un po’ grassa e preparava delle pappette di grana padano che mi spalmava sul naso, aveva letto da qualche parte che avrebbero purificato la pelle. Quando Emilia è subentrata a mia madre nel trattamento dei punti neri, ho scoperto di quale ferocia fossero capaci le sue mani. Ti farò un po’ male ma devi resistere, quando non ce la fai più, lanci un grido e smetto. Lanciavo un grido ed Emilia smetteva. Il tempo per dire, resisti ho quasi finito. Sussurri e grida in un rito tribale ribadito per anni. Una tortura. Eppure ogni volta mi offrivo senza opporre resistenza, anche se in quei momenti desideravo ucciderla. Almeno un poco.
– Ci sei?
– Quasi, mi lavo la faccia.
– Non ti sei ancora lavato?
Mentre mi asciugo, la voce di Emilia appare alle mie spalle, è un sussurro.
– Domani è il mio compleanno.
– Non l’ho dimenticato.
– Ho sessantaquattro anni, sto diventando vecchia Aurelio. Mi sento vecchia.
Mi volto verso di lei, i suoi grandi occhi verdi sono colti da una consapevolezza improvvisa, da uno stupore irrimediabile. Non aggiunge altro, forse vuole che le dica che non è vero.
Emilia appoggia la testa sul mio petto, dovrei consolarla dicendole semplicemente la verità, che non sembra e non è vecchia.
Ma sto zitto.
Mentre le accarezzo i capelli do un’ultima occhiata allo specchio. Non riesco a credere che sto per compiere settant’anni.
Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere
Paolo Giordano, Tasmania
II
Perdersi
Mio padre era un fotoamatore con una necessità inesauribile di fissare i passaggi di vita dei suoi figli, i battesimi, i primi giorni di scuola, le lauree ma anche i piccoli avvenimenti famigliari: i giorni speciali. Li chiamava così, erano i pranzi di natale, le feste di compleanno, le mie partite di calcio con la squadra della Saetta, i saggi di ginnastica artistica di mio fratello. Filmava ogni anno le vacanze estive sulle Dolomiti con riprese che alternano i panorami a siparietti nei quali io, mio fratello e mia madre passeggiamo nei prati e nei boschi, raccogliamo funghi, fiori, mirtilli e ridiamo. Le immagini sono felici, e ripetitive. Difficile distinguere se per lui fosse più forte la passione del cineamatore o il desiderio di creare un archivio della sua famiglia.
Alla sua morte oltre alla cinepresa, il proiettore, la moviola e la taglierina per il montaggio delle pellicole, ho ereditato tutti i filmini. Gli album di fotografie invece, li ha mio fratello, sono una ventina, con le copertine in pelle nera. Avrei voluto tenerli io, lo dissi a mio fratello proponendogli uno scambio, ma non ne ha voluto sapere. Per lui era una questione di comodità, gli album sono sempre a portata di mano e si sfogliano facilmente. Unica eccezione un piccolo album rilegato con scritta dorata sulla copertina, è arrivata una cicogna. Custodisce le notizie relative alla mia nascita, scritte da mia madre.
Si legge che sono nato prematuro, di otto mesi, alle 5 della mattina del 4 giugno 1954. Era un giorno di sole dopo tanti giorni di pioggia. Pesavo 2 chili e 850 grammi, ero lungo 49 centimetri e ha le orecchie grandi, come il nonno Pasquale. Se fossi nato femmina mi avrebbero chiamato Aurelia, come la via. A seguire, l’elenco dei visitatori in clinica e dei regali ricevuti: un braccialetto d’oro, una catenina con medaglietta raffigurante un angelo custode, un sonaglio argentato e imprecisati, alcuni bei doni. Nella pagina dei primi avvenimenti sensazionali, si segnala che ha osservato la luce a 8 giorni, sorriso a 20 giorni, si è seduto a 5 mesi e ha camminato da solo a 14 mesi. Tardi! Tardi è sottolineato. Il primo taglio di capelli è del 20 dicembre 1955, ha pianto ovviamente.
Le note di mia madre terminano qui. Le pagine successive che contengono le voci relative al mio stato di salute, ai miei ricordi alimentari, alle prime amicizie, alle parole che ho creato, a come ho reagito ai rombi dei tuoni, alla prima neve, al mio primo brusco contatto con il terreno, alla mia prima contusione, al mio primo desiderio, al primo capriccio, alla prima prodezza, sono vuote.
Apro questo album tutti gli anni, per il mio compleanno e tutti gli anni ho una strana voglia di compilare le voci mancanti con una serie di false notizie. Fake news ad uso privato, per migliorare la mia reputazione di bambino. Poi lascio perdere e guardo le ultime pagine con le foto di Aurelio in braccio alla mamma, Aurelio in braccio al papà, Aurelio in braccio alla nonna, Aurelio in braccio alla zia Antonietta, di Aurelio sul vasetto, di Aurelio al mare con il cappello del nonno in testa, di Aurelio che ride felice. Questo me lo ricordo, ricordo che ero un bambino felice. Sessantanove anni fa.
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