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Cattedre e gessetti – Storia (semi)seria di mezzo secolo di scuola italiana

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Dal 1956 a oggi, la scuola italiana è passata attraverso innumerevoli riforme, ma l’impostazione dell’insegnamento è davvero cambiata? 

Piero Passariello, docente ed educatore da oltre quarant’anni, racconta la sua esperienza tra cattedre e gessetti: alunni ingestibili, colleghi sopra le righe e problemi che non hanno fatto altro che peggiorare le già complicate condizioni della scuola come istituzione. Aneddoti, riflessioni e critiche danno modo a chi non è insegnante di riflettere sul modello attuale, su ciò che è ancora da cambiare e su quello che, invece, va mantenuto e migliorato.

Prologo

Ho frequentato l’Istituto Magistrale; la mia scelta cadde su quella scuola superiore non perché pensassi di fare l’insegnante, ma per ragioni molto pratiche: era l’unico quadriennale, più semplice di un liceo, e mi offriva la possibilità di iscrivermi a qualsiasi facoltà attraverso un quinto anno propedeutico serale che risultava essere una pura formalità.

Credo che sia problematico chiedere a un ragazzo di 13 anni di scegliere un indirizzo di studi sulla base di propri interessi o attitudini. Nel caos che ha governato la scuola italiana una delle poche idee positive è stata quella di prevedere un biennio comune al termine della scuola media, dopo il quale individuare la propria strada.

Idea sensata, perché spostava a 15 anni scelte fondamentali per la vita che richiedono una maturità superiore a quella di un ragazzino al quarto mese di frequenza della terza media; inattuabile perché, al termine della scuola secondaria di primo grado (ora va chiamata così), esiste un tale divario nelle competenze acquisite fra gli studenti più bravi e quelli con i voti più bassi che non appare possibile individuare contenuti comuni per un altro biennio di studi. Anzi, quarantatré anni di lavoro nella scuola mi hanno mostrato che già in uscita dalla scuola elementare (oggi va chiamata Primaria) esistono differenze enormi.

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Si cerca di porre rimedio con piani personalizzati, individualizzati, strumenti compensativi e quant’altro, ma i risultati restano negativi, soprattutto in una scuola che continua a privilegiare i contenuti più delle competenze.

La mia scelta si rivelò azzeccatissima: la fatica era quasi nulla, i voti più che accettabili e, non avendo mai ambito a una pagella ricca di 8 e 9, mi restava molto tempo a disposizione per coltivare quelli che allora erano i miei interessi principali.

Allo sport si erano aggiunte le ragazze che, dopo otto anni di classi esclusivamente maschili, costituivano l’elemento più interessante nel passaggio alla scuola superiore. Oggi che le classi maschili e femminili non esistono più da tempo, faccio fatica a capire la ragione di quella divisione assurda che prevedeva, addirittura alle elementari, due ingressi separati. Al piano della mia classe, in barba a qualunque norma di sicurezza, l’uscita sulle scale da cui passavano le ragazze era chiusa a chiave. Non mi sembrava che fossimo così pericolosi per l’altro sesso, per altro ancora obbligato, alle medie e alle superiori, a portare il grembiule, mentre i maschi ne erano esentati terminate le elementari.

Godendo di una libertà impensabile nella scuola dell’obbligo, coglievo ogni occasione per approfondire la conoscenza dell’universo femminile.

L’aula di audiovisivi, buia e quasi sempre vuota, era il luogo ideale per appuntamenti mattutini costruiti con strategie sempre diverse; ad esempio: l’impegno quale rappresentante di classe mi autorizzava a uscire durante l’orario di lezione, mai ostacolato dai docenti che avevano vissuto anni di durissime contestazioni studentesche. Esaurite quelle ore, c’era sempre Mimmo, il mio compagno di banco non vedente, le cui richieste erano sempre accolte dai professori; quante volte gli ho detto: «Mimmo, chiedi di andare al gabinetto!».

Lui, anche se non ne aveva alcuna necessità, acconsentiva e naturalmente mi offrivo di accompagnarlo. Lo lasciavo nei gabinetti e andavo all’appuntamento concordato prima di entrare a scuola.

Povero Mimmo, credo di avere in parte sulla coscienza la sua bocciatura per tutte le spiegazioni che gli ho fatto perdere, facendogli trascorrere delle mezz’ore nei gabinetti puzzolenti.

Come ancor oggi accade in tutte le classi, gli insegnanti dopo un po’ di tempo ci cambiarono di posto e io persi la mia scusa per allontanarmi dall’aula.

Ma si sa che la necessità aguzza l’ingegno; avendo il banco vicino alla finestra che dava sul cavedio della scuola ed essendo 36 in classe, approfittavo degli ovvi momenti di distrazione dei docenti per, è il caso di dire, sgattaiolare fuori.

Non poteva durare a lungo; il segnale arrivò alla fine del primo quadrimestre sotto forma di un 6 in condotta che, se confermato a fine anno, avrebbe significato la bocciatura nonostante i voti sufficienti in tutte le materie.

È difficile oggi spiegare ai ragazzi che 8 di condotta è un brutto voto che, quando frequentavo io la scuola, veniva dato ai peggiori elementi; il 7 era riservato a chi si macchiava di qualche colpa grave, con conseguente rimandatura a settembre ed esame di tutte le materie; il 6, che appunto significava bocciatura, era riservato ai casi irrecuperabili.

Il secondo quadrimestre fu dedicato a pensare a nuove strategie meno pericolose da mettere in atto l’anno successivo; nacque in quei giorni l’idea del giornalino della scuola che, insieme all’impegno di rappresentante di classe e alla partecipazione ai campionati studenteschi, fu per i due anni successivi il passaporto per uscite fuori orario.

Promosso in seconda mi cambiarono corso, perché su 36 fummo promossi in cinque a giugno e in nove a settembre.

Pensando ai miei compagni di allora, posso dire che sicuramente molti avevano sbagliato indirizzo di studio, ma è vera follia consentire la formazione di classi di 36 alunni che permettono solo lezioni frontali, senza alcuna possibilità di rispondere a esigenze individuali e aiutare chi può trovarsi in difficoltà. In tal senso un caro amico di quegli anni è la prova vivente dei limiti di quella scuola: bocciato per il secondo anno di seguito, non potendo per legge ripetere una terza volta la stessa classe, si iscrisse in una scuola privata e, preparato in modo più personalizzato, riuscì a recuperare l’anno perso, a iscriversi in terza con me, a dare la maturità e a laurearsi senza problemi. La scuola pubblica aveva invece sancito che per lui quel percorso di studio era precluso.

Giunti all’anno della maturità, tutti cominciammo a riflettere su cosa fare dopo. Pochissimi pensavano di dedicarsi all’insegnamento, e io non ero tra quelli.

Poi accadde ciò che ha cambiato la mia vita.

2022-01-15

Aggiornamento

Ringrazio tutti gli amici che hanno acquistato il mio libro consentendo il raggiungimento delle 200 copie prenotate. Come sapete ciò farà sì che il volume venga pubblicato ed inserito anche nel circuito di vendita delle librerie. Ora resto in attesa dei vostri commenti se avrete voglia di leggere la versione in pdf che vi è stata mandata insieme alla conferma dell'acquisto. Ancora grazie a tutti e buona lettura

Commenti

  1. Albi Beltrami

    Salve Prof, come sta?
    Credo che prima o poi leggero` il suo libro, mi sembra interessante e divertente. Tempi che furono, si dice.

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Piero Passariello
È nato e vive a Genova, dove ha frequentato l’istituto magistrale. Conseguito il diploma, ha iniziato a lavorare come insegnante di scuola elementare e come educatore nelle colonie estive. In contemporanea, ha portato avanti la carriera universitaria, che ha però interrotto per iscriversi all’ISEF e diventare insegnante di educazione fisica. Attualmente è in pensione e si dedica ai suoi tre nipoti e all’allenamento di squadre giovanili di pallavolo.
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