PRIMA PARTE
Yana e Cheyenne
Prologo
Aosta, febbraio 2040
Rifugio IntraRebels
Reparto cellula operativa Omega
Seduto nell’anticamera di un labirintico rifugio sotterraneo c’è un ragazzino con un grembiule rosa di una taglia più piccola. Ha i capelli a caschetto color zafferano e le unghie dipinte con la tempera, un aspetto che stona con il luogo nel quale si trova: una stanza umida e grezza, quasi priva di luci, non fosse per un paio di candele accese. Il servizio di sicurezza, dopo aver individuato due caccia che si avvicinavano a gran velocità, ha infatti deciso di spegnere il generatore. Al ragazzino il buio non dispiace, anzi, lo preferisce alle lucerne di metallo attaccate alle pareti, che quando attivate creano un fastidioso brusio. E il buio poi gli evita di ricordarsi cosa ha attorno: incrostazioni sui muri, crepe che sembrano i graffi di un gigante e muffe. Muffe dalle forme più bislacche. Meglio le candele. In quella mancanza di luce può con la fantasia farsi trasportare da un’altra parte, dove non ci sono bombe o attacchi nel pieno della notte.
Ora è seduto a testa bassa davanti a uno scrittoio sgangherato, verniciato di rosso merlot e decorato con delle nuvole fatte di carta. Sta disegnando su un quadernino; impugna il pennarello così forte che il segno scava dei solchi nel foglio. Ogni tanto, con la coda dell’occhio, punta a una porta chiusa dalla quale sopraggiungono rumori di tavoli e sedie sbattuti contro il muro. Tutti quegli strepiti mentre dal corridoio, oltre lo sportello di ferro arrugginito, continuano a giungere i soliti fischi, quei fischi del vento che a volte lo tengono sveglio e che sembrano gli ululati di uno strano animale. Sul legno del tavolo, lì dove la vernice si è scrostata e trasformata in piccole squame che vogliono librarsi in cielo, ci sono dei marchi bianchi: un geroglifico che solo lui sa decodificare. Ogni giorno aggiunge un tratto, e ogni giorno fa anche un’altra cosa: colora di bianco un pezzetto del puzzle e lo unisce agli altri che ha accuratamente posato sul pavimento, vicino alle brandine.
Passano alcuni minuti e poi dalla stanza con la porta chiusa cominciano a giungere sgridate e risate acidule. Il ragazzino inizia a mordersi il labbro inferiore; lo morde forte, sempre più forte e con gli occhi che si riempiono di lacrime: la carne si gonfia e diventa bianca, così bianca che si confonde con il colore dei denti. Ma lui continua, incuriosito, per vedere fin dove può arrivare. Quando le prime gocce di sangue cadono dal labbro e si adagiano sul foglio, confondendosi con i tratti neri del pennarello, ne rimane estasiato. Si avvicina alla cellulosa e ci passa la punta della lingua. Assapora il sentore ferroso mischiato con l’amarognolo dell’inchiostro e sorride, un sorriso fatto sì di meraviglia ma anche di una certa perfidia. Da quella camera chiusa, infatti, i tonfi sono diventati una sequenza di percosse. E lui non riesce a far finta di niente, sono troppo rumorosi. A due passi da dove siede. Stacca la lingua dalla carta e nel rialzarsi emette un verso che sembra quello di un felino selvaggio.
«Shhhh, shhhhh.»
Scatta in piedi con le mani strette a pugno e rimane fermo a osservare il battente di quella stanza chiusa con occhi carichi. Carichi di livore. Inspira e caccia indietro alcune lacrime con tutta la sua volontà. Abbassa la testa, pensieroso. Con una mano chiude il quadernino e lo avvicina al bordo della scrivania. Lo pone ad angolo retto con cura, come se fosse un dono che deve essere riscosso.
Rialza la testa e rimane immobile… immobile finché quella porta non si sarà riaperta.
Continua a leggereCapitolo 1
Vent’anni più tardi
Roma City
Distretto Due
Con un movimento della mano Cheyenne fa partire i messaggi del giorno, restando sdraiato: il ventaglio di schede digitali appare sopra il comodino, ma la scritta Nessun colloquio aleggia luminosa. Si alza dal letto con il lenzuolo a mo’ di mantello e raggiunge la dispensatrice di caffè agganciata al frigo.
«Ah, ecco!» mormora fra sé spostando un paio di mutandine che trova attaccate con un post-it alla pulsantiera. Ti lascio queste come ricordo! Una cosa come quella di stanotte non mi era mai successa. Sei proprio uno sfigato!
Appoggia slip e bigliettino sopra il frigo e seleziona un espresso a intensità dodici mentre fa partire l’unico messaggio in segretaria: «Ehi, Cheye, sono Tommy. Sei sveglio? Com’è andata con Bernadette? Mi sa che le piaci proprio… fatti sentire quando sei operativo!»
«Bernadette!» farfuglia Cheyenne divertito. Raggiunge il bagno e fa partire la doccia con un segnale vocale. Sorride un’altra volta pensando a Bernadette ed entra nel box lasciando che l’acqua bollente lo avvolga di pace e leggerezza. Il rapimento dura poco perché, appena il conto alla rovescia con la parola Millilitri arriva allo zero, il getto si interrompe. Nello stesso istante il segnale di chiamata suona, colorando di rosso le nuvole di vapore. Cheyenne esce dal cubicolo e si avvicina al pannello touch screen accanto allo specchio. Fa scivolare l’indice e il medio sullo schermo appannato e la scritta Attesa appare sul display. Spalanca la porta e raggiunge il salotto, inseguito dal vapore che porta con sé le note del suo bagnoschiuma – una fragranza al pepe nero con accenni di caffè. Si siede accanto alla centralina smartHub e lancia un’occhiata all’immagine che rotea a mezz’aria. Schiarisce la vetrata che dà sul terrazzino e di colpo i raggi del sole invadono l’appartamento affrescando le pareti di silhouette ondeggianti. Con un movimento del braccio trafigge l’oloproiezione.
«Pronto, signor Bozo? Finalmente! Sono Juliette Aspensi del Dipartimento del sano vivere.»
Cheyenne si blocca. Solleva un sopracciglio e rimane in silenzio.
«Signor Sheyenne Bozo, è in linea?»
Ora il sole illumina tutto l’appartamento: un cubo bianco nel quale gli unici colori sono i tubi arancioni dei cavi di trasmissione e le venature del pavimento in rovere antico… e i post-it, quei post-it gialli che è ancora solito usare come promemoria.
«Si dice Cheyenne, con la C di Charlie.»
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