Si rannicchia sotto il lenzuolo, ne percepisce il profumo, sa di bucato appena fatto ed è così liscio, la avvolge in un abbraccio sottile e delicato, una carezza angelica. Non sono nel mio letto. Quest’improvvisa consapevolezza non fa altro che nutrire l’ansia che già la costringeva in una posizione fetale. Ancora non riesce ad aprire gli occhi, percepisce la luce da sotto le palpebre ma non riconosce il profumo di quel letto, di quella stanza. Il battito si fa accelerato, il cuore, unico organo che finora se n’era stato buono, si unisce alla cavalleria per cercare anch’esso di sfuggirle, possibile che nemmeno parti di me vogliano stare con me?
Perché mi fuggi, cuore? Poggia il palmo della mano destra sullo sterno e fa pressione cercando di impedire al muscolo di esploderle nel petto, le pulsazioni vanno perfettamente all’unisono con le martellate che continua a sentire sotto le tempie, come se cuore e cervello avessero stretto un’alleanza per distruggerla, ’sti stronzi. È già abbastanza dura così, senza che debba preoccuparsi di un golpe da parte del suo stesso corpo, e invece eccola lì, rannicchiata chissà dove, chissà come e perché, in un luogo sconosciuto e in un corpo che nemmeno la vuole. La mente vaga, ma un alone nero la riporta a sé, un timido tentativo di collaborazione con il corpo martoriato per tornare indietro nei meandri dei ricordi e cercare di comprendere il motivo di tutto quell’insulso disagio.
Ho trentadue anni e non ho più il fisico per affrontare un doposbronza, questo è quanto.
Cerca di evitare di salire sul treno del risentimento, non ha voglia di sentirsi in colpa prima ancora di capire cos’ha combinato, e poi, innanzitutto, deve capire dov’è. Distende lentamente gli arti, allontana le gambe, che teneva strette al petto come scudo e stiracchia le braccia, sente freddo nonostante sia estate: sul piede sinistro, sfuggito alla seta del lenzuolo, percepisce un alito di aria gelida che collega a un condizionatore. Non ha mai sopportato l’aria condizionata; perché non godersi la calura estiva, in estate? Il brivido corre velocemente lungo tutto il corpo, fino al collo, sente pizzicare alla base della nuca, il che le genera una scossa, si rende conto solo in quel momento di essere completamente nuda; con le palpebre ancora incollate, fa scivolare una mano lungo tutto il corpo, come una sonda, un soldato in perlustrazione alla ricerca di feriti. Pare sia tutto a posto, è ora di aprire gli occhi. Con la testa nascosta sotto il morbido tessuto, socchiude le palpebre pregando, non sa nemmeno lei chi, che il mondo abbia smesso di fare giravolte e un inutile flashback le riporta alla mente quella stupida giostra su cui si saliva da piccoli, le tazze giganti che ruotano. Le ha sempre detestate con tutta sé stessa, non ne ha mai compreso il senso. Fatto sta che nel suo presente ora tutto è fermo. Prende un lungo respiro, il mal di testa è lancinante, ma almeno ha ripreso possesso dell’organo della vista, se ne compiace. La stanza è satura di luce, lo vede attraverso la trama delle lenzuola, non ha voglia di essere lì, non ha voglia di dover affrontare un uomo sconosciuto in un mondo sconosciuto. Che palle, pensa. Con entrambe le mani afferra il lembo superiore e lo abbassa lentissimamente, appena fin sotto il naso, lasciando spuntare solo alcune ciocche di capelli sconnessi e gli occhi appiccicati dal mascara. Lo sguardo viene immediatamente calamitato dall’immensa vetrata che si mangia tutta la parete destra della stanza, lasciando intravedere un folto fogliame, è calmante, le ricorda casa sua, ma è certa di non essere comunque a casa sua. Sulla parete di fronte nota con sgomento il televisore più grosso che abbia mai visto, sembra quasi di essere al cinema, poi si dice no, non esagerare non è così grosso, però è grande. A lei non piace la televisione. Sul lato sinistro una cabina armadio gonfia di abiti da uomo e tutte le cose che li potrebbero accompagnare, cravatte, camicie, blablabla, non le interessa. Conclusione: si trova a casa di un uomo e quell’uomo è uno sconosciuto, visto che quella stanza non l’ha mai vista; suppone anche sia piuttosto benestante, visto il livello di maestosità dell’arredamento; meglio così, i ricchi sono i più facili da cui fuggire. Si sporge leggermente alla sinistra e poi alla destra del letto alla ricerca dei vestiti, o almeno di una parte di essi, o almeno almeno della biancheria intima, cazzo. Nulla, moquette bianca immacolata, nemmeno una briciola di indizio o strada da seguire per ritrovare pezzi di tessuto che le ricoprano le virtù. Vorrebbe avere le forze di rimproverare la sua voglia di scherzare anche in momenti imbarazzanti e complicati come quelli, ma non ce la fa, comunque non riesce a reprimere una risata semi-isterica che le solletica la gola; non è la prima volta che ti svegli così, signorina! Ha la coscienza più petulante della storia e di certo meno in linea con la sua personalità. Taci. Pensa che se è nuda nel letto, il suo corpo e quello di Mr. Colletto Bianco abbiano già fatto conoscenza, di certo più che ravvicinata, per cui non crede si scandalizzerebbe se lo raggiungesse come mamma l’ha fatta. Sempre che si trovi in casa, forse se è fortunata se n’è andato lasciandole garbatamente la possibilità di fare la sua camminata della vergogna in santa pace.
Distesa in quel placido mare lussuoso, è di nuovo immobile, la testa sprofonda in soffici cuscini, non ha proprio voglia di alzarsi; un colpo di tosse le punzecchia la gola con un milione di spilli, era convinta di aver smesso di fumare, ma quando beve, fuma; quindi, siccome ha sicuramente bevuto, deduce di aver anche fumato. Già, il mio metodo deduttivo è sempre impressionante. Prende un lungo respiro e si mette seduta, lo specchio in lontananza rimanda un’immagine sconclusionata del suo corpo, i capelli la avvolgono, non riesce a trattenere un sorriso percependo immediatamente il dito indice alzato della sua coscienza, sempre in agguato per rimproverarla. Allunga la mano verso un piccolo telecomando grigio che trova sul comodino e finalmente riesce a porre fine all’atmosfera artica che regna in quella camera asettica; chissà che vita conduce il suo proprietario, un medico? Appena si alza, un capogiro da Oscar le pervade anima e corpo, chiude gli occhi e cerca di respirare al meglio delle sue facoltà, per fortuna che almeno le funzioni base del suo corpo non dipendono dalla sua volontà, altrimenti sarebbe già morta, si dimenticherebbe continuamente di respirare, sicuro.
La sensazione dei piedi nudi sulla moquette è piacevole, rilassante, distende le braccia verso l’alto per rivitalizzare i muscoli, poi cammina lentamente verso la luce, quella vetrata la attira come un incantesimo, poggia i palmi sul vetro freddo e il contrasto col suo caldo respiro lo appanna immediatamente, le piante esterne scompaiono dietro alla vista offuscata dal vetro, e pensa che è proprio così che vede il mondo, ora, offuscato, lontano.
È tempo di affrontarlo, ’sto mondo: a passo sicuro prende la porta e trascina le sue grazie per l’appartamento, vorrebbe avere almeno un nome da chiamare, invece non ha in mente nemmeno un volto da cercare, benedetta tequila, «C’è nessuno?», ci prova, ma no, non c’è nessuno, una voglia infantile la pervade, vorrebbe curiosare dappertutto, nei cassetti della cucina, in soffitta, sotto il letto, cos’avrà mai raccontato a quest’uomo perché si fidi a lasciare una sconosciuta sola in casa sua? Sul cassettone in sala vede in lontananza delle fotografie incorniciate, si avvicina un po’ di soppiatto, sentendosi comunque un’intrusa, e afferra la prima foto: un bell’uomo sulla cinquantina sorride all’obbiettivo, occhi scuri, riccioli biondi, niente male! Almeno non mi sono rimorchiata uno scafandro; la foto vicina ritrae due bambini e tanto le basta per riprendere coscienza del mondo e di sé stessa e cercare i vestiti. Intravede il reggiseno di pizzo avorio abbandonato sul divano, corre a prenderlo e inizia una sfiancante caccia per tutta la sala alla ricerca del resto del tesoro. Le scarpe sono le più difficili da scovare, anche perché giacciono meste nel lavandino, completamente zuppe.
Coscienza, non ci provare neanche.
Finalmente rientrata in possesso delle sue quasi piene facoltà, saluta garbatamente la casa e si dirige a testa alta verso la porta d’uscita. Che è chiusa. No, no, no! Ma come chiusa?! È un sequestro? Mi hanno rapita? Perché deve essere sempre tutto complicato? Certo, basterebbe smetterla di andare in giro a bere e rimorchiare sconosciuti per non trovarsi in simili situazioni, eppure lo sappiamo entrambe, cara coscienza, che non succederà, quindi lascia stare le tue inutili remore e dammi una mano a uscire da qui. L’appartamento si trova in alto, forse un terzo piano, quindi una fuga dalla finestra è di certo sconsigliabile; prende il telefono per capire almeno in che lato della città si trovi ma, ovviamente, è scarico. Che posso fare?
All’improvviso un tintinnio lontano attira la sua attenzione, qualcuno sta aprendo la porta, si nasconde dietro alla colonna della cucina e sbircia verso l’ingresso: l’uomo della fotografia, in bermuda e polo, sta andando verso di lei, fischiettando, con due caffè in mano e un sacchetto bianco che presumibilmente contiene la colazione. Speriamo sia un pain au chocolat – certo perché ti fermeresti a fare colazione con lui? E magari domani porti a scuola i suoi figli.
Un urto di nausea la fa rabbrividire.
«Marcella?»
Chi diavolo è Marcella?
«Marcella, ci sei?»
Dovrei essere io?
«Ho preso il caffè, come ti avevo promesso.»
Mi sa che Marcella sono io. Avvolta nel suo microscopico vestito e a piedi nudi, fa capolino dalla cucina, tenta un sorriso titubante, i capelli scarmigliati suppone possano essere poco rassicuranti, ma il bel papà non sembra affatto spaventato dalla sua figura scomposta.
«Ah, sei sveglia!» In due falcate le è di fronte e le stampa un bacio sulle labbra, profuma di caffè e di uomo adulto.
«Buongiorno» sussurra Camilla, con una voce che fatica a riconoscere come sua; sì, ho decisamente fumato.
«Come ti senti?»
«Come una che ha bevuto troppa tequila?»
«Eri scatenata, ieri sera.»
«Ah sì?»
«È stato divertente però, erano anni che non mi lasciavo andare così.»
Non sa più cosa rispondere, così non risponde. Prova col sorriso.
L’uomo va dritto agli sgabelli della penisola in cucina, che lei solo ora nota essere stratosferica, farebbe impallidire quelle delle riviste di arredamento, l’estraneo estrae i cornetti dal sacchetto e toglie i tappi di plastica dai bicchieri di carta, la guarda, le sorride – Dio, ma è bellissimo. Si complimenta per la conquista, le sembra quasi un peccato che ora lo debba abbandonare così.
«Allora, che aspetti?» incalza, ma lei rimane impalata lì, incerta, ma non tanto sul da farsi in quel momento, quanto sul da farsi nella sua intera esistenza.
Cede, si siede alla sua sinistra, quegli sgabelli sono tanto belli quanto scomodi: «Non hai pensato di provarli, prima di comprarli?» domanda.
Il misterioso se la ride di gusto: «Li ha scelti mia moglie». Ah, pensa e poi pure lo dice.
«Quindi sei sposato?»
«Separato.»
«Capisco.»
«Questa conversazione è già avvenuta.»
«Nella realtà?»
«Dove, se no?»
«Giusto.»
Le accarezza una spalla con un gesto dolce, quasi paterno. Non ce la posso fare.
«Quanti anni hai?» domanda lei, senza sapere perché.
«Cinquantacinque. E tu?»
«Io pure»
Lui scoppia di nuovo a ridere.
«Sei matta, sei.»
«Inizio a pensarlo pure io.»
Camilla beve un lungo sorso di caffè, inghiotte mezza brioches e si alza dallo sgabello meno sensato della storia.
«Dove te ne vai?»
«Via.»
«Via dove?»
«Via via.»
«Perché?»
«La domanda giusta sarebbe: “perché sei ancora qui?”.»
«Perché dovrei farti una domanda tanto sgarbata?»
«Le botte e via di solito funzionano che ci si dà una botta e poi si va via.»
«E quindi, questo è stato?»
«Sì, no?»
«Non saprei, non mi dispiacerebbe rivederti.»
«Ah.»
«E?»
«Posso pensarci?»
«Certo, rossa.»
«Grazie della colazione.»
«Figurati, grazie a te per la splendida nottata.»
Almeno gli lascerò un bel ricordo, pensa.
«Me lo chiameresti, un taxi?»
Mentre sta per chiudere la porta, torna sui suoi passi, infila il naso in casa e domanda: «Che lavoro fai?».
«Il chirurgo, perché?»
«Curiosità, ciao!»
Sì, metodo deduttivo sempre infallibile.
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