Ai suoi settantaquattro anni gettava uno sguardo solo raramente. Non se ne curava da un punto di vista oggettivo. Ascoltava piuttosto il respiro, gli arti, i muscoli ancora tonici del proprio corpo e una voce interiore, tutta sua, che orientava umore e benessere fisico con una precisione che non aveva conosciuto negli anni giovani. Rino era fatto così: un miscuglio di carne muscoli ossa e sangue dal colore intenso di un vino ad alta gradazione. Annusava la vita prima di viverla. A braccia aperte e cuore grande. Se ne infischiava della pioggia e del vento. Amava il candore della neve e i toni mutevoli dell’acqua di mare. Rispettava gli sproloqui altrui e spesso non diceva la sua per timore di infrangere qualche sogno. Era stato di poche parole, fino a una certa età. Ma ora, con tutti quei chilometri viaggiati, un fiume di parole scorreva lento e misurato fra labbra screpolate e denti consunti. Non avrebbe saputo chi ringraziare per il suo percorso, e nemmeno chi dimenticare, avendo limato all’estremo il senso della riconoscenza e la forza dell’abbandono.
Senza ombra di dubbio, aprendo la prima finestra di casa sua, per respirare il privilegio dell’ennesima boccata d’aria fresca e pura, gli affiorò un pensiero. Che divenne idea. Che si trasformò in desiderio. E che gli diede conferma che, da ragazzo, aveva fatto bene a togliere di mezzo la prima metà del suo nome. Tagliò Otto e rimase Rino per tutti, lui che era segnato all’anagrafe come Ottorino. I numeri non gli erano mai piaciuti. Non comprendeva la scienza esatta di quella disciplina. Amava il suono delle parole e lentamente, giorno dopo giorno, si costruì un tesoro all’insaputa di chi, quelle parole, le sciupava sbadatamente. Usandole a sproposito e in misura eccessiva, certi discorsi erano soltanto ferite per lui che timidamente e con grande deferenza iniziava la sua prima ora, ogni giorno, pronunciando a voce leggera la parola nuova scoperta la sera prima.
Rino, che tempo farà? Era il ritornello che i suoi compaesani sciorinavano al mattino e alla sera incontrandolo per le stradine strette del paese. Il loro paese. Una sinuosa fila di case solo a tratti snocciolate fuori dalle righe. Occhi protesi e curiosi di rintracciare un orizzonte che sapeva di terre lontane e cieli sconfinati sarebbero rimasti delusi percorrendo l’acciottolato della via principale, perché, oltre le abitazioni, spuntava un oceano di vegetazione. Il bosco. Era lui a catturare lo sguardo, a rapirlo per istanti interminabili e a renderlo con fatica. Il bosco, patria riservata solo a chi, fra rami muschio e suoni unici, sapeva ascoltarne il battito. Come Rino. Dicevano di lui che i primi passi li aveva fatti nel bosco. A gattoni. Quando glielo rammentavano, lui sorrideva bonario, e con una pacatezza disarmante si compiaceva nel dire che non erano poi così lontani dalla verità, perché lui, nel bosco, c’era nato, ci aveva vissuto e continuava a viverci. Non passava giorno, infatti, che non oltrepassasse la linea immaginaria in cui defluivano le case del paese e iniziava il paradiso dei suoni e dei colori. Il bosco di Rino.
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Il passo deciso che lo conduceva verso il suo mondo recava in sé il peso leggero dei molteplici pensieri che Rino elaborava durante la giornata e il peso reale delle parole che andava accumulando. Ci rifletteva su quando una parola nuova spiccava il volo verso di lui, come un ritornello, e sciorinava un’insistenza tale da non poterla più snobbare né tanto meno ignorare. Allora era fatta. Lentamente nascevano la necessità e il piacere di scomporla in tanti frammenti. Di ricordarla, per prima cosa. E per Rino non era facile perché, non avendo studiato, leggere e scrivere era faticoso, anche se possibile. Ricordare un incontro di lettere, a volte dolce e scivoloso, altre stridente e sdrucciolevole. Era stato così per fluttuazione e protuberanza, ad esempio. La scoperta avveniva ascoltando la radio o la televisione o qualche turista che capitava per fare lunghe passeggiate nei dintorni, soprattutto in estate, per raffrescarsi dalla calura cittadina. Ascoltando casualmente le loro conversazioni, trovava spesso un suono interessante da incamerare. Quindi cercava di ricordare, per poi scoprire il significato passando attraverso il fascino del suono e della scrittura. Con estrema fatica. Suo nipote Alberto lo chiamava “l’uomo che scava nella carta” perché, secondo lui, somigliava più a un contadino intento a piantare nuovi raccolti che a un cultore della parola, come lo definivano in paese, dove Rino era rispettato come persona onesta e genuina, ma anche colta. Non esisteva famiglia in cui Rino non avesse lavorato con i suoi attrezzi da idraulico. Tutti avevano fatto ricorso alle pinze, ai tubi, alle tenaglie, ai cacciaviti di Rino. A qualsiasi ora del giorno e della notte. E lui non aveva mai lesinato una mano, perché – diceva – l’acqua deve avere il suo giusto scorrere, né poca né troppa. L’acqua è vita e nella vita occorre la giusta misura.
La passione per le parole si era manifestata all’improvviso come un ospite scomodo. Ascoltando termini sconosciuti e impenetrabili al primo suono. Si era ritrovato, più volte, ad essere aggredito restando stonato e poco meno che impietrito al sopraggiungere inatteso di parole affascinanti in quanto ignote. Non avrebbe saputo scriverle, non sarebbe riuscito a inchiodarle su una pagina bianca di tutto rispetto, ma nemmeno sul primo foglietto sgualcito che gli fosse capitato per le mani. E fu proprio quell’impotenza a scatenargli un gioco mentale, persino cerebrale che dai primi capelli bianchi in su non lo avrebbe più abbandonato. Colpevole innocente della sfida fu la parola abbacinante.
Un fine settimana estivo come tanti altri, era comparso in paese un piccolo gruppo di camminatori. Seriamente agghindati per la scarpinata salutare, attraversavano la via centrale con lentezza gustando la purezza di un’aria che in città neanche potevano sognare. Per mancanza di tempo – disse uno di loro – nel caso ce ne fosse! La battuta sollevò l’ilarità dei suoi compagni, che si calmarono solo quando si levò la voce di colui che sembrava essere il capogruppo, il più esperto. Infatti, avanzando a passi decisi, era già in prossimità del bosco e, accennando uno sguardo a ritroso verso gli altri, si lasciò scappare un’espressione che si stampò nella memoria di Rino, che si trovava poco distante. Disse: Questo sole di luglio da quassù è abbacinante, ragazzi! Gli altri annuirono commentando, mentre Rino avvertì la piacevole scossa dell’emozione che non si placa fino a quando non si apre un accenno di raziocinio. In quel caso, fin tanto che Rino, dopo aver ripetuto decine di volte abbacinante, rientrò a casa e con pazienza certosina cercò una penna e un foglio di carta, si sedette al tavolo di cucina dopo essersi assicurato che fosse ben pulito, e iniziò a scrivere. Con rammarico si accorse subito di essere a disagio con quell’attrezzo. Non era un cacciavite, né una pinza, né un martello. Era semplicemente una penna biro blu, di quelle col cappuccio, il cui inchiostro stentava a uscire e quindi a materializzare lo sforzo di Rino nella prima lettera, di cui era sicuro. Della “a” era sicuro e sapeva scriverla, se solo quell’inchiostro denso e asciutto per l’inattività avesse collaborato per placare la sua emozione. Per il resto, doveva inventare o tentare di ricordare i miseri rudimenti di scrittura che, tanti anni addietro, una maestra paziente e volonterosa aveva impartito a lui e a pochi altri paesani, nel tentativo di istruirli almeno a leggere e scrivere lo stretto necessario. Quindi, superato lo scoglio della penna riluttante e messa a fuoco la prima lettera, si bloccò. Avvertì un sudore freddo lungo la schiena, che doveva essere simile alla sensazione che prova uno scolaro quando viene interrogato. Tutti gli occhi dei compagni puntati su di lui, e lui niente. Ha il buio dentro. Non escono parole, non escono pensieri, non esce neanche la speranza di farcela, in qualche modo. E il peggio arriva quando l’insegnante sollecita una risposta. È allora che lo scolaro farfuglia biascicando qualcosa di incomprensibile oppure getta la spugna. Rino, non essendo uno scolaro imberbe, non si scoraggiò che per pochi secondi. Pensò che, dopo la “a”, avrebbe dovuto scrivere “baci”. Po-sò la biro rimandando la soluzione del problema alle prime ore del pomeriggio quando avrebbe fatto la solita capatina al bar a prendersi un caffè e giocare a carte con Ulisse, Onelio e Athos, pregustando già il materializzarsi di buona parte di quella parola così affascinante. E non volle andare oltre. Non volle pensare a come proseguire fino all’ultima lettera né alla ricerca del significato che, sicuramente, doveva essere positivo se quel tizio, nel pronunciare abbacinante, aveva sfoderato un gran sorriso.
Alessandra (proprietario verificato)
La nostra comune amica ci informa, commossa, che ha raggiunto e superato le 200 prenotazioni. Certo, un bel traguardo per chi è alle prime armi. E una bella soddisfazione per chi dedica alla scrittura tanta passione e tanto amore. Ma noi, avevamo forse qualche dubbio? No. Seguivamo con ansia e trepidazione la cifra designata? No. Perchè a noi basta la presenza dei suoi personaggi, l’originalità delle sue storie e il suo sguardo acuto sul mondo per arrampicarsi fino a quei cieli verticali che abbiamo imparato ad amare.
Con affetto
Ale
Brunero Baldacchini (proprietario verificato)
Questi frammenti di racconti contenuti in “cieli verticali” colgono perfettamente quello che era il loro intento e cioè di suscitare l’interesse del lettore.
Con una scrittura pulita e piacevole riescono, infatti, a descrivere egregiamente la complessità della natura umana ed a trasmettere il coraggio di tracciare l’esperienza, vera od immaginaria che sia, di una vita vissuta tra illusioni e disillusioni, traguardi e fallimento.Certamente, il lettore resta in attesa di leggere il libro in ogni sua parte.
Daniele Mezzani (proprietario verificato)
Leggere i racconti di Isabella è sempre molto piacevole, io preferisco leggerli più volte, per immergermi in pieno nelle sue storie, brevi ma molto molto intense.
Leggerla fà bene al cuore e alla testa.
Complimenti.
Antonella
Simona Maglioni (proprietario verificato)
I racconti di Isabella si leggono molto bene e non vedi l’ora di andare avanti nella lettura. I testi rispecchiano la vita di molte persone ed in alcune ti ci puoi anche ritrovare. Grazie Isabella per la piacevole sensazione che riesci a trasmettere a chi legge i tuoi racconti. Simona
Manola Lampredi (proprietario verificato)
La sensazione che arriva mentre si legge Isabella è quella di entrare a far parte del racconto stesso
Riesce a farlo in modo così tanto veritiero che i personaggi e le situazioni che descrive arrivano a sembrare familiari..
Un grazie a Isabella per le belle sensazioni che emergono attraverso la lettura dei suoi racconti
alessandra.gavazzi
Leggere i racconti dell’amica di una vita è come specchiarsi nei suoi occhi e riflettere il suo sguardo: sincero, fidato, espressivo, caparbio e penetrante. Un guizzo di umanità nella vita disumana di tutti i giorni, e di tutti noi che ne facciamo parte. Siamo tutti con “Rino”.
Alessandra
Adriana Tasin (proprietario verificato)
Ha scelto questo giorno di primavera, Isabella Gabusi, per lasciare andare le sue parole, ma più di tutto per lasciare andare i protagonisti dei suoi racconti. Sono personaggi che meritano il nostro sguardo perché ci sono così vicini che se solo ci guardassimo attorno li scorgeremmo, si incarnerebbero in persone, quelle che di solito stanno più defilate, si notano meno. La scrittura di Isa le ha accompagnate con cura e talento a questo varo, e ora le affida a noi, perché sarà in noi che proseguiranno il loro viaggio.
Rossella Lucarelli (proprietario verificato)
Uno stile coinvolgente che ti cala completamente nelle storie. Una scrittura a volte tenera e poetica. Racconti brevi ma che ti lasciano la voglia di approfondire. Complimenti. Rossella
Anonimo (proprietario verificato)
Leggere i racconti di Isabella è sempre una gioia. Il suo stile narrativo musicale-poetico è la sua cifra distintiva. Immergersi in un suo racconto non è seguire una trama ma l’essenza delle emozioni. Paola