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Cimicefarfalle

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Consegna prevista Dicembre 2024

Diego Bracelli, ex professore di filosofia, è affetto da una paralisi che blocca il suo corpo e gli toglie la parola e ogni forma di espressività. Tuttavia, pur essendo terminale, è vigile: comprende ciò che accade intorno e, ultimo atto prima della resa, riesce a compiere minimi movimenti con il braccio sinistro.
Anche la memoria di Diego è viva, e in un dedalo di flashback emerge quella che si rivela la causa della misteriosa malattia: la relazione con Clara Moro, sua ex studentessa, bruscamente interrotta anni prima.
Lo scorrere degli ultimi giorni nella clinica dove si trova sembra inesorabile, fin quando non viene ricoverato nella stessa stanza un altro malato grave: Vicenzo. Quest’ultimo, molto debilitato ma ancora loquace, si rivolge a Diego in una serie di monologhi; e proprio in uno di questi, per liberarsi di un peso che sente insostenibile, confida un segreto che cambia il ritmo della storia e innesca un folle desiderio di vendetta.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questa storia in un periodo, come ve ne sono nella vita, in cui le cose appaiono intrinsecamente più negative di quanto siano; come un velo di nebbia che si posa su ogni cosa. Per questo ho raccontato le vicende di personaggi che sempre falliscono; il pendolo oscillante, nelle loro relazioni, tra l’equivoco e l’ inganno.
Ed è stato così che, giunto al termine della storia, la nebbia si è diradata e ho potuto fare pace con loro.

ANTEPRIMA NON EDITATA

  1. Cimici e farfalle.

 

Stoc. 

Diego si risvegliò per l’impatto di una cimice che sbatteva contro il tendaggio di una delle tre grandi finestre.  

Fuori, un muro d’acqua scendeva compatto con fragore già da temporale estivo.  

Dopo essersi schiantato, l’insetto ritentò. Roteò in aria per qualche secondo e terminò tre avvitamenti veloci di nuovo contro la vetrata alla sinistra del letto, ricadendo a terra.  

Diego intanto riprese contatto con la realtà.    

Riconobbe il luogo dove si trovava, ispezionò brevemente la stanza e subito notò che rispetto all’ultimo ricovero avevano cambiato i serramenti: ora erano bianchi.  

La cimice, dal canto suo, ribaltata a terra si dimenava ronzando. 

Diego la osservò e immaginò la fatica. il peso delle elitre, la coordinazione necessaria, l’utilizzo di ogni singola fibra muscolare reclutabile nella manovra.  

Finalmente l’animale riuscì nello sforzo e non appena ebbe poggiate le zampette al pavimento, ripartì con un decollo verticale.  

Tre, quattro giri sgraziati in aria, poi Diego ne perse le tracce.  

La sentì ronzare di nuovo, più vicina, a sinistra. Ruotò il più possibile il capo, ma non la vide; continuò l’esplorazione dello spazio utilizzando fino al limite dello spasmo i muscoli oculari, e la ritrovò.  
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Allora la cimice compì due manovre in volo e gli planò davanti, precipitandogli tra i capelli.  

Diego ne percepì la pressione sulla cute del capo, ma non fece nulla per allontanarla.  

Piuttosto, allungò il braccio sinistro verso il comodino, aprì il cassetto, cercò a tentoni all’interno e si rasserenò scoprendo che il suo assistente aveva rispettato i patti.  

«Signor Dante, dovessero soccorrermi com’è successo l’ultima volta, mi faccia per favore avere il quaderno.» Aveva prescritto in un biglietto allegato alla busta della paga mensile dopo l’ultimo ricovero.  

Non si chiamava davvero Dante quell’uomo. 

Diego non aveva mai memorizzato il nome di battesimo e nemmeno ve n’era stata la necessità; l’uomo stesso aveva suggerito di chiamarlo così: Dante.    

Era una persona affidabile, quel Dante. Quello sì.  

D’altra parte il contatto gliel’aveva fornito Umberto, e mai Umberto avrebbe garantito per qualcuno che non meritasse garanzie.  

Perciò il quaderno blu era nel cassetto.  

Mesi prima, ovvero da quando non era stato più in grado di provvedere a sé stesso, Diego aveva dovuto accettare la presenza in casa di qualcuno che si occupasse di lui. 

Non era stato facile convincerlo. 

Umberto aveva dovuto più di una volta ricordargli la possibilità di un ricovero coatto, minacciare di ricorrere all’extrema ratio del TSO; e Diego, che riusciva ancora sì in qualcuna delle attività quotidiane essenziali alla sua sopravvivenza, ma era altresì consapevole della progressione della malattia, si era dovuto arrendere.  

Aveva ugualmente ottenuto un enorme risultato: aveva concordato che potesse rimanere solo almeno per la notte, a prescindere dal rischio. 

Umberto non si era ulteriormente opposto; le trattative con Diego lo avevano sfinito da un pezzo.  

 

Udite delle voci avvicinarsi dal corridoio, Diego ripoggiò il quaderno nel cassetto e lo richiuse. Ritirò poi il braccio sul letto e si congelò nella posa.  

 

«Stasera invertiamo i portieri! Domenico va con loro, o siamo squilibrati.»  

Due uomini e due divise, quella di un infermiere e il camice di un medico, apparvero sulla soglia della camera.  

Il medico domandò:  

«Chi è arrivato nella 207?»  

L’infermiere rispose:  

«Arresto cardio-respiratorio. Ricordi il professore? Quello con la paralisi stranissima?»    

«Ancora lui?»  

«L’hanno rianimato ieri in ambulanza. La mattina il badante l’ha trovato che sembrava già morto e ha chiamato. Dice che quando sono arrivati era in arresto, ma l’hanno ripreso. Dopo il PS, appena appena stabile, hanno chiesto se c’era posto qui da noi e ce lo siamo ripreso.»  

«E chi l’ha autorizzato, scusa?»  

«Tu non c’eri. Michele la cartella l’ha fatta fare a Zitelli. Che lo conosce pure, questo, a quanto pare.»  

Il medico sbuffò. L’infermiere, cercò subito di ridimensionare.   

«Pure a me questo mi agita. Però è messo male, molto male. Non credo rimarrà molto.»  

«Peggio ancora.» ribadì il medico.  

L’infermiere pensò di nuovo di dover dire qualcosa di utile, ma il medico non glielo permise, alzando appena il braccio destro con innecessaria solennità.  

Il professor Diego Bracelli, perfettamente immobile nel letto, intanto aveva ascoltato ogni loro singola parola.  

 

 

Maggio 1990. 

 

«A cosa stai pensando?»  

«A nulla.»  

«È un non pensiero, o un pensiero sul nulla?»  

«Niente complicazioni per favore, adesso proprio non ce la farei a seguirti. Poi ho troppa sete.»  

Clara scattò dal letto e saltellò verso la cucina.  

Nuda sembrava ancora più alta. La vita sottile, le spalle bene aperte. Forse solo le gambe, molto lunghe, rompevano di poco la proporzione, ma Diego la trovava comunque di una bellezza senza rivali.     

«Praticavi sport da bambina?» le domandò sprofondando nel letto.  

«Come?»  

Per fortuna, dalla cucina Clara non poteva sentirlo.  

«Niente. Robe mie.» rispose Diego alzando ora poco la voce.  

«Torno e mi dici. Ma non fissarmi come fai di solito.»  

«Che?»  

«Hai capito! Non farlo, che lo fai sempre.»  

«Ma tu meriti di essere ammirata così, tesoro.»  

Clara si affacciò alla porta della camera con un bicchiere d’acqua nella mano e fissò Diego inclinando appena il capo in una posa ammiccante, ma allo stesso tempo buffa.  

«Vieni qui!» La implorò lui.  

«Arrivo, ma non mettermi in imbarazzo.»  

«Va bene, basta che vieni qui.»  

Raggiunto il letto Clara poggiò il bicchiere sul comodino accanto alla testiera, raccolse dal pavimento la maglia di Diego e la indossò frettolosamente.  

«Dicevi?» domandò lanciandosi sul letto.  

«Piano! Nulla, non dicevo nulla di sensato.»  

«Dai!»  

«Nulla! Ammiravo solo il tuo bel sedere!»  

«E che borbottavi?»  

«Nulla, davvero. Soltanto pensavo che hai un culo da dipinto!» 

«Un Botticelli?» 

«Più un Botero, tesoro!»  

«Sei un Cretino!» e le si aprì un sorriso ampio.  

Si sedette poi accanto a Diego incrociando le gambe, in una tipica posa da meditazione.  

Sollevò un lembo della maglia, lo portò al viso scoprendo la pancia e inspirò forzatamente.  

«Adoro il tuo profumo addosso. Dovresti regalarmela una tua maglietta.»  

«L’armadio è davanti a te. Prendi quella che vuoi.»  

«No, devi averla indossata prima; deve sapere di te. Come questa.»  

«Allora facciamo che appena è estate, te ne tengo da parte una tutta sudata.»  

«Che cretino!»  

«E due!»  

Rimasero qualche secondo in silenzio, seduti entrambi nel letto con pose del tutto differenti. Diego affondato nel letto, poggiato alla testiera con le spalle e con la nuca; Clara con la schiena dritta e le gambe incrociate. 

Lei fece uno strano, piccolo sospiro. 

La camera di Diego esercitava ancora una certa soggezione e non si era minimamente abituata ai contrasti di quel luogo: il letto e i comodini moderni, da grande magazzino / il vecchio armadio scuro con la specchiera al centro: pesante sui piedini e come in bilico, austero come una vecchia cattedrale.  

Respirò di nuovo, profondamente, poi si stirò allungando la schiena.  

«Non sei scomoda così?» domandò Diego. 

«Per niente.»  

«Sembri un fachiro.»  

«Ha un nome sai questa posizione. Sukhasana, una roba così.»  

«Cosa?»  

«È una delle posizioni di base dello yoga.»  

«Perché pratichi yoga?»  

«Ma va’. L’ha spiegato la mamma di Marzia e mi è rimasto in mente. Figurati, ridevamo come due sceme. A casa ho provato e ammetto che è fico. Cioè, mi ha fatto sentire bene.»  

«Lo yoga?»  

«Sì. Almeno, quello che ho provato.»  

Intanto la luce che filtrava dalle tapparelle abbassate si era fatta più tenue. Fuori cominciava un tramonto e Diego se ne rese conto.  

«Che c’è, lo yoga non ti convince? Dovresti provare sai. Ti farebbe bene rilassarti un po’. Tu che sei così rigido.»          

«Va bene ci penserò, ma adesso preparati, che saranno già le otto. Devi andare, o ti faranno storie.» disse Diego cambiando il tono della voce.   

Clara sciolse l’intreccio delle gambe e si allungò verso il comodino. Afferrò l’orologio giallo e lo infilò sul polso destro.  

«Meno dieci. Ho ancora tempo.»  

«Rivestiti almeno.»  

«Che c’è? Hai fretta di mandarmi via?»  

Nelle prime intenzioni Clara voleva essere maliziosa, ma quando, nonostante la penombra, si accorse che Diego rimaneva ancora serio non aggiunse altro.  

«Non dovresti nemmeno essere qui. Lo sai.» sentenziò poi lui..  

Clara sbuffò. Si sfilò la maglia e il seno le si mosse appena sul petto.  

Diego di riflesso distolse lo sguardo.  

«Sai cosa intendo, e sai che non desidero mai mandarti via.»  

Lei raccolse gli indumenti sparsi sul pavimento e non concesse reazione.  

«Sai cosa intendo.» rimarcò lui.  

«Per favore smettila immediatamente. Ne abbiamo già parlato mille volte, poi a quanto pare il tempo per oggi è esaurito.»  

«Non fare così. Mi dispiace.»  

Clara radunò i vestiti sul letto, per primo prese il reggiseno e se lo allacciò. Ora il suo sesso, una striscia di pelo sottile, era puntato contro Diego e il pudore di prima, di quando tentennava a uscire dalla cucina, era come sparito.  

«Ti dispiace, ma ogni volta continui. Ogni santissima volta!»  

«Hai ragione, non dovrei, ma questo non cambia le cose.»  

Lei si infilò le mutandine, poi rimase immobile e ritta davanti a lui, militare.   

«Essere qui è una mia scelta. Te l’ho ripetuto non so quanto.»  

Avrebbe voluto aggiungere che se lui non la voleva più non aveva che da dirlo; purché prendesse finalmente una posizione e la smettesse col giochino delle recriminazioni dopo il sesso.  

Gli avrebbe anche detto di non preoccuparsi, che lei sarebbe tornata alla vita di prima, che certo avrebbe sofferto come era legittimo che fosse, ma poi, come tutte le ragazze della sue età dopo un amore infranto, se ne sarebbe fatta una ragione.  

Ma trattenne la rabbia e rilassò le spalle, riprendendo a vestirsi.  

Anzi, infilandosi nei jeans, domandò sommessa:    

«Almeno tu mi ritieni all’altezza di scegliere qualcosa per me stessa?»  

Diego esitò, poi sospirò un «Sì.»  

«Ecco.» si raddrizzò Clara, ora vestita. 

 

Anche lui si rivestì. Infilò gli slip e un paio di pantaloncini di cotone grigio. Rimise la t-shirt bianco azzurra che Clara aveva abbandonata sopra il letto e fece un’espressione affranta, da cane bastonato.  

Clara si avviò in soggiorno diretta verso l’uscita dell’appartamento.  

Le venne l’istinto di afferrare la cinghia delle tapparelle per lasciare entrare le ultime luci del giorno in quel luogo sempre così cupo, ma ritirò la mano. 

Fu Diego ad accendere la luce.  

«So che ti faccio arrabbiare, ma credo sia normale che le cose tra noi mi suonino ancora strane.»  

«Ricominciamo?»  

«Clara hai vent’anni.»  

«Li avevo anche prima, quando eravamo a letto.»  

«Sei stata una mia allieva.»  

«Ora non lo sono più. Vado all’università e sai, perché te l’ho detto e ridetto, quanto questa cosa sia già di per sé complicata.»  

«Troverai la strada, lo ripeto.»  

«Va bene! Ma appunto, siccome sono già tante le cose complicate per me in questo momento, puoi non aggiungere il carico?»  

La voce le tremava quando si voltò cercando con gli occhi la porta di uscita dall’appartamento.  

Diego l’afferrò per il polso sinistro e la tirò a sé.  

La strinse e si compiacque della giustezza del gesto.  

«Perdonami, sono un idiota. Ho solo paura di vederti sfuggire.»  

«Non sfuggo. Sei tu che mi mandi via piuttosto.» 

Stretta nell’abbraccio, Clara annusava Diego come se potesse fare scorta di momenti come quello.  

«È vero che ti fisso, sai?» disse lui.  

Lei alzò lo sguardo di poco.  

«Prima, quando non volevi uscire dalla cucina.»  

«Ah.»  

«Quando ti guardo così è come se volessi catturare ogni singolo istante di te prima che te ne vada. Come se potessi fare scorta di te.»  

Clara sorrise e mormorò  

«Anche tu.»    

Diego non capì, ma inspirò lentamente.  

Clara notò che l’abbraccio di Diego aveva già perso vigore e non si trattenne.  

«Lo stai facendo di nuovo. Lo stai facendo ancora, Diego. Per favore, basta.»  

«Scusa – Scusa – Scusa. È che va tutto così di fretta che…»    

Clara, ancora nell’abbraccio, liberò una mano e gli strizzò i genitali dai pantaloncini.  

«Ma che fai?» disse Diego sottraendosi di scatto.  

«Così magari la smetti.»  

«Tu sei matta! Di questo ormai non ho più alcun dubbio!»  

«Cretino! Devo andare davvero, o mi chiudono in camera e buttano la chiave!»  

«Fila! Non sia mai che ti io abbia sulla coscienza.»  

«Io filo, ma tu dimmi che ora – qui – adesso, va tutto bene.»  

«Va tutto bene.»  

E le parole di Diego furono per lei come un’onda di benessere. 

Clara pensò che quella poi era finalmente la sua voce: così capace di riparare.  

Quella di Diego era una voce che curava.  

Sorrise.  

«Mi piaci Diego; mi piaci così tanto. Mi sei sempre piaciuto anche quando eri il prof. Bracelli. Figurati adesso che sei il mio Dieguito.»  

«Chissà cosa diavolo ti passa per la testa. Proprio non capisco come sia possibile.»  

Clara si staccò da lui, appoggiò una mano sulla maniglia della porta e l’abbassò, ma non aprì.  

«Ho solo vent’anni. Avrò diritto di prendermi una stupida cotta per il mio ex professore, no?»  

«Stereotipo ineccepibile.» Confermò Diego   

«Non avere paura. Sappi solo che da quando ci sei tu io sto veramente bene, finalmente.»  

Diego non si trattenne:  

«In che senso finalmente?»  

«Nulla di preoccupante, sta tranquillo. Solo le banalissime paranoie della mia età.»  

«Anche queste ineccepibili.» concordò.   

«Ma non sei solo una stupida cotta. Anche io ho bisogno di te!»  

Diego stirò le ginocchia e si allungò sul posto, mostrando un sorriso contratto.  

«Basta con queste storie. Fila!» ripeté pacato cercando di chiudere la discussione.   

Lei lo fissò trasognata   

«Dieguito.»  

«Dimmi»  

«Lascia stare, sai che non ci riesco.»  

«Questione di tempo. Un giorno non potrai fare a meno di trattenerlo e ti salirà in bocca.»  

«Come un ruttino!»  

«Esatto, come un ruttino.» sorrise ancora, ora più sciolto. 

Clara si mordicchiò il labbro inferiore coi denti piccoli e bianchissimi.  

«Pagherei per sapere cosa ti frulla in testa quando ti mordicchi.»  

«Te l’ho già detto, non ci riesco. Per ora almeno.»  

«Signorina Moro, non arriviamo alla sufficienza se è così. Mi toccherà rimandarla a settembre.»  

«Smettila, cretino.»  

«Ma signorina, che fa? Mi dà del tu?»  

Clara abbandonò la maniglia della porta e tornò verso di lui.  

«Sì professore, le do del tu. Sono proprio una studentessa maleducata. Quindi che farà? Mi darà una nota?»  

Diego precipitò subito nei suoi occhi enormi e neri mentre lei lo sorprese con un bacio.  

«Sai che vedo le farfalle?» sussurrò Clara al suo orecchio, subito dopo il bacio.  

«Che?»  

«Si dice che quando si è innamorati si sentono le farfalle nello stomaco.»  

«Eh.» 

«È come se proprio ora le avessi davanti agli occhi!»  

«Sarà la stanchezza. Forse abbiamo esagerato prima.» scherzò lui ritraendosi leggermente.  

«Non sono stanca, per nulla. Ricomincerei anche adesso e lo sai.»  

«Lo so bene. Ma devi andare.»  

«Vado, vado. Ma prima volevo confessarti delle piccole farfalle blu che riempiono la stanza svolazzando ovunque.» 

«Blu?»  

«Ce ne sono altre, anche. Gialle, ma di meno. Farfalle gialle, un po’ più grandi delle blu, con minuscole macchie viola sulle ali.»           

«Oddio, tu sei davvero tutta matta.»  

«Immaginavo avresti detto puerile, sai?»  

«Sì, infatti. Questa delle farfalle è una cosa molto puerile.»  

«Hai ragione, ma la colpa è tua. Sei tu che mi fai sentire una piccola bambina felice.»  

Di nuovo Clara fece la sua smorfia, e al professor Diego Bracelli parve che il cuore gli si gonfiasse come un palloncino sul punto di scoppiare.   

 

Ancora Maggio, trent’anni dopo. 

 

I due uomini entrarono ufficialmente in scena, nella camera.  

«Buongiorno signor Bracelli. Il buon Mario, nostro bravo infermiere, mi stava ricordando che ci siamo già conosciuti. Mi ripresento in ogni caso: mi chiamo Andrea Fontanella e sono il responsabile medico di questo reparto.»  

«Buongiorno caro.» aggiunse l’infermiere.  

Diego non si mosse di un millimetro. Rimase con il capo leggermente ruotato e con gli occhi orientati verso le grandi finestre di sinistra.  

Il medico ritentò.  

«Ha idea di dove si trovi? Sa dove siamo? Mi sa dire che giorno è oggi?»  

Poi ancora:  

«Signor Bracelli può sentirmi? Se mi sente, può gentilmente sbattere gli occhi?»  

L’uomo si spostò all’interno del campo visivo del professore per intercettare la minima reazione, ma niente.  

L’infermiere lo affiancò e suggerì a bassa voce:  

«Andrea questo non c’è. Non ti ricordi l’ultima volta com’era? Non reagisce a niente.»  

Fontanella si raddrizzò. Prese respiro dalle narici rimanendo con gli occhi puntati sul viso ossuto di Diego, ma non proferì parola.  

«Andrea.»  

«Cosa?»  

«Ci sarebbe anche quella cosa del quaderno.»  

«Ancora questa storia?»  

«Nessuno l’ha mai visto scrivere, eppure l’altra volta il quaderno qualcuno lo compilava. Trovavamo annotazioni sempre nuove.»  

«Mario, per favore, non ti ci mettere di nuovo.»  

«Tutte cose scollegate. Però scritto bene, leggibile intendo.»  

«A parte che non si toccano gli effetti dei pazienti, ma poi, per dio, chissenefrega! Glieli avrà scritti il badante quei pensieri, o il suo amico psichiatra le volte che veniva. Non montiamo un altro caso sul dannato quaderno!» disse agitando nervosamente in aria la mano destra.  

«Non t’arrabbiare, dai. Non credo si sia mai accorto che sbirciavamo. Questo è sempre in catalessi, come adesso.»  

«Va bene, chiudiamola qua questa cosa del quaderno però.» disse Fontanella, poi, resosi conto di essersi scomposto,  abbassò la mano lungo il corpo.  

Intanto Diego, con una lentezza tale da rendere impercettibile il movimento, aveva riposizionato il capo dritto sul busto e ora i suoi occhi non guardavano più verso le finestre.  

Il medico domandò di nuovo:  

«Allora, non mi sente?»  

Ma non ottenne risposta.  

«Lascia perdere André, questo è andato.» ribadì l’infermiere senza la premura di farlo a bassa voce.  

«Dai, sbrighiamoci.» concordò  Fontanella.  

Poi armeggiò con gli occhiali sfilati dal taschino del camicie prima di farsi consegnare la cartella clinica e restituirla dopo un’occhiata frettolosa: 

«Rispetto all’ultimo ricovero cosa c’è di nuovo? Quanto è passato?» 

«Due, tre mesi; mi pare. Da allora nulla da segnalare se non il peggioramento progressivo. Ha lesioni da decubito: tre, belle grosse. Due sacrali e una sul tallone che Zitelli diceva va forse toilettata. Saturazione 91. Gli alziamo l’ossigeno?»  

«Alzaglielo.»  

«È apiretico. La peg era pulita. Che faccio? Gli metto lo stesso una sacca per idratare?»  

«Mettigliela.»  

Mario annotò tutto sulla cartella.  

 

«Ma tu guarda che cazzo di elemento!» esclamò Fontanella di nuovo sbracciando. 

«Va bene per stasera. Domenico sta con loro, o siamo squilibrati.» aggiunse ricomponendosi.  

Si avviò poi alla porta e Mario l’infermiere lo seguì senza esitare.  

   

Diego rimase solo, o meglio, rimasero lui e la cimice che ancora gli zampettava in testa. Né l’infermiere né il medico s’erano accorti della piccola ospite.  

Contò mentalmente mentre i due si allontanavano nel corridoio: centoventi secondi.  

Fuori intanto, la pioggia non accennava a diminuire d’intensità.  

Sentì un ronzio agitarsi tra i capelli, immaginò che fosse l’avvio dei motori prima del decollo.  

Allungò il braccio sinistro verso il comodino, lo aprì, cercò a tentoni di nuovo il quaderno, lo trovò, lo afferrò e lo tirò fuori per poi poggiarlo sulle gambe, nel letto. Con la stessa mano afferrò il telecomando appeso alle spondine e lo portò all’altezza del viso. I telecomandi dei letti non li avevano cambiati: identico a quello dell’ultimo ricovero. Innescò il movimento del segmento gambe e quello del segmento busto e si ritrovò in una specie di posizione seduta, decisamente più adatta al gesto dello scrivere. Rimise la mano nel cassetto in cerca di una penna, la trovò, la trattenne fra le dita sfogliando il quaderno in cerca della prima pagina libera e premette il pulsante.  

Scrisse, con grafia tremolante ma leggibile:  

«Siamo cimici.»  

Dopodiché ripose quaderno e penna nel cassetto e lo richiuse con lentezza.  

Tornò nella posizione sdraiata e riagganciò il telecomando esattamente dove lo aveva trovato.  

Percepì di nuovo un piccolo movimento tra i capelli e solo allora scagliò la mano sinistra verso sé stesso, come una frustata, spappolando l’insetto verde tra i capelli.      

 

 

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Luca Attrattivo
Luca Attrattivo è nato ad Angera il 9 febbraio 1981.
Vive a Laveno Mombello, sul lago Maggiore.
Ha conseguito la maturità scientifica nel 2000 e subito dopo ha lavorato come operaio, tecnico di industria e fornaio.
Iscrittosi all'università di Varese, si è laureato in fisioterapia nel 2005.
Da allora esercita come professionista sanitario.
Ha pubblicato nel 2012 e nel 2016 due romanzi molto acerbi: "Viva la vida" e "Le foto di Damian", con la piccola casa editrice 0111 Edizioni.
Ha partecipato all'annualità 2019 della "Bottega di Narrazione" diretta da Giulio Mozzi.
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