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Clash to me. Racconto punk di provincia

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Premio Calvino 2015 – Segnalazione

Andrea MERENDELLI (1965), CLASH TO ME. RACCONTO PUNK DI PROVINCIA

“Per l’abilità di ricostruire con vena nostalgica, nel mitico filtro dei Clash, il linguaggio e le ribellioni  di una generazione del profondo Centro nello scorcio di fine millennio”

La vita di un punk toscano, un ribelle contadino che sogna Londra e vive fra i cipressi e i campi di tabacco kentucky. Il sogno del caos metropolitano, il disordine di vite vissute male e in fretta, i gesti di inutile (ma a volte straordinaria) follia. I concerti, come quello dei CLASH a Firenze nel maggio 1981. Ma la storia racconta anche di Roberto Procelli, un ragazzo che lasciò i suoi 20 anni fra le  macerie della stazione di Bologna. Fu il primo corpo ad essere  riconosciuto. Roberto tornava da Bologna per raccontare il concerto dei CLASH in Piazza Maggiore, e invece fu risucchiato dal buco nero del 2 agosto 1980.

Una storia scritta come se fosse suonata, cantata e raccontata con rabbia, umori neri e ironia. Un ritmo incalzante per una colonna sonora ideale dominata dalla voce di Joe Strummer (voce dei CLASH e di un’intera vita). Così nasce il racconto punk, memoria adulta di ex giovani sbandati che bestemmiano la ridente Toscana, sognando Londra e il degrado urbano. Una storia di acerba follia e auto-esclusione, con un salto mortale verso il presente dove i sopravvissuti, oggi maturi e integrati, sono stati riassorbiti da questa bella società che, a parole, volevano “fottere”.

Foto di Riccardo Lorenzi

Progetto grafico di Andrea Valbonetti

Introduzione di Luca Frazzi

Visita la pagina Facebook dedicata al libro

I commenti dei lettori

Se avete avuto vent’anni. Se avete creduto che la musica potesse fare la rivoluzione. Se la musica è stata la rivoluzione della vostra vita. Se dopo tutti questi anni siete ancora quelli “di quei tempi là”, perché la musica della vita non si lascia spegnere e noi siamo la nostra canzone. Se siete tutto questo, leggete Clash to me. E soprattutto cantatelo a squarciagola, finché almeno un muro di questa terra divisa e violenta non sia caduto…

Teresa Bartolomei

Clash to me. Racconto punk di provincia. Bastano titolo e sottotitolo (o è tutt’uno?) per presentare il libro e dire tutto in maniera completa e misurata. Ma se non fosse la misura ciò che cerchiamo, si potrebbe anche dire che si tratta di una narrazione autobiografica (sì, certo, anche romanzata e pronta da portare in scena) di chi, doppiata l’età anagrafica dei protagonisti, guarda indietro, al passato, ma senza sprofondarci, arriva al presente e si astiene da previsioni per il futuro. Il filo conduttore della narrazione sono i Clash (vita, morte e miracoli), motore e pretesto di tutte le vicende. E ai Clash fanno da contraltare la vita, la morte e i miracoli provinciali che avvengono a migliaia di chilometri da loro, seppur con qualche eccezione. Il libro è pieno di elementi, come una tavola periodica. È ricco di vita, di musica, di scontri, di amore (a vario titolo vissuto, evocato, implorato, frainteso, disatteso), di incontri, di viaggi o semplici spostamenti, di rabbia (tanta) adolescenziale e non solo, di paradisi artificiali e inferni terreni, di perché. È a tratti alcolico, poetico, rabbioso, indigesto, crudele, commovente, doloroso, urlato, vulnerabile, sboccato, corrosivo, alterato, ironico, lucido. Il ritmo è veloce, lo stile è asciutto, ricco di dialoghi. Non ci sono smielature, non c’è autocompiacimento. È un libro sull’identità, sull’autorità, sulla ribellione, sulla resistenza, sulle ingiustizie. Quelle grandi della Storia e quelle piccole/grandi della storia di chi l’ha scritto e di chi ci si riconosce. Si tratta di una narrazione circolare scandita in 77 Canti, soggetta a forze centrifughe e centripete, dove le domande fondamentali vengono poste direttamente, suggerite, argomentate e mai risolte. È un cammino turbolento che narra una e tante storie con leggerezza e grande consapevolezza. Se ne esce con qualche pugno nello stomaco, ma anche con un senso di gratitudine, pervasi e contesi dalle forze polari e complementari che, a vari livelli, attraversano il romanzo così come la nostra esistenza: il desiderio di incontro e quello di scontro, Eros e Thanatos, Yin e Yang.

Simona Giambagli

CRESCERE CON JOE, MICK, PAUL E TOPPER

(PREFAZIONE PUNK DI PROVINCIA)

di LUCA FRAZZI

Un anno fa ho deciso di ripartire da zero. Dirigo una nuova

rivista nata per essere una fanzine e diventata subito qualcos’altro,

perché alla tiratura iniziale di 300 copie se ne sono

aggiunte 200, poi altre 300 e infine 200. 1000 copie al primo

numero, partendo da zero. La rivista che voleva essere una

fanzine si chiama Sottoterra. Da lì sono ripartito alla ricerca

di stimoli, quelli che a 14 anni mi spingevano a scrivere di

punk e a raccontarlo dal mio osservatorio di provincia con

una Lettera 35 dell’Olivetti, forbici e colla. La retorica degli

eterni fanzinari. Si perché questo sono, né più né meno. A

50 anni, dopo una vita spesa a scrivere su riviste “istituzionali”,

pubblicare libri e “fare opinione” (non sono così pirla

da averlo detto io) nell’asfittico giro dell’editoria rock italiana,

avevo bisogno di riprovare certe sensazioni basiche e di

illudermi un po’. Ho mollato tutto e sono ripassato dal via.

Bene, e questo che c’entra con i Clash, con Andrea e il suo

racconto punk di provincia? C’entra. Provo a spiegare il perché.

Sottoterra lo realizzo con altre due persone. Ci scrivono in

tanti ma lo progettiamo, assembliamo e vendiamo in tre.

Fin qui niente di male. Il fatto è che le altre due persone

sono ragazzi che hanno la metà dei miei anni. Nessuna legge

lo vieta, certo, ma la situazione è insolita: sulla carta dovremmo

parlare due linguaggi diversi, nei fatti no. Quindi,

avanti così. E i Clash? Ci arriviamo.

Estate 2015, un pomeriggio, in stabilimento. Fa un caldo

atroce, è il momento più difficile della giornata, attorno alle

5. Smonto dal turno di carico al forno, mi siedo un attimo

per riposare. Sono fradicio di sudore, giù di morale, coi miei

cazzi più girati del solito. Vibra il cellulare. È un messaggio

WhatsApp di Lorenzo, uno dei miei due soci sotterrati. Lo

apro, è una foto. Metto a fuoco. E la giornata, da problematica,

diventa insostenibile.

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Premessa: il prototipo della band che odio ha una fisionomia

ben definita. Melodramma, chitarre liofilizzate, superproduzione,

gorgheggi sofferti, retorica a secchiate. Una fisionomia

e un nome: Negramaro. Fatico a ricordare, nella

mia lunga carriera di appassionato di musica, una band che

ho detestato più dei cinque pugliesi. Ne ho odiate tante, ma

nessuna come loro. La foto che mi ha spedito Lorenzo è un

colpo bassissimo: sole accecante che illumina un mare celeste

e una spiaggia del sud sullo sfondo. In primo piano, a

bordo di una barca, due figure maschili a torso nudo che se

la ridono davanti a un piatto di pesce e una boccia di rosé

ghiacciato. Quello a sinistra nella foto, con asciugamano che

gli copre le vergogne, occhiali scuri e cappellino odioso da

aperitivo, è Giuliano Sangiorgi, voce e leader dei Negramaro.

L’altro è l’ultima persona che avrei voluto vedere al fianco

di Sangiorgi su quella barca. Sdentato come sempre, con

qualche capello in meno e quella pistola tatuata sul petto.

Non si scappa, è lui. Quell’uomo è Paul Simonon. Mentre io

caricavo pezzi di propellente su un nastro trasportatore, il

soggetto della foto di Pennie Smith che fa di London Calling

l’album perfetto se ne stava in barca con Sangiorgi a ciucciare

cozze e vongole. Crac. Cuore spezzato (il mio). Lorenzo

aveva spedito quella foto per prendermi bonariamente per il

culo, senza sapere il male che mi stava facendo. O forse lo

sapeva e ci teneva a ricordarmi che la demenza senile gioca

scherzi pesanti. Lo stronzo. Paul in Puglia alla Notte della

Taranta, sul palco coi Negramaro e il Liga. Tamburelli, pifferi,

trombette. La materializzazione di un incubo.

Io sono uno che in teatro, le rare volte che ci va, si annoia a

morte. D’altronde, sono anche uno che preferisce il posticipo

di Lega Pro del lunedì sera su Rai Sport a qualsiasi talk

show televisivo. Sono uno che guarda la tv e va al bar. E

mica nei bar che ti servono il caffè equosolidale. Qualche

anno fa ho fatto lo sforzo fisico e mentale di accettare il

consiglio di un amico clashiano (“Vedrai, ti piacerà…non

può non piacerti…”), mi sono fatto violenza e sono andato a

una rappresentazione di Clash To Me. “Un monologo…” mi

era stato detto “…alla Paolini, con una backing band che accenna

a qualche cover dei Clash”. Detta così, c’era da fingersi

malato, sbattersi davanti alla tv armati di telecomando

e al limite, ma proprio al limite, piazzare il cd di London Calling

nel lettore (nemmeno il vinile, troppa fatica) e archiviare

così la pratica “nostalgia”. Invece sono andato. E mi sono

sentito una merda, durante e dopo lo spettacolo. Perché?

Perché Andrea Merendelli in poco più di un’ora mi ha sbattuto

in faccia tutta la mia vigliaccheria.

Raccontava una storia che era la mia, fatta di sana demagogia

(perché a volte non se ne può fare a meno), rabbia adolescenziale,

ingenuità, voglia di Clash e di luoghi che non

erano il tuo paese (quel paese che in cuor nostro sapevamo

che non avremmo mai lasciato). Con parole che oggi, a 30

anni e passa dai fatti raccontati, assumono un significato

che francamente non riesco a spiegare, anche se forse non è

necessario farlo. Di sicuro non devo spiegarlo ad Andrea e

nemmeno a quelli che da ragazzi smanettavano sulla manopola

della sintonia cercando una radio che passasse i Clash

persi in un mare di umbertitozzi, giannitogni e loredaneberté.

Non c’è bisogno di spiegare, era così. Era quell’Italia lì, e

noi in quell’Italia galleggiavamo col mito dei Clash, non più

bambini e non abbastanza grandi da incidere sul presente.

Guardo Andrea e mi vedo. Ma senza lo stupido pudore che

mi frena quando si tratta di ricordare e mettersi a nudo. È

stata una lezione, tutto compreso.

Anni di cazzate dette e scritte ne hanno offuscato il ricordo,

sparare sui Clash oggi è la cosa più facile del mondo. Strummer

è un’icona svuotata di ogni residuo eversivo, una faccia

da stampare su magliette stinte indossate da giovani seguaci

di Nichi Vendola al pub al sabato sera, sorseggiando una

birra artigianale da 10 euro. Telecaster a tracolla, manco fosse

uno Springsteen qualsiasi. Mick Jones ha assunto le sembianze

di un gangster fuori tempo massimo. Anzi, di un mafioso.

Se pensi alla sequenza di Rude Boy dove canta Stay

Free, nella solitudine dello studio di registrazione, ti viene il

magone e pensi che lui forse è morto lì, in quello studio, in

quel momento perfetto, e che molte delle boiate fatte negli

ultimi 30 anni ce le doveva risparmiare. Topper Headon,

dopo una vita spesa a forarsi le braccia adesso è un onesto

tassista di Brighton che si è riappacificato con quei giorni

tumultuosi e confessa di non aver mai capito sino in fondo

cos’era il punk. E Paul, beh, di Paul abbiamo detto. Non

doveva farlo, punto. In sintesi: un mito invecchiato male,

quello dei Clash, sono il primo a riconoscerlo. Sono anche il

primo però a sbattersene i coglioni, perché i Clash sono i

Clash. Non quelli che piacciono alla borghesia progressista.

No. Nemmeno quelli che incendiavano la Londra del ’77

con White Riot, facevano la storia con London Calling e disegnavano

il futuro con Sandinista!. No, nemmeno quelli. Parlo

dei Clash che Andrea ascoltava nella sua camera a Tavernelle

e io dalla mia radio stereo con mangiacassette a Fidenza,

sulla panchina di Largo Leopardi. Quei Clash, la band

perfetta. The only band that matters. Sentirli raccontare

così, da un punto di vista così vicino al mio, senza vergognarsi

di mettere in piazza certe emozioni, ha riaperto quella

ferita generata dal tempo e dalla maturità che il tempo trascina

con sé. E che impone, maledetto. Clash To Me fa a pugni

con la maturità. È un racconto di stomaco che fa

dell’adolescenza di quegli anni qualcosa di unico. Per questo,

quella foto di Paul Simonon arrivata via Whatsapp fa

ancora più male.

Arrivato a casa, alla sera, ho preso il manoscritto di Andrea

e l’ho riletto. Ho capito che a quel pirla di Paul, a Joe, Mick

e Topper non posso rimproverare nulla e che, come allora,

ho bisogno di quei suoni per capire che sono vivo. Non c’è

Sangiorgi che possa farmi cambiare idea.

Avete tra le mani un libro prezioso, sappiatelo, anche se la

data del 2 agosto 1980 vi dice poco o niente. Non è mai

troppo tardi per capire da che parte stare.

PROLOGO

Ci sono cose che non te le scordi più per tutta la vita.

I posti sono tutti uguali, e prima o poi te li scordi, uno vale

l’altro. Come le telefonate: quante ne facciamo in una vita?

Mille? Trentamila? Cinquecentomila? O qualche milione…

E quante ne ricordiamo? Una? Due? Tre? Forse quattro…

E di quelle quattro, di quante ricordiamo il luogo? E l’ora?

Dov’eri quando…

Ennio Morricone, Per un pugno di dollari. Voci del telegiornale,

voci e suoni del 1978-1980

Oggi che siamo tutti telefoni mobili, solo la vita o la

morte annunciate per telefono lasciano l’impronta, il calco

sul posto come a Pompei, che se ripassi da lì mille volte,

mille volte… Solo la vita o la morte annunciate per telefono,

lasciano un’impronta.

CANTO I

Mi ricordo dov’ero quando la radio annunciò la morte di

Aldo Moro: nel pulmino giallo della scuola media, l’autista

ci urlò di stare zitti, bestemmiò e inchiodò. Dieci di noi batterono

una testata maledetta sul sedile davanti, una botta

che lasciò per terra due denti di un sardo che somigliava a

Gianfranco Zola, e a me due punti sulla fronte. Ma di quei

bambini feriti non è rimasta traccia nella storia di quel tragico

giorno.

Ennio Morricone, e Paolo Frajese che annuncia la notizia,

voce rotta dall’emozione.

Mi ricordo dov’ero quando mi dissero che era morto

Roberto, Roberto Procelli (lui, forse era vicino a un telefono,

stava tornando a casa dal militare), uno degli 85 non-sisa-

perché morti alle 10 e 25 del 2 agosto dell’80 a Bologna.

Avevo 15 anni e facevo lo struscio ciondolante intorno a

una piscina pubblica, dove l’avevo incontrato qualche domenica

prima. Lui era di San Leo d’Anghiari, e quella domenica

ciondolava con noi intorno alla piscina, cazzeggiando

lungo il perimetro della vasca per guardare le ragazze. Si

usava così d’estate: la domenica pomeriggio tutti a Sansepolcro

intorno alla vasca fatiscente della piscina pubblica, vestiti,

sotto il sole, a guardare le ragazze in costume. Tra la pozza

di acqua sporca e una pineta di pini marittimi sofferenti

per il mare che è a cento chilometri, c’è una striscia di cemento

percorsa da bambini che urlano, ogni tanto cadono e

si rialzano. Mamme larghe in costume che li rincorrono e

noi, adolescenti maschi vestiti vs femmine pari età in bikini.

È sabato. È un caldo che paralizza, quel sabato pomeriggio.

Stagna nell’aria il puzzo del cloro, e a un tratto in mezzo al

vapore, i bambini schizzano via da tutte le parti come pinguini

che hanno visto un’orca assassina: vestito di nero e

luccicante di catene, arriva di corsa un messaggero punk e ci

urla da dieci metri:

“Hanno ammazzato Roberto con una bomba!” che nessuno

ci crede, e la piscina continua a urlare indifferente.

Cinque metri:

“È scoppiato un treno a Bologna!”

“È un aereo, deficiente, è successo ieri l’altro in Sicilia e

Roberto è al militare a…” A? Dove? Il messaggero punk allora

piange, e parla così piano che nel cicalare dei bambini

gli scrollo le spalle perché lo dica due volte.

“È morto stamattina a Bologna con una bomba, me l’ha

detto la su’ cugina, stronzi…!” Tutti di corsa verso il bar della

piscina, che il barista sta guardando Disco Ring e non

vuol cambiare canale, ma a bestemmie urlate in faccia cambia subito idea.

Una bomba, 85 morti. Scorrono i nomi, e

fra i primi quello scritto sulla piastrina di un militare toscano.

Cosa c’entrava Roberto con quella bomba? Forse non

lo sapremo mai, ma dopo, più avanti, rifaremo la domanda.

Uno dei miei calchi è rimasto in quella piscina, che oggi è

tutta moderna e ha gli scivoli gialli per tuffarsi. Ma quel calco

è ancora lì.

Ennio Morricone, voci del telegiornale da Bologna. Moderata

enfasi dei cronisti negli anni a seguire in cui l’anniversario fa cifra

tonda: ’85, ’90, ’95, 2000… Mix

CANTO II

E comunque, la telefonata che mi ha tatuato luogo-giornoora,

con i colori dell’ambiente intorno (io, quelle tinte, ho

l’impressione ancora oggi di vederci così), fu intorno a mezzogiorno

del 23 dicembre 2002.

Doppio squillo di telefono. Si accende un alberino di Natale

Ero ancora a Sansepolcro, 22 anni dopo, a trecento metri

da quella piscina, che, a quanto pare, non porta molta

fortuna.

(sequenza telefonica)

“Pronto, Andrea…?”

“Oh, Gamma…” Era il Gamma, chitarrista degli Stra,

ora nel mondo del caffè equo e solidale, che si chiama

Gamma dal nome di uno sceneggiato anni ’70 dove c’era

uno sempre in coma.

“Hai sentito? È morto Joe Strummer”.

“Come?” Cosa?

“Joe Strummer, è morto…”

Tutta la vita passa davanti in una telefonata, e si blocca

come i calchi di Pompei. Vedo i miei vent’anni, i miei examici,

i miei capelli, il mio Liceo, edificio anonimo che sta

fra la telefonata del Gamma e la piscina Pincardini, lungo

quella strada che ora è tutta un immenso, gigantesco fossile.

“Joe Strummer, è morto. Non si sa di che…”

“Porca miseria…”, non dissi esattamente ‘porca miseria’.

“E com’è morto?”

“Mi sa d’infarto”.

Ecco lo spartiacque, ecco il bivio. Ecco la fine dell’illusione

che non ci sia un tempo per essere giovani e uno per

essere vecchi. Il giorno che è morto Joe Strummer ho deciso

di cominciare ad invecchiare: mi sono voltato e ho guardato

indietro, verso la rabbia giovane che prima o poi si allontana,

anche se la tiri come un elastico, anche se cerchi di

rinnovarla con un concerto o con una vecchia fidanzata,

niente. Ma niente niente. Un cazzo di niente. Quella rabbia

che ti ha fatto crescere e ti ha spurgato di tutti i liquidi malsani,

prima o poi quella rabbia ti scivola sotto i piedi come

la bava di una lumaca e ti svegli un mattino che sembri ancora

giovane, ma hai lasciato per sempre il controllo completo

al mondo dei grandi.

Complete Control, THE CLASH, 1979, USA version

CANTO III

È appena morto chi mi ha cambiato la vita, chi ha dato la

coscienza e la sveglia a me e a qualche migliaia, forse centinaia

di migliaia di non più giovani sparsi per il mondo. Credo

che almeno dovrei piangere, ma perché piangere la morte

di Joe Strummer? Bisogna ringraziarlo, Gamma, ringraziare

lui e ringraziare i CLASH. La Giulia, che va in Marocco

a fare il Natale con il suo fidanzato, mi chiama dalla Spagna:

“Ma hai sentito?” Sì, ho sentito.

“Sono in Andalusia, come in Spanish Bombs, mi viene da

cantarla…” (la canta, cade la linea). Giulia è fatta così, si

sveglia solo con le emozioni forti. E via, Jacopo da Good-

Fellas, Roma:

“Andrea, ma hai sentito?”

Chiama Penna:

“È morto Strummer. E ora?” Ora non lo so, vedremo…

Chiamano tutti, e ognuno si fa le condoglianze per sé e

per me. Per me ci vuole un brindisi, ad Arezzo, al Caffè dei

Costanti con Andrea, Pippo, Attilio e gli aretini maratoneti

dei concerti in giro per il mondo: a Strummer, ai CLASH.

Quattro bicchieri di rosso, auguri, vaffanculo e due cazzotti

sulle spalle, poi ognuno a casa sua. Lungo la statale umbrocasentinese

intasata dai fari abbaglianti (che ad Arezzo nessuno

usa i fari gentili neanche a Natale) mi fermo a bere in

un chiosco, occupato in gran parte da una barista grassa con

le sopracciglia disegnate come Moira Orfei. Ha la radio accesa

su non so che stazione rurale aretina. “Rock the Casbah”,

ma la signora non fa una piega…

“È morto. Lo sa che quello che canta è morto?”, la signora

neanche mi guarda.

“Aveva 50 anni, era il cantante dei CLASH”. Niente. Un

muro di carne. La canzone finisce, e lei parla:

“Altro?”

Pago. Esco. Ci ripenso e cammino all’indietro:

“Si chiamava Joe Strummer, era nato in Turchia”.

“M’importa ‘na sega”, non lo dice ma si legge bene nel labiale

delle sopracciglia finte. Direzione Sansepolcro, la città

dei miei calchi, chissà ora quali mielosi necrologi passeranno

le radio. E invece niente, silenzio assoluto. È la vigilia di

Natale e non ho pace, possibile che siano tutti in casa a incartare

i regali, grassi e pelati, senza voglia di parlarne un

minuto. Guardo fuori dal vetro di un ex-bar oggi promosso

con i gradi a enoteca-wine bar-store-happyfava: mille passanti

meccanici coi regali, ma non passa nessuno. E chi vuoi

che passi? Johnny Rotten in vacanza in Toscana? O Billy

Bragg con la chitarra a tracolla… Non ci sarà nessuno che

farà la veglia a Joe Strummer. Il barista oggi sciacqua bicchieri

giganti e presenta con garbo un vino rosso a due turisti

francesi. Era uno skinhead, vent’anni fa i bicchieri li

spaccava sulle teste degli altri. Il tempo passa. Non passa

nessuno. Anzi, un’ombra, passa un’ombra che mi sembra

lui, Gianni Dragoni, detto Johnny Drago, uno che quando

era in sé ha visto i CLASH a Firenze e a Bologna. Poi anche

Johnny Drago, per avere abusato con troppa fiducia della

chimica, ha perso un po’ d’equilibrio. Accetta un bicchiere,

il barista lo serve, un po’ teso.

“Strummer? Tu credi che sia morto d’infarto? Col cazzo,

porca ********! L’ha ammazzato Scotland Yard con l’aiuto

dei massoni unionisti inglesi! Bastardi fascisti inglesi de merda!”

La sua illuminazione va avanti, io ribevo e lascio scorrere

tutto, nomi (“Scotland Yard e i bastardi unionisti!”), luoghi

(“L’ordine è partito dall’Ulster!”), musiche del suo delirio

(“Let’s riot!”). Finché Drago sparisce, in silenzio. Come ha

sempre fatto. Non c’è nessun altro con cui parlare. Uno,

passa uno che ora fa il commercialista, con la Porsche

Cayenne, ma che gli dico? L’ultima volta che l’ho sentito, faceva

causa a un nostro ex-compagno di liceo che aveva detto

in giro che lui si faceva le canne. Capirai che scoop, comunque

l’aveva denunciato per diffamazione e si era fatto

dare diecimila euro. E allora torno a casa, nevischia come

dovrebbe a Natale, e penso a quelli che potrebbero parlare

con me, perché sono ancora giovani, perché sono nati

quando sono nato io, ma si sono fermati prima, abbracciati

a qualche spada lungo le strade di provincia. Confusi dentro

un guard-rail della E45. I morti di noia al militare, con in

bocca la canna fredda di un Garand, oppure quelli misteriosamente

scomparsi in Sudamerica. Loro potrebbero parlare

con me di Joe Strummer e dei CLASH, di quanto sono stati

grandi i CLASH e di come hanno cambiato le nostre vite.

Straight to Hell, COMBAT ROCK, 1982

CANTO IV

Ma si può cambiare la vita con le canzoni? Non si sa, e poi

non c’è musica che possa cambiare la vigilia del Natale più

triste della mia vita. Sulla porta di casa un pacco-regalo, bagnato

dal nevischio. Non faccio mai regali a nessuno, è

troppo freddo. Sono solo, casa mia è deserta. C’è un fondo

di bottiglia di un rosso aspro della coop, per reazione

all’agro scrollo il bicchiere sul pacco. Anche la carta reagisce

all’aspro, strappo… Orlando Furioso, Ludovico Ariosto… Ma chi

cazzo è che…? Non c’è scritto nient’altro che: “Auguri”…

Ma “Auguri” di che? È morto Joe Strummer, e da vent’anni

i CLASH non fanno più un disco. Ariosto, ma vaffanculo

alle glorie letterarie italiche, la mia indulgenza è finita da un

pezzo. Il rosso è finito. Mi butto sul Vov, lo scaldo in un

pentolino e mi riempio il naso della buccia di limone. Poi

metto in fila tutto il vinile dei CLASH. Lo annuso, che il

tempo porta via tutti gli odori forti. Non lo giro mai, si sciupa.

Tratto i CD come schiavi, frustati dal masterizzatore,

falsi e bugiardi nel riprodurre i bassi e tutte le sfumature. Io

servo il vinile, qualche libro casuale, e le musicassette TDK,

che durino almeno quanto me e poi vaffanculo. Carta, plastica,

inchiostri e suoni: ecco di che è fatta la vita di uno,

con un po’ di carne e 4 litri scarsi di sangue. Bisogna rispettare

il sangue che c’è nell’Ariosto, rispettarlo anche da ubriaco

smarrito e addolorato dalla morte di Joe Strummer.

CANTO V

“Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori… le droghe?”

Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le droghe!,

l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaron i CLASH

d’Inghilterra il mare, e in Italia piacquer tanto,

scatenando l’ire e i giovanil furori

di Joe Strummer lor re, che si diè vanto

di vendicar la morte del Punk Rock

sopra re Carlo imperator romano”.

Ma che cazzo vuol dire…

“Dirò dei CLASH in un medesmo tratto

cosa non detta in prosa mai, né in rima:

che per amor io venni in furore e matto,

d’uom che sì saggio ero stimato prima;

se da colei che tal quasi m’ha fatto,

che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,

me ne sarà ‘l delirio tanto concesso,

che mi basti a finir quanto ho promesso”.

“Finir quanto ho promesso… Finir quanto ho promesso…

Finir quanto ho promesso…”

Ecco, ecco come comincia: “Le donne, i cavalier, l’arme,

gli amori, le droghe, l’audaci imprese io canto, che furo al

tempo che passaron i CLASH d’Inghilterra il mare…”

CANTO VI

I CLASH… Paul Simonon armato del basso che attraversa

la pelle dello stomaco, Topper Headon con i tamburi che

danno ritmo al coraggio, Mick Jones con la chitarra lama tagliente

e affilata che salta indemoniato, e lui, Joe Strummer,

il cantante-profeta soldato con la sua telecaster mitragliatrice

in levare… Così comincia, con loro sul campo di battaglia…

Io li vedo arrivare, che da questo vinile escono ancora

le lame di un esercito sbandato… Luccica d’oro finto tutta

la stanza, musica d’assalto dentro e fuori sirene e lampi

blu, mattoni che spaccano vetri e vetri di macchine bruciate.

Come puzza avere quarant’anni, grassi inquadrati e ordinari

con tutto questo disordine che invece preme alla porta e

profuma di mille cose bruciate. Una parola sola: PUNK, la

più grande rivoluzione del ‘900. Una sola armata: i CLASH.

Mi venisse un colpo se non è stato così… E venisse un colpo

a voi, se ora non vi racconto tutto… Tutto!

CLASH City Rockers, THE CLASH, 1979, USA

version

I CLASH, diomadonnadecristo! I CLASH! Prima di

loro: non c’è niente! Dopo? Dopo c’è poco o niente. I

CLASH! Lo Scontro, la battaglia, la rivolta…, che forse non

c’è mai stata… Eppure schianta tutto, tutto schianta nel 1977!

CANTO VII

White riot – I wanna riot

White riot – a riot of my own

White riot – I wanna riot

White riot – a riot of my own

Rivolta Bianca! Ma io nel ’77 ho dodici anni, sono un

citto, sto in una frazione rurale d’Anghiari, Tavernelle,

che è in Toscana, in quel corno di Toscana che sta sotto la

Romagna, che s’infila nelle Marche poggiando il culo

sull’Umbria. Più precisamente è il buco del culo dell’Italia,

l’Italia del caldo ’77, l’Italia in fiamme, ma mentre l’Italia

brucia, io, figlio di una sarta che fa l’orlo ai pantaloni scampanati,

e di un giardiniere che lavora in un convento di suore

francesi, io mi preparo alla cresima insieme a qualche

amico che diventerà eroe, adesso, fra qualche minuto. Eroi

che nel ’77 fanno la cresima, e non sanno ancora niente di

Londra e dei CLASH. Giovani, indemoniate mezzeseghe

con le prime pelurie, eroi che ancora sono fra lo Zecchino

d’Oro e Sanremo, dove Tony Santagata canta “I love the punk”!

Tony Santagata, I love the Punk, 1978

“Sputame ‘n faccia! Rompime l’ossa… Io so’ punk, io so’ punk,

lalalà, lallarallalà…” PUNK, o Tony Santagata: ma che vuol

dire? Niente, niente prima del ’79, quando per me e per

qualche altro eroe ancora senza corazza e senza spada, arrivano

le scuole superiori: il Liceo.

Tommy Gun, GIVE ‘EM ENOUGH ROPE, 1978

Il ragazzo sguaiato cresciuto nel ’77 per le campagne anghiaresi

sta mutando pelle: educato da due onesti e umili genitori,

maleducato autodidatta per vocazione, finisco in un

Liceo, a Sansepolcro, 16000 abitanti contro i 250 della mia

frazione, una città… La cortina del citto selvatico si squarcia,

nuove amicizie con i dischi, il vinile (per me esistevano solo

le musicassette): copertine di vinile che sono le tavole dei

nuovi comandamenti, e dentro il Verbo, una musica nuova

che suona ogni minuto dei miei 14 anni, su tutto una musica

che avrebbe cambiato la vita a me e agli altri eroi, che ora

prendono a scudo il vinile e per spada, per lancia… A scudo

il vinile e per lancia e per spada… lance e spade proibite

dalla legge. Arrivato al liceo con i capelli a caschetto (alla

Mal dei Primitives), camicia candida con sopra un cardigan

carta da zucchero confezionato dalla Celestina (la mia vicina

di casa terrorizzata dai miei urli e dai miei dispetti -ranocchie

e topi morti fra le gambe-) e con il pantalone a zampa

d’elefante, esce “London Calling” e dopo qualche mese, quel

ragazzino non esiste più. Cancellato da 19 canzoni che

prendono il posto del cuore, del fegato e del cervello. Sopra

il cervello ciuffi di capelli ritti e sfumature alte. Sotto, calzature

pesanti e abbigliamento in bianco/nero. I colori sono

spariti. Gli orli della mi’ mamma diventano sempre più

stretti, dalla zampa d’elefante al pantalone a cannuccia,

stretto e alto sopra l’anfibio. I jeans si strappano, e di quel

ragazzino non c’è più traccia.

Brand New Cadillac, LONDON CALLING, 1979

CANTO VIII

Se fra 5000 anni un’astronave ritrovasse una copia di questo

vinile, e avesse qualcosa per farlo girare, capirebbe tutto del

XX secolo. Che copertina… Il basso fra le mani, la rabbia

di Paul Simonon e lo scatto sfuocato di Pennie Smith: non è

una copertina, è la foto sulla mia carta d’identità, il mio

DNA, il cartello stradale della via maestra. Il basso che

spezza le ossa al mondo vigliacco assassino impestato di

merda.

05.02.2016
Clash to me è in fase di editing, le copie saranno inviate ai sostenitori non appena il libro sarà pronto (presto!). Vi terremo aggiornati su questa pagina.
21.02.2016
a brevissimo avverrà la pubblicazione ufficiale di Clash to me! Nel frattempo, il libro è stato presentato in anteprima il 18 marzo a Fidenza, da Andrea Merendelli e Luca Frazzi. Vi proponiamo alcuni scatti della serata.
08.09.2016
Ecco tre foto per della "prima" uscita ufficiale del libro, @ Festival dell'Autobiografia. Vicino all'autore, Elena Camerelli e Luca Frazzi, prefattore del libro. Presto presentazioni in altre città! 1-14 2-7 3-4
25 Gennaio 2018
Un libro che segna. Così per Tony Face è "Clash to me" di Andrea Merendelli, e noi non potremmo essere più d'accordo. Al link trovate la recensione https://bit.ly/2EbPUWJ

Commenti

  1. magia9194

    potevo non partecipare ???? no non potevo! per ricordare quel 1 giugno 1980 in Piazza Maggiore.
    STAY FREE

  2. alessandra

    sono curiosa di leggere la storia Tanto ben rappresentata a teatro

  3. MatteoEVE

    Rotto il ghiaccio!!

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Andrea Merendelli
Andrea Merendelli (Anghiari, 2 luglio 1965), regista e autore teatrale, storyteller per discendenza matrilineare, si occupa da oltre 20 anni di storie di vita, emigrazione ed emarginazione. Attraverso percorsi di formazione autobiografica, ha scritto e prodotto documentari e spettacoli in Italia e all'estero, mantenendo una fiera indipendenza dei prodotti d'arte e di denuncia sociale. Fra i suoi maestri Jean Claude Carrière, Manlio Santanelli, Fernando Solanas con il quale ha collaborato per due anni al Progetto La Plata, producendo un film sull'emigrazione toscana in Argentina. Docente in progetti europei e formativi legati allo storytelling, è da 20 edizione coautore e regista di Tovaglia a Quadri, evento-rito di teatro e cibo a km 0, ormai conosciuto in tutta Italia. Come scrittore ha partecipato a manuali editi da Franco Angeli e Unicopli, oltre a scrivere saggi sul Teatro Italiano del XVII secolo e sulla storia della repressione degli anarchici in epoca fascista. Clash to me è il romanzo di "formazione" dal quale è tratto l'omonimo spettacolo in tour dal 2006 al 2012.
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