Un anno fa ho deciso di ripartire da zero. Dirigo una nuova
aggiunte 200, poi altre 300 e infine 200. 1000 copie al primo
numero, partendo da zero. La rivista che voleva essere una
fanzine si chiama Sottoterra. Da lì sono ripartito alla ricerca
una Lettera 35 dell’Olivetti, forbici e colla. La retorica degli
eterni fanzinari. Si perché questo sono, né più né meno. A
illudermi un po’. Ho mollato tutto e sono ripassato dal via.
racconto punk di provincia? C’entra. Provo a spiegare il perché.
Sottoterra lo realizzo con altre due persone. Ci scrivono in
tanti ma lo progettiamo, assembliamo e vendiamo in tre.
Fin qui niente di male. Il fatto è che le altre due persone
sono ragazzi che hanno la metà dei miei anni. Nessuna legge
parlare due linguaggi diversi, nei fatti no. Quindi,
avanti così. E i Clash? Ci arriviamo.
Estate 2015, un pomeriggio, in stabilimento. Fa un caldo
5. Smonto dal turno di carico al forno, mi siedo un attimo
per riposare. Sono fradicio di sudore, giù di morale, coi miei
cazzi più girati del solito. Vibra il cellulare. È un messaggio
WhatsApp di Lorenzo, uno dei miei due soci sotterrati. Lo
apro, è una foto. Metto a fuoco. E la giornata, da problematica,
diventa insostenibile.
Premessa: il prototipo della band che odio ha una fisionomia
ben definita. Melodramma, chitarre liofilizzate, superproduzione,
gorgheggi sofferti, retorica a secchiate. Una fisionomia
e un nome: Negramaro. Fatico a ricordare, nella
mia lunga carriera di appassionato di musica, una band che
ho detestato più dei cinque pugliesi. Ne ho odiate tante, ma
nessuna come loro. La foto che mi ha spedito Lorenzo è un
colpo bassissimo: sole accecante che illumina un mare celeste
e una spiaggia del sud sullo sfondo. In primo piano, a
bordo di una barca, due figure maschili a torso nudo che se
la ridono davanti a un piatto di pesce e una boccia di rosé
ghiacciato. Quello a sinistra nella foto, con asciugamano che
gli copre le vergogne, occhiali scuri e cappellino odioso da
aperitivo, è Giuliano Sangiorgi, voce e leader dei Negramaro.
L’altro è l’ultima persona che avrei voluto vedere al fianco
di Sangiorgi su quella barca. Sdentato come sempre, con
qualche capello in meno e quella pistola tatuata sul petto.
Non si scappa, è lui. Quell’uomo è Paul Simonon. Mentre io
caricavo pezzi di propellente su un nastro trasportatore, il
soggetto della foto di Pennie Smith che fa di London Calling
l’album perfetto se ne stava in barca con Sangiorgi a ciucciare
cozze e vongole. Crac. Cuore spezzato (il mio). Lorenzo
aveva spedito quella foto per prendermi bonariamente per il
culo, senza sapere il male che mi stava facendo. O forse lo
sapeva e ci teneva a ricordarmi che la demenza senile gioca
scherzi pesanti. Lo stronzo. Paul in Puglia alla Notte della
Taranta, sul palco coi Negramaro e il Liga. Tamburelli, pifferi,
trombette. La materializzazione di un incubo.
Io sono uno che in teatro, le rare volte che ci va, si annoia a
morte. D’altronde, sono anche uno che preferisce il posticipo
di Lega Pro del lunedì sera su Rai Sport a qualsiasi talk
show televisivo. Sono uno che guarda la tv e va al bar. E
mica nei bar che ti servono il caffè equosolidale. Qualche
anno fa ho fatto lo sforzo fisico e mentale di accettare il
consiglio di un amico clashiano (“Vedrai, ti piacerà…non
può non piacerti…”), mi sono fatto violenza e sono andato a
una rappresentazione di Clash To Me. “Un monologo…” mi
era stato detto “…alla Paolini, con una backing band che accenna
a qualche cover dei Clash”. Detta così, c’era da fingersi
malato, sbattersi davanti alla tv armati di telecomando
e al limite, ma proprio al limite, piazzare il cd di London Calling
nel lettore (nemmeno il vinile, troppa fatica) e archiviare
così la pratica “nostalgia”. Invece sono andato. E mi sono
sentito una merda, durante e dopo lo spettacolo. Perché?
Perché Andrea Merendelli in poco più di un’ora mi ha sbattuto
in faccia tutta la mia vigliaccheria.
Raccontava una storia che era la mia, fatta di sana demagogia
(perché a volte non se ne può fare a meno), rabbia adolescenziale,
ingenuità, voglia di Clash e di luoghi che non
erano il tuo paese (quel paese che in cuor nostro sapevamo
che non avremmo mai lasciato). Con parole che oggi, a 30
anni e passa dai fatti raccontati, assumono un significato
che francamente non riesco a spiegare, anche se forse non è
necessario farlo. Di sicuro non devo spiegarlo ad Andrea e
nemmeno a quelli che da ragazzi smanettavano sulla manopola
della sintonia cercando una radio che passasse i Clash
persi in un mare di umbertitozzi, giannitogni e loredaneberté.
Non c’è bisogno di spiegare, era così. Era quell’Italia lì, e
noi in quell’Italia galleggiavamo col mito dei Clash, non più
bambini e non abbastanza grandi da incidere sul presente.
Guardo Andrea e mi vedo. Ma senza lo stupido pudore che
mi frena quando si tratta di ricordare e mettersi a nudo. È
stata una lezione, tutto compreso.
Anni di cazzate dette e scritte ne hanno offuscato il ricordo,
sparare sui Clash oggi è la cosa più facile del mondo. Strummer
è un’icona svuotata di ogni residuo eversivo, una faccia
da stampare su magliette stinte indossate da giovani seguaci
di Nichi Vendola al pub al sabato sera, sorseggiando una
birra artigianale da 10 euro. Telecaster a tracolla, manco fosse
uno Springsteen qualsiasi. Mick Jones ha assunto le sembianze
di un gangster fuori tempo massimo. Anzi, di un mafioso.
Se pensi alla sequenza di Rude Boy dove canta Stay
Free, nella solitudine dello studio di registrazione, ti viene il
magone e pensi che lui forse è morto lì, in quello studio, in
quel momento perfetto, e che molte delle boiate fatte negli
ultimi 30 anni ce le doveva risparmiare. Topper Headon,
dopo una vita spesa a forarsi le braccia adesso è un onesto
tassista di Brighton che si è riappacificato con quei giorni
tumultuosi e confessa di non aver mai capito sino in fondo
cos’era il punk. E Paul, beh, di Paul abbiamo detto. Non
doveva farlo, punto. In sintesi: un mito invecchiato male,
quello dei Clash, sono il primo a riconoscerlo. Sono anche il
primo però a sbattersene i coglioni, perché i Clash sono i
Clash. Non quelli che piacciono alla borghesia progressista.
No. Nemmeno quelli che incendiavano la Londra del ’77
con White Riot, facevano la storia con London Calling e disegnavano
il futuro con Sandinista!. No, nemmeno quelli. Parlo
dei Clash che Andrea ascoltava nella sua camera a Tavernelle
e io dalla mia radio stereo con mangiacassette a Fidenza,
sulla panchina di Largo Leopardi. Quei Clash, la band
perfetta. The only band that matters. Sentirli raccontare
così, da un punto di vista così vicino al mio, senza vergognarsi
di mettere in piazza certe emozioni, ha riaperto quella
ferita generata dal tempo e dalla maturità che il tempo trascina
con sé. E che impone, maledetto. Clash To Me fa a pugni
con la maturità. È un racconto di stomaco che fa
dell’adolescenza di quegli anni qualcosa di unico. Per questo,
quella foto di Paul Simonon arrivata via Whatsapp fa
ancora più male.
Arrivato a casa, alla sera, ho preso il manoscritto di Andrea
e l’ho riletto. Ho capito che a quel pirla di Paul, a Joe, Mick
e Topper non posso rimproverare nulla e che, come allora,
ho bisogno di quei suoni per capire che sono vivo. Non c’è
Sangiorgi che possa farmi cambiare idea.
Avete tra le mani un libro prezioso, sappiatelo, anche se la
data del 2 agosto 1980 vi dice poco o niente. Non è mai
troppo tardi per capire da che parte stare.
PROLOGO
Ci sono cose che non te le scordi più per tutta la vita.
I posti sono tutti uguali, e prima o poi te li scordi, uno vale
l’altro. Come le telefonate: quante ne facciamo in una vita?
Mille? Trentamila? Cinquecentomila? O qualche milione…
E quante ne ricordiamo? Una? Due? Tre? Forse quattro…
E di quelle quattro, di quante ricordiamo il luogo? E l’ora?
Dov’eri quando…
Ennio Morricone, Per un pugno di dollari. Voci del telegiornale,
voci e suoni del 1978-1980
Oggi che siamo tutti telefoni mobili, solo la vita o la
morte annunciate per telefono lasciano l’impronta, il calco
sul posto come a Pompei, che se ripassi da lì mille volte,
mille volte… Solo la vita o la morte annunciate per telefono,
lasciano un’impronta.
CANTO I
Mi ricordo dov’ero quando la radio annunciò la morte di
Aldo Moro: nel pulmino giallo della scuola media, l’autista
ci urlò di stare zitti, bestemmiò e inchiodò. Dieci di noi batterono
una testata maledetta sul sedile davanti, una botta
che lasciò per terra due denti di un sardo che somigliava a
Gianfranco Zola, e a me due punti sulla fronte. Ma di quei
bambini feriti non è rimasta traccia nella storia di quel tragico
giorno.
Ennio Morricone, e Paolo Frajese che annuncia la notizia,
voce rotta dall’emozione.
Mi ricordo dov’ero quando mi dissero che era morto
Roberto, Roberto Procelli (lui, forse era vicino a un telefono,
stava tornando a casa dal militare), uno degli 85 non-sisa-
perché morti alle 10 e 25 del 2 agosto dell’80 a Bologna.
Avevo 15 anni e facevo lo struscio ciondolante intorno a
una piscina pubblica, dove l’avevo incontrato qualche domenica
prima. Lui era di San Leo d’Anghiari, e quella domenica
ciondolava con noi intorno alla piscina, cazzeggiando
lungo il perimetro della vasca per guardare le ragazze. Si
usava così d’estate: la domenica pomeriggio tutti a Sansepolcro
intorno alla vasca fatiscente della piscina pubblica, vestiti,
sotto il sole, a guardare le ragazze in costume. Tra la pozza
di acqua sporca e una pineta di pini marittimi sofferenti
per il mare che è a cento chilometri, c’è una striscia di cemento
percorsa da bambini che urlano, ogni tanto cadono e
si rialzano. Mamme larghe in costume che li rincorrono e
noi, adolescenti maschi vestiti vs femmine pari età in bikini.
È sabato. È un caldo che paralizza, quel sabato pomeriggio.
Stagna nell’aria il puzzo del cloro, e a un tratto in mezzo al
vapore, i bambini schizzano via da tutte le parti come pinguini
che hanno visto un’orca assassina: vestito di nero e
luccicante di catene, arriva di corsa un messaggero punk e ci
urla da dieci metri:
“Hanno ammazzato Roberto con una bomba!” che nessuno
ci crede, e la piscina continua a urlare indifferente.
Cinque metri:
“È scoppiato un treno a Bologna!”
“È un aereo, deficiente, è successo ieri l’altro in Sicilia e
Roberto è al militare a…” A? Dove? Il messaggero punk allora
piange, e parla così piano che nel cicalare dei bambini
gli scrollo le spalle perché lo dica due volte.
“È morto stamattina a Bologna con una bomba, me l’ha
detto la su’ cugina, stronzi…!” Tutti di corsa verso il bar della
piscina, che il barista sta guardando Disco Ring e non
vuol cambiare canale, ma a bestemmie urlate in faccia cambia subito idea.
Una bomba, 85 morti. Scorrono i nomi, e
fra i primi quello scritto sulla piastrina di un militare toscano.
Cosa c’entrava Roberto con quella bomba? Forse non
lo sapremo mai, ma dopo, più avanti, rifaremo la domanda.
Uno dei miei calchi è rimasto in quella piscina, che oggi è
tutta moderna e ha gli scivoli gialli per tuffarsi. Ma quel calco
è ancora lì.
Ennio Morricone, voci del telegiornale da Bologna. Moderata
enfasi dei cronisti negli anni a seguire in cui l’anniversario fa cifra
tonda: ’85, ’90, ’95, 2000… Mix
CANTO II
E comunque, la telefonata che mi ha tatuato luogo-giornoora,
con i colori dell’ambiente intorno (io, quelle tinte, ho
l’impressione ancora oggi di vederci così), fu intorno a mezzogiorno
del 23 dicembre 2002.
Doppio squillo di telefono. Si accende un alberino di Natale
Ero ancora a Sansepolcro, 22 anni dopo, a trecento metri
da quella piscina, che, a quanto pare, non porta molta
fortuna.
(sequenza telefonica)
“Pronto, Andrea…?”
“Oh, Gamma…” Era il Gamma, chitarrista degli Stra,
ora nel mondo del caffè equo e solidale, che si chiama
Gamma dal nome di uno sceneggiato anni ’70 dove c’era
uno sempre in coma.
“Hai sentito? È morto Joe Strummer”.
“Come?” Cosa?
“Joe Strummer, è morto…”
Tutta la vita passa davanti in una telefonata, e si blocca
come i calchi di Pompei. Vedo i miei vent’anni, i miei examici,
i miei capelli, il mio Liceo, edificio anonimo che sta
fra la telefonata del Gamma e la piscina Pincardini, lungo
quella strada che ora è tutta un immenso, gigantesco fossile.
“Joe Strummer, è morto. Non si sa di che…”
“Porca miseria…”, non dissi esattamente ‘porca miseria’.
“E com’è morto?”
“Mi sa d’infarto”.
Ecco lo spartiacque, ecco il bivio. Ecco la fine dell’illusione
che non ci sia un tempo per essere giovani e uno per
essere vecchi. Il giorno che è morto Joe Strummer ho deciso
di cominciare ad invecchiare: mi sono voltato e ho guardato
indietro, verso la rabbia giovane che prima o poi si allontana,
anche se la tiri come un elastico, anche se cerchi di
rinnovarla con un concerto o con una vecchia fidanzata,
niente. Ma niente niente. Un cazzo di niente. Quella rabbia
che ti ha fatto crescere e ti ha spurgato di tutti i liquidi malsani,
prima o poi quella rabbia ti scivola sotto i piedi come
la bava di una lumaca e ti svegli un mattino che sembri ancora
giovane, ma hai lasciato per sempre il controllo completo
al mondo dei grandi.
Complete Control, THE CLASH, 1979, USA version
CANTO III
È appena morto chi mi ha cambiato la vita, chi ha dato la
coscienza e la sveglia a me e a qualche migliaia, forse centinaia
di migliaia di non più giovani sparsi per il mondo. Credo
che almeno dovrei piangere, ma perché piangere la morte
di Joe Strummer? Bisogna ringraziarlo, Gamma, ringraziare
lui e ringraziare i CLASH. La Giulia, che va in Marocco
a fare il Natale con il suo fidanzato, mi chiama dalla Spagna:
“Ma hai sentito?” Sì, ho sentito.
“Sono in Andalusia, come in Spanish Bombs, mi viene da
cantarla…” (la canta, cade la linea). Giulia è fatta così, si
sveglia solo con le emozioni forti. E via, Jacopo da Good-
Fellas, Roma:
“Andrea, ma hai sentito?”
Chiama Penna:
“È morto Strummer. E ora?” Ora non lo so, vedremo…
Chiamano tutti, e ognuno si fa le condoglianze per sé e
per me. Per me ci vuole un brindisi, ad Arezzo, al Caffè dei
Costanti con Andrea, Pippo, Attilio e gli aretini maratoneti
dei concerti in giro per il mondo: a Strummer, ai CLASH.
Quattro bicchieri di rosso, auguri, vaffanculo e due cazzotti
sulle spalle, poi ognuno a casa sua. Lungo la statale umbrocasentinese
intasata dai fari abbaglianti (che ad Arezzo nessuno
usa i fari gentili neanche a Natale) mi fermo a bere in
un chiosco, occupato in gran parte da una barista grassa con
le sopracciglia disegnate come Moira Orfei. Ha la radio accesa
su non so che stazione rurale aretina. “Rock the Casbah”,
ma la signora non fa una piega…
“È morto. Lo sa che quello che canta è morto?”, la signora
neanche mi guarda.
“Aveva 50 anni, era il cantante dei CLASH”. Niente. Un
muro di carne. La canzone finisce, e lei parla:
“Altro?”
Pago. Esco. Ci ripenso e cammino all’indietro:
“Si chiamava Joe Strummer, era nato in Turchia”.
“M’importa ‘na sega”, non lo dice ma si legge bene nel labiale
delle sopracciglia finte. Direzione Sansepolcro, la città
dei miei calchi, chissà ora quali mielosi necrologi passeranno
le radio. E invece niente, silenzio assoluto. È la vigilia di
Natale e non ho pace, possibile che siano tutti in casa a incartare
i regali, grassi e pelati, senza voglia di parlarne un
minuto. Guardo fuori dal vetro di un ex-bar oggi promosso
con i gradi a enoteca-wine bar-store-happyfava: mille passanti
meccanici coi regali, ma non passa nessuno. E chi vuoi
che passi? Johnny Rotten in vacanza in Toscana? O Billy
Bragg con la chitarra a tracolla… Non ci sarà nessuno che
farà la veglia a Joe Strummer. Il barista oggi sciacqua bicchieri
giganti e presenta con garbo un vino rosso a due turisti
francesi. Era uno skinhead, vent’anni fa i bicchieri li
spaccava sulle teste degli altri. Il tempo passa. Non passa
nessuno. Anzi, un’ombra, passa un’ombra che mi sembra
lui, Gianni Dragoni, detto Johnny Drago, uno che quando
era in sé ha visto i CLASH a Firenze e a Bologna. Poi anche
Johnny Drago, per avere abusato con troppa fiducia della
chimica, ha perso un po’ d’equilibrio. Accetta un bicchiere,
il barista lo serve, un po’ teso.
“Strummer? Tu credi che sia morto d’infarto? Col cazzo,
porca ********! L’ha ammazzato Scotland Yard con l’aiuto
dei massoni unionisti inglesi! Bastardi fascisti inglesi de merda!”
La sua illuminazione va avanti, io ribevo e lascio scorrere
tutto, nomi (“Scotland Yard e i bastardi unionisti!”), luoghi
(“L’ordine è partito dall’Ulster!”), musiche del suo delirio
(“Let’s riot!”). Finché Drago sparisce, in silenzio. Come ha
sempre fatto. Non c’è nessun altro con cui parlare. Uno,
passa uno che ora fa il commercialista, con la Porsche
Cayenne, ma che gli dico? L’ultima volta che l’ho sentito, faceva
causa a un nostro ex-compagno di liceo che aveva detto
in giro che lui si faceva le canne. Capirai che scoop, comunque
l’aveva denunciato per diffamazione e si era fatto
dare diecimila euro. E allora torno a casa, nevischia come
dovrebbe a Natale, e penso a quelli che potrebbero parlare
con me, perché sono ancora giovani, perché sono nati
quando sono nato io, ma si sono fermati prima, abbracciati
a qualche spada lungo le strade di provincia. Confusi dentro
un guard-rail della E45. I morti di noia al militare, con in
bocca la canna fredda di un Garand, oppure quelli misteriosamente
scomparsi in Sudamerica. Loro potrebbero parlare
con me di Joe Strummer e dei CLASH, di quanto sono stati
grandi i CLASH e di come hanno cambiato le nostre vite.
Straight to Hell, COMBAT ROCK, 1982
CANTO IV
Ma si può cambiare la vita con le canzoni? Non si sa, e poi
non c’è musica che possa cambiare la vigilia del Natale più
triste della mia vita. Sulla porta di casa un pacco-regalo, bagnato
dal nevischio. Non faccio mai regali a nessuno, è
troppo freddo. Sono solo, casa mia è deserta. C’è un fondo
di bottiglia di un rosso aspro della coop, per reazione
all’agro scrollo il bicchiere sul pacco. Anche la carta reagisce
all’aspro, strappo… Orlando Furioso, Ludovico Ariosto… Ma chi
cazzo è che…? Non c’è scritto nient’altro che: “Auguri”…
Ma “Auguri” di che? È morto Joe Strummer, e da vent’anni
i CLASH non fanno più un disco. Ariosto, ma vaffanculo
alle glorie letterarie italiche, la mia indulgenza è finita da un
pezzo. Il rosso è finito. Mi butto sul Vov, lo scaldo in un
pentolino e mi riempio il naso della buccia di limone. Poi
metto in fila tutto il vinile dei CLASH. Lo annuso, che il
tempo porta via tutti gli odori forti. Non lo giro mai, si sciupa.
Tratto i CD come schiavi, frustati dal masterizzatore,
falsi e bugiardi nel riprodurre i bassi e tutte le sfumature. Io
servo il vinile, qualche libro casuale, e le musicassette TDK,
che durino almeno quanto me e poi vaffanculo. Carta, plastica,
inchiostri e suoni: ecco di che è fatta la vita di uno,
con un po’ di carne e 4 litri scarsi di sangue. Bisogna rispettare
il sangue che c’è nell’Ariosto, rispettarlo anche da ubriaco
smarrito e addolorato dalla morte di Joe Strummer.
CANTO V
“Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori… le droghe?”
Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le droghe!,
l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaron i CLASH
d’Inghilterra il mare, e in Italia piacquer tanto,
scatenando l’ire e i giovanil furori
di Joe Strummer lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte del Punk Rock
sopra re Carlo imperator romano”.
Ma che cazzo vuol dire…
“Dirò dei CLASH in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor io venni in furore e matto,
d’uom che sì saggio ero stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà ‘l delirio tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso”.
“Finir quanto ho promesso… Finir quanto ho promesso…
Finir quanto ho promesso…”
Ecco, ecco come comincia: “Le donne, i cavalier, l’arme,
gli amori, le droghe, l’audaci imprese io canto, che furo al
tempo che passaron i CLASH d’Inghilterra il mare…”
CANTO VI
I CLASH… Paul Simonon armato del basso che attraversa
la pelle dello stomaco, Topper Headon con i tamburi che
danno ritmo al coraggio, Mick Jones con la chitarra lama tagliente
e affilata che salta indemoniato, e lui, Joe Strummer,
il cantante-profeta soldato con la sua telecaster mitragliatrice
in levare… Così comincia, con loro sul campo di battaglia…
Io li vedo arrivare, che da questo vinile escono ancora
le lame di un esercito sbandato… Luccica d’oro finto tutta
la stanza, musica d’assalto dentro e fuori sirene e lampi
blu, mattoni che spaccano vetri e vetri di macchine bruciate.
Come puzza avere quarant’anni, grassi inquadrati e ordinari
con tutto questo disordine che invece preme alla porta e
profuma di mille cose bruciate. Una parola sola: PUNK, la
più grande rivoluzione del ‘900. Una sola armata: i CLASH.
Mi venisse un colpo se non è stato così… E venisse un colpo
a voi, se ora non vi racconto tutto… Tutto!
CLASH City Rockers, THE CLASH, 1979, USA
version
I CLASH, diomadonnadecristo! I CLASH! Prima di
loro: non c’è niente! Dopo? Dopo c’è poco o niente. I
CLASH! Lo Scontro, la battaglia, la rivolta…, che forse non
c’è mai stata… Eppure schianta tutto, tutto schianta nel 1977!
CANTO VII
White riot – I wanna riot
White riot – a riot of my own
White riot – I wanna riot
White riot – a riot of my own
Rivolta Bianca! Ma io nel ’77 ho dodici anni, sono un
citto, sto in una frazione rurale d’Anghiari, Tavernelle,
che è in Toscana, in quel corno di Toscana che sta sotto la
Romagna, che s’infila nelle Marche poggiando il culo
sull’Umbria. Più precisamente è il buco del culo dell’Italia,
l’Italia del caldo ’77, l’Italia in fiamme, ma mentre l’Italia
brucia, io, figlio di una sarta che fa l’orlo ai pantaloni scampanati,
e di un giardiniere che lavora in un convento di suore
francesi, io mi preparo alla cresima insieme a qualche
amico che diventerà eroe, adesso, fra qualche minuto. Eroi
che nel ’77 fanno la cresima, e non sanno ancora niente di
Londra e dei CLASH. Giovani, indemoniate mezzeseghe
con le prime pelurie, eroi che ancora sono fra lo Zecchino
d’Oro e Sanremo, dove Tony Santagata canta “I love the punk”!
Tony Santagata, I love the Punk, 1978
“Sputame ‘n faccia! Rompime l’ossa… Io so’ punk, io so’ punk,
lalalà, lallarallalà…” PUNK, o Tony Santagata: ma che vuol
dire? Niente, niente prima del ’79, quando per me e per
qualche altro eroe ancora senza corazza e senza spada, arrivano
le scuole superiori: il Liceo.
Tommy Gun, GIVE ‘EM ENOUGH ROPE, 1978
Il ragazzo sguaiato cresciuto nel ’77 per le campagne anghiaresi
sta mutando pelle: educato da due onesti e umili genitori,
maleducato autodidatta per vocazione, finisco in un
Liceo, a Sansepolcro, 16000 abitanti contro i 250 della mia
frazione, una città… La cortina del citto selvatico si squarcia,
nuove amicizie con i dischi, il vinile (per me esistevano solo
le musicassette): copertine di vinile che sono le tavole dei
nuovi comandamenti, e dentro il Verbo, una musica nuova
che suona ogni minuto dei miei 14 anni, su tutto una musica
che avrebbe cambiato la vita a me e agli altri eroi, che ora
prendono a scudo il vinile e per spada, per lancia… A scudo
il vinile e per lancia e per spada… lance e spade proibite
dalla legge. Arrivato al liceo con i capelli a caschetto (alla
Mal dei Primitives), camicia candida con sopra un cardigan
carta da zucchero confezionato dalla Celestina (la mia vicina
di casa terrorizzata dai miei urli e dai miei dispetti -ranocchie
e topi morti fra le gambe-) e con il pantalone a zampa
d’elefante, esce “London Calling” e dopo qualche mese, quel
ragazzino non esiste più. Cancellato da 19 canzoni che
prendono il posto del cuore, del fegato e del cervello. Sopra
il cervello ciuffi di capelli ritti e sfumature alte. Sotto, calzature
pesanti e abbigliamento in bianco/nero. I colori sono
spariti. Gli orli della mi’ mamma diventano sempre più
stretti, dalla zampa d’elefante al pantalone a cannuccia,
stretto e alto sopra l’anfibio. I jeans si strappano, e di quel
ragazzino non c’è più traccia.
Brand New Cadillac, LONDON CALLING, 1979
CANTO VIII
Se fra 5000 anni un’astronave ritrovasse una copia di questo
vinile, e avesse qualcosa per farlo girare, capirebbe tutto del
XX secolo. Che copertina… Il basso fra le mani, la rabbia
di Paul Simonon e lo scatto sfuocato di Pennie Smith: non è
una copertina, è la foto sulla mia carta d’identità, il mio
DNA, il cartello stradale della via maestra. Il basso che
spezza le ossa al mondo vigliacco assassino impestato di
merda.
magia9194
potevo non partecipare ???? no non potevo! per ricordare quel 1 giugno 1980 in Piazza Maggiore.
STAY FREE
alessandra
sono curiosa di leggere la storia Tanto ben rappresentata a teatro
MatteoEVE
Rotto il ghiaccio!!