In strada vengo accolta da una piacevole brezza mattutina. Guardo il cielo, finalmente azzurro. Le strade sono lucide per via della pioggia che è scesa stanotte e sono piene di tante piccole pozzanghere che mi obbligano a fare una sorta di slalom per evitarle.
In un paio di minuti sono in piazza Duomo. La cattedrale mi appare dapprima parzialmente, quasi in punta di piedi, poi in tutta la sua bellezza e maestosità.
Un silenzio quasi irreale avvolge il centro di Milano. Continuo a passo spedito verso piazza Fontana, per poi svoltare a destra in direzione dell’università. Lungo il tragitto incontro pochissime persone.
Al mio arrivo, Colli mi viene subito incontro. Indossa una camicia giallo ocra, che lo rende visibile in mezzo a tutti gli altri colleghi presenti sulla scena, quasi fosse uscito da un quadro di Van Gogh. Il look sgargiante, insieme a un innato ottimismo, sono i suoi tratti distintivi. Lo seguo all’interno dell’università e, poco dopo, vedo il corpo di un uomo che giace senza vita ai piedi di un’enorme scalinata di marmo.
«Raccontami tutto, Colli.»
«Si tratta del professor Mauro Righetti, quarantanove anni, docente di letteratura inglese del secondo anno. La caduta probabilmente gli ha spezzato l’osso del collo. Il medico legale ha già fatto i primi accertamenti, per cui sapremo nei prossimi giorni se effettivamente è questo il motivo della morte.»
«Ora del decesso?»
«Il medico legale ha ipotizzato tra le ventuno e le ventitré di ieri sera. Ma saprà essere più preciso dopo l’autopsia.»
«Chi ha trovato il cadavere?»
«Un addetto delle pulizie che inizia il turno alle sei. Verso le sei e dieci ha visto il corpo e, dopo aver capito che era morto, ha chiamato subito il 113.»
Osservo il cadavere. Si tratta di un uomo piuttosto alto, fisico asciutto, capelli scuri. Ha il viso tumefatto, evidentemente è caduto in avanti. Il braccio destro è allungato vicino alla testa, come se avesse cercato di afferrare qualcosa prima di cadere, mentre il sinistro è disteso lungo il corpo. È in una posizione piuttosto innaturale per essere scivolato dalle scale. Se avesse cercato di proteggersi durante la caduta, avrebbe entrambe le braccia piegate, non distese. Osservando da vicino il braccio allungato in avanti, noto che sul bordo del polsino della camicia sono ricamate le sue iniziali. Il professore indossa abiti sartoriali e scarpe di ottima fattura.
«Colli, dove si trova l’addetto alle pulizie?»
«È l’uomo seduto lì. Si chiama Roberto Mancini.»
Lo osservo, mentre mi avvicino per interrogarlo. È un uomo sulla quarantina, ha il volto teso e lo sguardo piuttosto impaurito. Ha in mano un paio di occhiali che pulisce nervosamente con il bordo della camicia. Terminata l’operazione, estrae il cellulare da una tasca senza accorgersi della mia presenza. Sta guardando la foto di una ragazza, un’adolescente con un sorriso radioso.
«Che bella ragazza. È sua figlia?»
L’uomo alza lo sguardo e mi osserva con un leggero stupore.
«Sì. È mia figlia. Qui è il giorno dell’audizione alla scuola di danza della Scala.»
«Ha un sorriso splendido.»
«Sì, era molto felice perché l’audizione era andata bene.»
«Complimenti. Sarà molto orgoglioso di lei.»
«Lo sono. La danza è sempre stata la sua passione e riuscire a entrare alla scuola della Scala è sempre stato il suo sogno» mi dice con una certa commozione negli occhi. «Si è impegnata tanto per raggiungere questo risultato. Ore e ore di esercizio quotidiano, la mia bambina. Io e mia moglie abbiamo fatto tanti sacrifici per farla studiare. È la nostra unica figlia.» Poi alza lo sguardo e mi osserva con un’espressione di curiosità quasi infantile.
«Sacrifici ben ripagati» gli dico con un sorriso sincero, e lui mi sorride a sua volta. «Sono Lara Alfieri, commissaria di polizia. Avrei bisogno di farle alcune domande su quanto è accaduto.»
«Certo, commissaria, mi dica pure» risponde alzandosi dalla sedia e mettendo in tasca il cellulare.
«Mi hanno riferito che ha trovato lei il corpo del professore. Immagino non sia stato un momento facile.»
«Non avevo mai visto un cadavere prima d’ora, ma… che ci vuole fare? La vita è imprevedibile. Mi hanno detto che devo rispondere a delle domande.»
«Ho bisogno che mi racconti esattamente cosa ha visto questa mattina. Non tralasci nulla. Ogni dettaglio potrebbe essere importante per capire cosa sia successo.»
«Va bene, commissaria. Allora, sono arrivato in università alle sei perché il martedì ho il turno alla mattina. Era tutto tranquillo, come al solito. Ho iniziato a pulire il pavimento e poi, quando sono arrivato qui, ho visto una persona sdraiata a terra, ai piedi delle scale. Mi sono avvicinato e ho capito che si trattava del professor Righetti. L’ho chiamato alcune volte a voce alta, senza toccarlo naturalmente, ma lui non rispondeva. Così ho deciso di telefonare al 113.»
«Magari era ancora vivo. Non ha provato a soccorrerlo?»
«Gli ho messo uno specchietto davanti alla bocca, ma non si è appannato, commissaria.»
«E quando è arrivato stamattina, ha visto qualcuno?»
«No, nessuno.»
«E non ha sentito nulla? Non so, una voce, un grido, un rumore qualsiasi.»
«No, commissaria, niente. C’era silenzio, non ho sentito alcun rumore.»
«E successivamente, mentre attendeva che arrivasse la polizia, cos’è successo?»
«Niente di particolare; mi sono seduto lì e ho aspettato.» Mancini mi indica una vecchia sedia di plastica, vicino al muro, a una ventina di metri dal cadavere.
«Non è passato nessuno, non ha visto o parlato con qualcuno prima dell’arrivo dei miei colleghi?»
«No. Sono sempre rimasto da solo. A quell’ora non c’è mai nessuno, commissaria.»
«Capisco. E mi dica, conosceva da molto tempo il professor Righetti?»
«Sì, da quando ho iniziato a lavorare qui in università, sei anni fa. Una persona gentile, tranquilla. Non posso credere che sia morto.» Estrae un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si soffia rumorosamente il naso.
«Un’ultima domanda: le capitava spesso di incontrarlo qui in università?»
«Ogni tanto. Io faccio i turni alternati, a volte lavoro il mattino presto, a volte nel pomeriggio. L’ho sempre visto di pomeriggio. Non abbiamo mai parlato veramente, però una volta mi chiese se avessi bisogno di aiuto… Tre o quattro anni fa, credo. Avevo finito il turno e mi stavo dirigendo verso lo stanzino dove ripongo i miei attrezzi a fine giornata. Camminavo zoppicando perché mi faceva male un ginocchio. Quando mi vide, mi chiese se avessi bisogno di una mano e mi aiutò a portare le mie cose nello stanzino. Mi colpì molto il suo gesto, anche perché fu l’unico quel giorno ad accorgersi di me.»
«Va bene, signor Mancini, la ringrazio. L’ispettore Colli le prenderà le generalità in modo da contattarla più tardi per passare in commissariato a firmare la deposizione.»
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