È anche la storia di un amore che non sempre sa come raccontarsi, di un amore che scivola tra le dita lasciando traccia di sé; dita fredde, umide poi calde e tormentate dall’ossessione per Lui, per Lei…
Questa è la storia di un amore graffiato su pagine bianche. Pagine bianche e ferite, poi ricucite e strappate di nuovo.
Cristalli eleganti, a volte informi. Cristalli d’acqua.
Prologo
“Diversi campioni d’acqua possono sembrare identici, ma se un campione viene esposto a vibrazioni negative, finirà per formare cristalli rotti e deformati” – Masaru Emoto
Si sentiva indolenzita, dal collo al ventre. La schiena appiccicata alle lenzuola bianche come le pareti, le porte, come la camicia di sua madre, il piccolo tavolo quadrato e le sue due sedie, come il mazzo di margherite intinte nell’acqua di un vaso, di fianco al suo comodino; un comodino bianco.
Si sentiva confusa e un’insolita tristezza era salpata dal suo cuore per farsi largo dentro di lei.
Voleva piangere. Avrebbe voluto farlo ma poi si era ricordata perché era lì.
Giovanna si era accostata al letto della figlia sprofondando nel materasso. Le aveva accarezzato la fronte sudata. Le gote nivee e leggermente scavate. Le labbra imbiancate da grinze arse. Le aveva porto un bicchiere d’acqua. La ragazza aveva bevuto un paio di sorsi poi si era voltata. Il padre la guardava dall’alto trattenendole una mano. Lacrime dipinte sugli occhi, forse per la gioia o per il dolore ma, più probabilmente, per entrambe le cose. Un sorriso tracciato su labbra umide e salate.
Ricordava che nel letto di fianco al suo c’era stato qualcuno ma il giaciglio era in ordine: le lenzuola tese e ben ripiegate sotto il materasso. Il comodino era stato ripulito. Mancava, persino il settimo libro della saga di Harry Potter, mentre l’appendiabiti vestiva solo dei suoi indumenti.
Mancavano le ciabatte a pois gialli e le perline sul tavolino del pranzo suddivise per colore in bicchieri di plastica trasparenti. Mancavano la felpa di Stitch sulla sponda ai piedi del letto e i ritagli di giornale che catturavano immagini di paesaggi e di animali. Mancava anche il quaderno sul quale queste fotografie venivano incollate, mentre il pavimento grigio si tingeva di mille coriandoli colorati. Interi pomeriggi dedicati a questa attività. Le infermiere lo sapevano e non mancavano di portare da casa ogni rivista o giornalino di cui entravano in possesso.
Giovanna aveva capito che se lo stava domandando. Aveva cercato il suo sguardo lasciando che fossero gli occhi a raccontarle che Angelica non c’era più.
Una lacrima gonfia di desolazione era scivolata morendole a un angolo della bocca. La sua tristezza aveva navigato su quella stessa lacrima causandole solchi profondi.
Perché? Si era domandata quando la nave carica del suo dolore era, ormai, al largo, troppo al largo per poter tornare indietro.
Si era sentita stringere il petto. Si era poi sfiorata con un dito le bende bianche scivolando sul dislivello causato dalla diversa proporzione dei seni. Ancora non sentiva dolore. Aveva poi lasciato che un polpastrello seguisse una forma concava proprio sotto la clavicola ma che, scendendo, si rimpolpava un po’.
Decine di pensieri le avevano attraversato la mente. Pensieri ai quali non aveva voluto dedicare nemmeno un attimo di attenzione. Non in quel momento. Poi aveva pensato a lui. Strano. Dopo quello che aveva appena subito, dopo quello che aveva appena saputo, il suo inconscio l’aveva condotta là, verso quegli occhi scuri che non si erano mai nutriti della sua immagine, verso quei ricci ballerini e quelle mani che già stavano plasmando il loro futuro da tempo.
Aveva tirato le lenzuola fino a coprirsi il mento. Aveva poi chiuso gli occhi. Avrebbe voluto gridare dalla rabbia perché per quanto già prima sarebbe stato improbabile, da quel momento in poi, lo sarebbe stato ancora di meno: lui non l’avrebbe mai considerata né mai sarebbe stato capace di vederla al di là dell’orrore che l’aveva marchiata per sempre.
Da quando lo aveva incontrato la prima volta, a sedici anni, si era permessa di credere che tra le infinite possibilità che l’universo calcola inarrestabilmente, esisteva anche quella di Lei insieme a Lui. Ci si era attaccata con tutte le sue forze, per tutto quel tempo. Aveva ghermito quella possibile combinazione di eventi con la forza dei suoi sogni mentre aspettava di diventare più grande; mentre sperava di poter guarire. Ma con il passare dei giorni, la verità che aveva appreso quel pomeriggio, aveva cominciato a farle male e il dolore si era fatto più intenso, più intenso dei punti che le tiravano la carne.
Era cresciuta, ed era cambiata ma se mai lo avesse rivisto, non avrebbe fatto alcuna differenza: avrebbe semplicemente continuato a trattenerlo nei suoi pensieri.
Due anni dopo…
1
“Che cosa influenza la formazione dei cristalli? La risposta è: la vibrazione” – Masaru Emoto
Il tempo sembrava essersi fermato. Un cono di luce e polvere, proveniente da uno dei due finestroni della stanza, colpiva la batteria disposta in un angolo.
Un armadio dalle ante cigolanti sorreggeva la sponda di una libreria vecchia e instabile sovraccarica di libri, fotografie, dischi e cianfrusaglie di vario genere.
L’odore della moquette era intenso, indice che la taverna era rimasta chiusa da diverso tempo.
L’intonaco della parete adiacente al giardino era ancora scrostato in più punti, segno che Roberto non si curava di quel luogo da anni. L’umidità, invece, sembrava averlo fatto, appropriandosi di quello spazio che aveva deciso essere suo.
Elisa si guardò attorno e una miscela di malinconia e felicità guizzò fuori da un sorriso appena accennato. I ricordi delle estati trascorse in quel luogo le sfilarono davanti agli occhi ricordandole che, durante le ultime due, non le era stato possibile muoversi da casa.
«Ti lascio delle lenzuola pulite. Scusami, stella, ma tra il bar e il resto non ho avuto il tempo di dare una riordinata».
Roberto saltò giù dagli ultimi due gradini interrompendo il fluire dei pensieri della ragazza.
«Non fa niente, zio. Grazie. Ho notato che hai lasciato anche i miei poster!» esclamò premendo un palmo sugli occhi imbarazzati alla vista di uno sbarbato Robert Pattinson e di un inarrestabile Jude Law.
«E perché avrei dovuto toglierli? Da quando te ne sei andata, nessuno ha più messo piede in questo luogo polveroso. Mi ricordano che una giovane e bellissima ragazza alberga in questa casa, di tanto in tanto».
Elisa si portò l’unghia del pollice ai denti mascherando il suo compiacimento. Amava le attenzioni che lo zio le aveva sempre riservato e il modo in cui la faceva sentire: grande, unica e irriducibile al semplice appellativo di nipote, perché sapeva che per Roberto, lei era qualcosa di più: la figlia che non aveva mai potuto avere.
«Sei sicura che non vuoi sistemarti in soggiorno? Il divano letto è molto comodo e…».
«Qui è perfetto. Grazie».
«Come preferisci. Puoi sempre trasferirti di sopra quando vuoi».
Elisa lanciò un sorriso all’uomo, poi lo ringraziò, lieta di essere di nuovo sua ospite per un’intera estate.
Alla miscela di emozioni si aggiunse anche un pizzico di adrenalina quando pensò che, vista la sua età adulta, per la prima volta, quella stagione sarebbe stata indipendente.
«Ho fatto dei lavori al locale» disse Roberto. «Quando lo vedrai ti piacerà, ne sono certo. A proposito, quando vuoi cominciare?».
«Sei tu il capo» affermò Elisa lanciando le lenzuola pulite sul letto.
«A Varenna i turisti fioccano come la neve sul Monte Bianco. Sai quanta gente attira il lago…». Roberto indugiò un momento grattandosi la nuca «Facciamo sabato. Sei arrivata oggi: ti serve del tempo per riprendere confidenza con il paese. Che cosa ne dici?».
«Sì, ok. Mi sembra una buona proposta» acconsentì con meno entusiasmo di quanto avrebbe voluto dimostrare. Perché lo era, entusiasta, lo era da quando la mamma aveva accettato di lasciarle trascorrere l’intera stagione estiva da Roberto. Subito rimediò con un abbraccio stretto a quell’uomo che le aveva sempre scaldato il cuore semplicemente con la sua presenza.
Essere il proprietario di un locale non concedeva troppe libertà ma questo, per Roberto, non sembrava essere un problema: amava il suo lavoro, amava Varenna e la vita scandita dal tempo della colazione, del brunch, dell’aperitivo e delle bevute più tarde. E poi, questa cosa di non avere mai tempo, di fatto, era un vantaggio, un vantaggio a cui non poteva rinunciare. Da quando la moglie Samantha era morta, per Roberto, era meglio avere meno tempo possibile: meno tempo per pensare a lei.
«Mi sei mancata» disse lo zio allontanandosi di un passo dalla nipote. «E ora hai anche la patente! Tua madre mi ha chiamato piangendo quel giorno».
«Lo sai com’è fatta mamma…».
«A proposito del fatto che sei cresciuta…».
Roberto fece segno ad Elisa di seguirlo al piano di sopra.
Le assi di legno che foderavano le scale cigolavano sotto i loro piedi ricordando alla ragazza quanto fosse sempre stato arduo sgusciare dalla taverna di nascosto per recarsi in cucina. Sin da bambina amava svegliarsi in piena notte per arraffare uno o due snack dalla credenza e filare poi di sotto a rintanarsi come una volpe dopo aver catturato la sua preda.
Il profumo della cera da parquet si intrufolò nelle sue narici. Il soggiorno era ampio e aperto alla cucina la cui finestra dava direttamente al giardino di casa.
L’arredamento esponeva superfici dai colori pastello che Samantha aveva sempre amato e che mettevano in risalto il tavolato scuro. Piante di ogni genere arricchivano l’ambiente di una luce naturale che faceva pensare a lei. Roberto pensava sempre a lei.
La camera era arredata da un letto matrimoniale perennemente scombinato, un armadio a quattro ante con due enormi specchi centrali e un comò coordinato al resto del mobilio in wengè chiaro, da cui estrasse un pacchettino.
Elisa si perse per alcuni istanti tra il labirinto di foto che tempestava il piano del mobile. Foto di lei da bambina, di Roberto e della sorella, dei nonni di Elisa, della vecchia casa in montagna ma, soprattutto, di lei: Samantha, ancora presente in quella stanza così come i raggi del sole lo erano quel giorno dentro la casa. Caldi, invadenti, lucenti.
«Per il tuo diploma. Mi hai detto che è stato un successo» disse Roberto dopo un breve attimo in cui si concesse di contemplare, insieme alla nipote, la foto del suo matrimonio. Samantha e la sua chioma dorata. Le labbra, accarezzate da un velo di lucido rosa, mostravano un sorriso da copertina. Le gote imporporate. L’abito color avorio che si apriva in vita in una corolla di tulle e organza.
«I risultati non sono ancora usciti, zio…».
«Si fottano i risultati! Dai, ora aprilo!» esclamò ridestandosi come da un sogno.
Elisa aveva vent’anni ma aveva perso un anno di scuola per via delle terapie, dunque, si era diplomata in ritardo. Diplomarsi aveva significato mettere un punto al suo passato o, quantomeno, provarci. E lo zio lo sapeva. Lo sapeva e desiderava aggiungere un punto a fianco al suo sperando che la nipote fosse pronta a voltarsi verso il futuro.
Elisa strappò la carta da pacco marrone fissata con dei pezzetti di scotch fuxia.
«Ma è troppo bella!».
giovanni mapelli (proprietario verificato)
molto bello! complimenti e auguri Valentina