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Come l’acqua sulle rocce

Come l'acqua sulle rocce
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Consegna prevista Maggio 2024
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Questa è la storia di due nemici giurati, Beregor, figlio del conte di Anthares, ed Alhena, figlia del capo di tutte le tribù degli Unuk.
Entrambi si ritroveranno ad ereditare un potere che non desideravano. Per guidare i loro popoli, saranno costretti a scendere a patti con le proprie coscienze e a compiere quanto verrà loro imposto. I due giovani dovranno fare i conti, loro malgrado, con una domanda insidiosa: é giusto perdere la propria anima per guidare un’intera nazione?
Scopriranno presto che i loro destini sono indissolubilmente intrecciati nelle trame del fato. In tanti proveranno a recidere il filo che li unisce, in un crescendo di ferventi passioni, loschi intrighi, brutali scontri e incredibili colpi di scena.
In questo viaggio alla scoperta di loro stessi, Beregor e Alhena saranno chiamati a compiere scelte terribili in nome dei loro popoli. Riusciranno a sfuggire al vortice del potere? O finiranno con l’essere stritolati tra le sue implacabili spire?

Perché ho scritto questo libro?

Come l’acqua sulle rocce nasce per lo più durante il lockdown. É un lungo lavoro di taglia e cuci, in cui ho fuso diversi racconti, scritti tra il 2015 e il 2020, in un’unica e coerente storia.
Lo sforzo creativo mi ha permesso di sentirmi libero e intraprendere un lungo viaggio, pur restando chiuso entro quattro mura. Che fosse alla mia scrivania o su un comodo divano, scrivere é stato per me un atto liberatorio.
Che questa storia vi prenda per mano e vi conduca lontano, come ha fatto con me

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

PROLOGO

Mentre saliva i gradini che lo avrebbero condotto sui bastioni, il vento, carico di salsedine, gli frustava il viso, quasi volesse strappargli la carne di dosso. L’odore fresco del mare riempiva le narici. Le onde si infrangevano contro gli scogli circostanti con violenza inaudita. Sembrava quasi che, presto, persino le mura ne sarebbero state abbattute. Il rombo dei marosi sovrastava qualunque altro rumore, amplificato dall’eco prodotto attraverso lo stretto passaggio della scalinata. Gli schizzi sollevati dall’infrangersi della mareggiata contro i bastioni allora si inerpicavano con impeccabile maestria lungo le mura, scavalcandole. I gradini perciò erano fradici e ricoperti di un sottile strato di alghe, che minacciava di far scivolare ad ogni passo. Così, quando Beregor fu arrivato finalmente sulla cima di quelle formidabili fortificazioni, tirò quasi un sospiro di sollievo per essere riuscito a mantenersi saldo, senza cadere.

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Non era solo. Si sforzava di tenere dietro a suo padre fin dalla biblioteca, da dove era stato prelevato con i soliti modi bruschi, mentre il genitore se ne stava muto e a testa bassa a camminare a grandi passi chissà verso quale destinazione. Beregor avrebbe preferito di gran lunga rimanere tra le muffe e la polvere della biblioteca a leggere, piuttosto che lasciarsi condurre fin lassù da suo padre. Fu per questo che, quando il capofamiglia si attestò d’improvviso al centro degli spalti, l’apprensione del ragazzo crebbe vertiginosamente. D’altra parte succedeva sempre così quando Brahir, conte di Anthares, mostrava interesse per lui. Il più delle volte per quell’uomo suo figlio era più insignificante e fastidioso di un moscerino ronzante.  Potevano passare mesi interi senza che il conte facesse il minimo tentativo di cercarlo e, del resto, le dimensioni del castello aiutavano a nascondersi alla perfezione. Anche perchè, tutte le volte che il burbero nobile si costringeva a raccattare l’attenzione del primogenito, i risvolti di quegli incontri non erano mai positivi per il povero Beregor.

Proprio in quell’istante, Brahir fece un ampio gesto con le mani. Era il suo modo per indicare l’intenzione di esordire e perciò Beregor si guardò bene dal continuare con le sue elucubrazioni. Non aveva alcuna intenzione di incappare ancora nella sua ira, che l’ultima volta gli era costata due costole incrinate.

«Osserva, figlio. Tutto ciò che vedi, un giorno ti apparterrà».

Accompagnò l’affermazione con una smorfia quasi disgustata, prima di proseguire:

«Ci troviamo su uno scoglio dimenticato dagli Dei e dagli uomini, in mezzo al mare, sottomessi ai capricci delle maree e delle onde, sferzati da un vento ingrato che secca ogni tipo di coltivazione. Ti sei mai domandato allora come possiamo provvedere alla nostra sussistenza?».

A quel punto l’uomo fissò il suo sguardo duro sul figlio, che abbassò il proprio a terra, incapace di sostenerlo. Il castello del conte sorgeva su un’irta scogliera a picco sul mare. Era circondato su tre lati da rupi affilate come rasoi. Il quarto lato costituiva l’unico punto accessibile della fortezza e si apriva su un’ampia spianata brulla, alla quale si arrivava tramite un lungo percorso attraverso tortuose e sconnesse mulattiere. Qualunque esercito male intenzionato avrebbe dovuto fare i conti prima di tutto con quelle strade. Poi, provato dall’ascesa, si sarebbe trovato in uno spazio ampio, sì, ma non a sufficienza da schierare completamente le proprie forze.

A dire il vero, durante l’infanzia di Beregor, i conti di Anthares prosperavano in sontuosi palazzi, tra la più lussureggiante vegetazione, proprio nel cuore della contea. Un giorno però, quando lui aveva appena sei anni, degli spietati barbari a cavallo erano dilagati come un cancro inarrestabile all’interno delle loro terre. Avevano trucidato le genti di Anthares e minacciato l’incolumità degli stessi nobili. Non si era capito esattamente da dove provenissero, chi fossero o cosa cercassero. Solo un nome si impresse chiaro sin da subito nelle menti di tutti i sudditi del conte, come un marchio a fuoco che bruci lingua e pelle al solo nominarlo: Bal. Era il nome dello spietato capo degli assassini che falciavano le genti di Anthares. Un nome che pareva uscito dritto dal più buio degli inferi.

In un primo momento, per la verità, si era tentato anche di arginare quella marea straripante di mostri sanguinari. Tuttavia, la pervicace ferocia di Bal e dei suoi uomini, unita alla totale incompetenza di generali ormai più usi agli spiedi, che non alle spade, avevano condotto alla completa disfatta. Così, con l’esercito ormai ridotto all’osso e la paura di perdere i propri privilegi, il conte e il suo seguito si erano persuasi a lasciare le proprie genti in balia degli invasori, rifugiandosi al sicuro su quell’isola sperduta.

«Traiamo il denaro e i viveri di cui abbisogniamo estorcendoli ai sudditi che hanno avuto l’ardire di restare nei nostri possedimenti originari».

Rispose allora Beregor, con voce tanto flebile, da temere che il padre non potesse nemmeno sentirlo.

«Estorciamo?!», gli urlò invece in faccia Brahir di rimando, lanciandogli addosso uno sguardo infuocato.

«Forse che costoro non sono le nostre genti? Forse che ciò che chiediamo non è nient’altro se non il giusto tributo che essi devono al proprio signore e padrone?».

Beregor allora si affrettò a tornare sui propri passi, prima di far ulteriormente incollerire il padre.

«Certamente, padre. Non era questo ciò che intendevo dire».

«E allora cosa insinuavi, figlio? O forse neghi persino di aver appena pronunciato simili stoltezze con la tua stessa bocca?».

Beregor allora tentò di riordinare i propri pensieri. Era stato stupido, da parte sua, essere sincero. Doveva immaginare che il padre non avrebbe mai condiviso quell’affermazione. Aveva imparato a misurare ogni singola sillaba proferita, prima di rivolgersi a lui. Eppure questa volta non era riuscito proprio a trattenersi. Era chiaro che Brahir aspettasse una risposta e più questa tardava ad arrivare, più tremenda sarebbe stata la punizione. Perciò Beregor, alla fine, si decise a mettere completamente a nudo le proprie idee. In fondo è questo che ci rende uomini: il coraggio di accettare le conseguenze delle nostre azioni, fino all’estremo. Quindi, per la prima volta, provò a sollevare lo sguardo e a sfidare, col suo, quello del padre, mentre rispondeva:

«Credo, padre, che non abbiamo più diritti sulla nostra gente, di quanti ne abbiano in questo momento gli stessi barbari che imperversano nelle nostre terre. Credo che abbiamo perso la facoltà di accampare qualsivoglia diritto su suddette terre, nello stesso istante in cui salpammo alla volta di questa roccia sperduta, lasciando i nostri sudditi alla mercé di quelle bestie sanguinarie».

SCIAFF. Il dolore investì tutto il lato destro del volto. Un fischio terrificante si conficcò fin nel cervello di Beregor e, per alcuni istanti, persino il mondo sembrò annebbiarsi e svanire dietro una densa cortina di fumo. Quando finalmente si riprese dalla sorpresa, la guancia bruciava come se le fosse stato appiccato il fuoco e, solo allora, Beregor si accorse di essere caduto ai piedi del padre. Questi gli dava le spalle e il fatto che non lo degnasse più neppure di uno sguardo denotava il suo profondo disprezzo nei confronti del figlio.

«Ti ho sempre considerato un pusillanime, ma mai avrei creduto che osassi tanto!».

La voce di Brahir era fredda e tagliente e Beregor seppe che, questa volta, non se la sarebbe cavata con delle semplici costole incrinate. Poi il padre riprese a parlare, portandosi verso il parapetto delle mura, lo sguardo perso verso il mare:

«Le tue parole sono degne di una donna o di uno schiavo. Impara, figlio, poiché, disgraziatamente per me, un giorno sarai tu a prendere le redini di questa casata», fece una pausa, stringendo i pugni per la rabbia.

«Il popolo dev’essere spremuto fino all’osso. È questo il suo posto nel mondo. E, quando non resteranno che le bucce, qualche altro pezzente giungerà a raccoglierle, pronto a farsi spremere ancora un po’, pur di mandare avanti la sua infame vita da schiavo, se vita la si può chiamare. A noi, gli Dei hanno affidato un compito ben più alto: quello di fare le loro veci su questa terra. Dunque, i tributi che i nostri sudditi ci offrono non sono altro che l’obolo che essi, giustamente, pagano ai loro stessi Dei».

Beregor conosceva già quel punto di vista paterno. Per cui non si meravigliò più di tanto per tali, dure parole, che tuttavia egli disapprovava completamente. Quale Dio avrebbe infatti abbandonato i suoi figli alle lame dei barbari che imperversavano nelle pianure di Anthares? Quale Dio avrebbe tolto il pane di bocca a gente che già stentava a trovare la farina per produrlo? No. Ormai si era spinto troppo oltre con le sue parole. Doveva continuare e far sapere al padre quanto aborrisse quel punto di vista. Perciò raccolse tutte le proprie forze e si rialzò, con la guancia che ormai faceva tanto male, da aver quasi perso la sensibilità a quel lato della faccia. Stava per rispondere, quando vide Brahir sporgersi pericolosamente dal parapetto. Incuriosito, Beregor fece altrettanto e scorse un uomo che scendeva da una barca appena attraccata al molo. Il nuovo venuto corse trafelato alle scuderie nei pressi a prendere un cavallo, dando rapide indicazioni, per poi cavalcare a rotta di collo lungo il sentiero che si inerpicava verso la porta principale del maniero.

A quel punto, Brahir non ebbe bisogno d’altro, si staccò dal parapetto e si voltò per tornare verso le scale. Solo per un istante posò lo sguardo disgustato sul figlio, poi riprese ad incamminarsi a grandi passi e, proprio mentre passava accanto a lui, disse:

«Seguimi. Forse è giunto il momento, per te, di dimostrare realmente quanto vali. Se ci tieni tanto ai tuoi sudditi, potrebbe essere la volta buona per mischiarti a quella insulsa plebaglia».

Poi scese le scale e si precipitò di sotto a grande velocità, incurante dei gradini scivolosi. Beregor, incredulo che tutto si fosse risolto a quel modo, senza altra conseguenza che una guancia ammaccata, e incuriosito dalle parole del padre, non perse altro tempo. Si diresse anch’egli verso le scale e ricominciò a seguirlo. Fu così, che tutto ebbe inizio.

2023-08-04

Aggiornamento

Ebbene sì, sono lieto di annunciarvi che la campagna di preordini ha preso il volo! Un sentito e sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno creduto e vorranno credere in questo progetto. È grazie a voi se dopo aver percorso appena il 10% dei 100 giorni della campagna, ho già superato il 40% dei preordini necessari all'obiettivo pubblicazione! Insieme raggiungeremo gli scaffali delle librerie!
2023-07-25

Aggiornamento

Un giorno è passato e sforiamo quota 20% di preordini! Un grazie speciale a chi sta contribuendo a realizzare il mio sogno. Sognate insieme a me, facciamo crescere questo crowdfunding e portiamo la campagna al clou! Grazie a tutti coloro che credono in me e a tutti quelli che dedicheranno un briciolo del loro prezioso tempo a sbirciare in questa pagina!

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Storia avvincente, piena di colpi di scena! Pagina dopo pagina, la lettura di questo libro ti conduce per mano in un’epoca lontana, le cui dinamiche non sono troppo diverse da quelle odierne. Consiglio a tutti di leggerlo!

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Raffaele Longo
Sono nato a Cavallino, un paesino alle porte della Firenze del sud Italia, Lecce, 35 primavere fa, e vivo da ormai cinque anni nella fantastica città dei due mari, Taranto. Dopo la laurea in Fisica e una breve parentesi brianzola come specializzando in Fisica medica e programmatore, decido di dedicarmi con passione all'insegnamento della matematica.
Adoro i documentari e mi piace raccontare agli altri ciò che imparo guardandoli, tanto che gli amici mi chiamano ironicamente "Piero Angela". Divoro da sempre vagonate di libri, principalmente fantasy e romanzi storici, manga e fumetti supereroistici, che mi fanno appassionare alle belle storie. Alla fine decido di provare a raccontare qualcosa anch'io. Così eccomi qui, a gettare in pasto al pubblico la mia storia e, parafrasando il titolo di un celebre libro scritto da Marcello D'Orta, concludo augurandomi: "Io speriamo che me la cavo"!
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