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Come un mercante di ciliegie in inverno

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Sicilia, fine Ottocento. Un bambino cresce tra le ombre di una madre distante, la severità di un padre e l’abbraccio salvifico di una balia. Diventato ragazzo, scopre presto che il mondo non gli farà sconti: la fame, le regole imposte e i sentimenti taciuti lo spingono a cercare la propria strada tra ribellione e desiderio.

Nelle strade polverose di Vizzini e nei salotti eleganti di Catania, si intrecciano passioni segrete, lingue straniere, donne affascinanti e verità scomode.

È il racconto di un’esistenza che brucia di curiosità e di coraggio, in bilico costante tra radici e fuga, tra dovere e libertà.

Paolo

Vizzini (Catania)

Novembre 1893

 

Agathe

Sono stato partorito in una bigia mattina di novembre del 1893, dopo troppe ore di travaglio che la mia giovane madre mal sopportò, urlando e agitandosi senza controllo alcuno, rendendo così difficile il lavoro alla mia indaffaratissima levatrice e stordendo le orecchie di mio padre e dei miei nonni che al pian terreno della nostra casa passeggiavano l’angoscia per un parto di poco anticipato sulla data prevista. Ma come ben si sa, i bambini fanno quello che vogliono e, a quanto pare, io decisi di dar segni di vita qualche settimana prima della data presunta, non tanto da compromettere la mia salute quanto i nervi di chi dovette poi sopportare le farneticazioni di mia madre che si rifiutava di attaccarmi al seno semplicemente perché ero brutto.

«I bambini sono tutti brutti appena nati» continuava a ripetere mia nonna, ma mia madre, guardandomi con ribrezzo, decise che sarei stato cresciuto da una balia e dal latte di una sola capra. La balia arrivò, con il proprio bambino appresso e ci allattò entrambi.

Cosima era giovane, ma non tanto da non sapere cosa volesse dire farsi abbindolare da un uomo ricco e beffardo che dopo una notte d’amore, ottenuta senza troppa fatica, l’aveva derisa e abbandonata al suo destino. La famiglia d’origine, umile e rigorosamente cattolica, alla comparsa delle prime avvisaglie di una gravidanza non gradita, l’aveva relegata in campagna, a casa di una parente zitella, appena fuori Vizzini, dove, mungendo vacche e raccogliendo uova, aveva atteso la nascita di un figlio non voluto ma che le provocava dolci emozioni a ogni sussulto nel ventre. Il bambino nacque, la zia cercò il modo di liberarsi al più presto del doppio, non troppo dolce, fardello, anche perché aveva finito il danaro datole dal fratello e si mise a cercare una famiglia che abbisognasse di una balia: il giorno dopo nacqui io. Cosima arrivò da noi la sera stessa, spaventata dall’incertezza del futuro; mio padre l’accolse e la rassicurò che a lui non interessava nulla del suo passato.

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«Latte ne hai?»

«Sè, signuri, in abbondanza!»

«Bene, qua avrai un letto, cibo in quantità e un altro bambino da crescere.»

«Grazzi, signuri, sarrò riconoscente a vossia pi tutta a vituzza nostra.»

Mio padre replicò con un sorrisino di circostanza. Poi diede una fugace occhiata al bambino che riposava in una cesta: «Come si chiama?». Cosima non aveva minimamente pensato a come chiamarlo: era nato da soli due giorni, che lei aveva trascorso raccogliendo le sue poche cose, pregando e piangendo, sperando che qualcuno la prendesse in casa anche solo per pulire i pavimenti.

«Nun u sacciu, signuri.» Poi prese coraggio. «Vossia comu si chiama

Mio padre, che aveva già distolto lo sguardo dal fantolino per il quale non aveva il minimo interesse, guardò Cosima: «Vito mi chiamo». E Cosima, pronta, di rimando: «Puri iddu!». E guardò mio padre con uno sguardo così grato che lui si commosse.

Negli anni ascoltai questo aneddoto più volte, dall’uno e dall’altra; le versioni erano identiche: mio padre lo raccontava nei circoli, alle feste bene, in famiglia; Cosima a chi amava.

2

Crebbi in salute, senza l’affetto di mamma, occupata a riprendere la sua vita sociale, coccolato dalla balia che mi amava incondizionatamente e che prima di dormire mi cantava una ninna solo nostra: «Bèddo piccirìddu miu, sangu miu, beddu Paolino, figghiu miu; duormi cori miu ti vogghiu beni, beddu miu».

Mia madre si accorse di me quando ebbi circa cinque anni. Mi fermò un giorno mentre correvo disperatamente in giardino, mi guardò negli occhi, mi diede un buffetto sulla guancia, si fece una risatina e mi disse: «Sei basso, Paolino, ma meno brutto di quando sei nato: il tempo ti ha aiutato. Forse diventerai un uomo piacente». E riprese la sua passeggiata.

Cosima, la mia cara balia, non mi educava: per lei ero il signorino da nutrire, coccolare, viziare, ma non conosceva l’importanza del “no”, termine che usava con suo figlio Vito. Mi fece fare sempre e solo quello che mi aggradava e arrivai così in età scolare privo di qualsiasi regola, a cominciare da quella legata agli orari scolastici: la mattina non mi volevo alzare.

«Prendiamogli un precettore» concluse mio padre dopo una lunga conversazione con mia madre.

«Non mi piace che impari da solo.»

«E questo pensiero socialista da dove emerge.»

«Non ho pensieri socialisti.»

«Ho capito: non lo vuoi tra i piedi la mattina» concluse mio padre.

«Diciamo che a scuola sta meglio di qua.»

«Va bene, domani andrà a scuola.»

Con l’avvento della scuola entrarono nella mia vita delle fastidiosissime regole che non accettai.

«Minestra di ceci, tesoro mio.»

«Lo sai che mi fa schifo la minestra di ceci, balia!»

«Mamma e papà mi hanno detto che la devi mangiare: hai quasi sette anni, non sei più un piccirìddu, vai a scuola e devi manciàri quello che c’è.»

«L’hanno fatto apposta.»

«Penso di sì, cori miu, ma loro sono i tuoi genitori e tu devi manciàri a minestra di cìceri

Me ne andai a letto a pancia vuota senza più parlare, nemmeno con Cosima.

La mattina successiva quando arrivai a tavola scoprii con stupore che i miei genitori stavano mangiando, in silenzio, alla stessa tavola dove normalmente mangiavo solo. Ne fui contento, per un momento, poi un tuffo al cuore allontanò la mia illusoria felicità: sul tavolo, al posto del solito tazzone di latte bianco, c’era il piatto di minestra di ceci, la stessa della sera prima, riscaldata. Feci una veloce riflessione (ero basso ma intelligente) e compresi di essere stato messo alla prova. Non toccai cibo, non parlai, presi la cartella e attesi che il giardiniere mi accompagnasse col calesse a scuola. Con il cuore piccolo piccolo, mi avvicinai al tavolo all’ora del desinare: minestra di ceci, la stessa. Non mi sedetti e me ne andai in camera. I miei genitori, tutti compresi nel nuovo compito di educatori, non proferirono verbo. La fame cominciava a farsi pesantemente sentire e, grazie a Dio, la balia mi portò nel pomeriggio latte e biscotti, trafugati dalla cucina durante l’obbligatorio riposino pomeridiano: «Mancia, amuri miu, mancia e zìttiti».

La sera, con passo incerto e animo triste, mi recai a tavola. I miei genitori conversavano amabilmente tra loro, ridendo forzatamente per far sembrare tutto normale; la minestra di ceci era lì, fredda, impaccata, senza dubbio cattiva.

«Buonasera Paolino, siediti e mangia.»

«Nun mi piacciono i cìceri.»

«Non importa: mangia e parla italiano.»

«Mi piaci u sicilianu.»

«Non importa nemmeno quello. Se non parli italiano ti togliamo la balia. E mangia.» Il pensiero di perdere Cosima e con lei Vituzzo, mio unico amico dentro le mura domestiche, mi fece cambiare idea. Tacqui e mangiai la minestra, inghiottendo ogni boccone senza assaporare, né masticare. Da quel giorno diventai grande, imparai a difendermi da chiunque, anche dalla famiglia, e odiai per sempre i ceci.

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Roberta Gini e Annapaola Gini
Roberta Gini:
Veronese, insegnante di scuola primaria, ha collaborato con Fabbri Editori per la didattica della lingua italiana per la rivista l’Educatore. Autrice di testi teatrali e racconti brevi, “Come un mercante di ciliegie in inverno” è il suo primo romanzo.

Annapaola Gini:
Veronese, laureata al DAMS a Bologna, è insegnante di musica nella scuola media. Presenta da qualche anno incontri di Storia della Musica presso varie associazioni culturali; si sta dedicando alla scrittura come interesse personale.
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