Chiesi a quella voce gentile a chi appartenesse. Dall’altra parte tante parole una sull’altra, fino a quando al mio silenzio feci seguire un semplice “Hey”. Era Alessia, mia amica di vecchia data, fidanzata di un mio amico di vecchia data. Il lavoro, le esperienze diverse e i casi della vita ci avevano separato da molti anni. La mia ritrosia su tutto quello che fosse tecnologico e la mia allergia ai social network avevano contribuito a renderci ancora più lontani. Riuscii a capire che tempo mezz’ora e si sarebbe trovata a casa mia. Mise giù senza darmi il tempo di dire che ero a casa, che abitavo sempre in quei sessantatré metri quadrati col soffitto alto che chiamavo loft. Le condizioni igienico sanitarie di casa mia erano paragonabili a quelle di un porcile, quindi feci il possibile per renderla velocemente più accettabile, anche se sapevo che non avrebbe mai superato un’ispezione dell’asl. Nel riordinare scoprii tante cose, tornai in possesso di oggetti che ormai pensavo perduti: una maglietta dell’Italia dell’ottantadue, una cinquecento lire di carta, una foto del liceo, un mio professore del liceo, un pezzo di muro del mio liceo, una mutandina di pizzo nero appartenuta a chissà chi, un coniglio di peluche o imbalsamato, una grattugia, una Fiat Panda, un panda che mangiava una canna di bambù, un nano del circo che rollava una canna, un nano da giardino, un mattone, tre penne, una pinna, una caccola di sette grammi del mio amico Paolo, un altro nano da giardino, degli occhiali da donna, una lampadina, due cartelle della tombola, la ruota di una Graziella, la mia amica Graziella scappata di casa nel novantatré, un bastone, il quattro di bastoni, un guanto di velluto, una tromba di plastica, una corda col cappio senza nessun collo dentro, una mensola Ikea, un lucchetto aperto, una busta chiusa, un libro senza copertina, la copertina di quando avevo due anni, il terzo nano da giardino. A questo punto pensai che avrei dovuto trovare anche un giardino, da qualche parte, ma non potevo perdere altro tempo.
Dovevo sbrigarmi a rendermi per lo meno presentabile: decisi di farmi qualche doccia, tre bidè e passarmi un paio di volte la mano tra i capelli per dargli un indirizzo, ma senza numero civico. Aprii il frigo con la speranza di trovare qualcosa da offrire: le uniche cose a portata di mano erano la lampadina e un paio di birre – quelle non dovevano mai mancare. Di uscire a comprare qualcosa non era il caso, rischiavo di non fare in tempo per l’arrivo di Alessia. L’unica cosa da fare era rivolgermi alla mia vicina.
Il suo nome era Concetta, ma si faceva chiamare Concy. Una donna sui cinquanta, con la dannata voglia di apparire più giovane. Era sposata ma le piaceva molestarmi, almeno verbalmente. Bussai. Non mi aprì subito, doveva prima sistemarsi. Indossava una minigonna in finta pelle, una maglietta trasparente di colore giallo. Niente calze e ai piedi delle scarpe con le zeppe altissime.
Si era rifatta il seno, e ovviamente me lo puntava contro con orgoglio. Chissà cosa ne pensava Frufrù! Frufrù era il suo cane, un esserino lungo non più di venti centimetri che aveva i peli solo in testa, con un ciuffo alla Elvis Presley. Il resto del corpo era glabro. Non si era mai saputo di che razza fosse: probabilmente Concy l’aveva portato dal chirurgo estetico per ringiovanire anche lui, e da allora aveva perso la sua identità. L’opinione di Frufrù sulle tette della sua padrona era fondamentale… Lui praticamente viveva tra quelle due colline! Lei se lo incastrava proprio lì in mezzo, e del cagnolino spuntava fuori solo la testa. Le nostre conversazioni dovevano necessariamente avvenire a voce alta, perché Frufrù abbaiava per tutto il tempo, fino a quando Concy non si stufava e con un importante scuotere di seno non lo faceva inabissare sotto la maglietta. Da quel momento, della povera bestia si sentiva soltanto un lamento soffocato, come se stesse sotto un secchio o sotto una campana.
“Sei tu!”. Mi disse queste due parole con finta delusione, come a farmi intendere di essere in attesa di chissà chi. Mi guardava con attenzione, voleva capire se posavo lo sguardo sulla cuccia del cane tanto accuratamente ristrutturata. Dovevo darle soddisfazione, allora fermai i miei occhi sul suo seno per un attimo e feci un sorriso di approvazione. La cosa la rilassò molto: in un attimo si mostrò più accogliente, contrariamente a Frufrù che invece accelerò bruscamente il suo abbaiare. A restituire la calma alla conversazione ci pensò la mia risoluta vicina, che fece rientrare prontamente il cagnolino al posto suo.
“Scusami ma sono nei guai, solo tu puoi salvarmi. Sta per arrivare una mia vecchia amica e io non faccio in tempo ad andare a fare la spesa. Puoi darmi qualcosa? Domani vado al supermercato e ti ricompro tutto”. Dopo un attimo di silenzio, rispose. “Non tutto quello che posso darti si può ricomprare”. Mi disse queste parole e subito dopo gonfiò il petto, cosa che permise a Frufrù di tornare a vedere il mondo e abbaiare. Con un cenno del capo mi invitò ad entrare. “Prendi tutto quello che vuoi. Fai tu”. Il frigo era stracolmo, ma prelevai solo un pezzo di formaggio, due Crodino, la coca-cola, un salame e una pigna d’uva. L’uva stava in basso, e quando mi calai mi accorsi che Concy mi stava fissando il culo, cosa che non mi preoccupava più di tanto. Quello che mi inquietava era che anche Frufrù fissava il mio deretano, e potrei giurare che il suo ciuffo si alzò di qualche millimetro. La signora dal seno nuovo mi regalò una bottiglia di vino importante, di quelle che si aprono per le grandi occasioni e si lasciano decantare per qualche ora, e mi disse che ne aveva altre tre o quattro che aspettavano solo di essere stappate per una buona ed eccitante serata. Sorrisi e raggiunsi l’uscita.
Sistemai le cose che avevo preso. Diedi un’altra occhiata per essere sicuro che non ci fosse più del dovuto fuori posto. Mi accorsi di qualcosa che sbucava da sotto il divano. Era una fetta di pizza al pesto, ma quando la presi per buttarla, capii che il verde non era pesto.
Il suono del campanello mi avvertiva che la mia ospite inaspettata era arrivata. Mi guardai giusto un attimo nello specchio e capii che era giunto il momento di far sparire dal mio appartamento tutto quello che mi rifletteva. Aprii la porta. Eccola! Sempre bella, sempre profumata e sempre sorridente. Ci abbracciammo con affetto, lei mi diede un bacio sulla guancia, di quelli che fanno rumore. “Ti trovo benissimo, non sei invecchiato di un secondo”. Mi disse questa bugia e mi abbracciò di nuovo. Indossava dei jeans attillati, una maglietta scollata che lasciava intravedere il reggiseno, sopra uno spolverino beige e sotto delle scarpe coi tacchi a spillo. Di solito il suo profumo lo sentivi solo quando l’abbracciavi o le stavi molto vicino, invece questa volta avevo potuto sentirlo appena aperta la porta. Un’altra cosa che mi colpì furono i suoi occhi, grandi e verdi: sembravano aver perso un poco della loro luce.
“È incredibile, qui non è cambiato niente, non hai spostato nemmeno la poltrona… La lampadina vicino alla finestra è sempre rotta, la polvere è quella di sei anni fa, questa parete aspetta ancora di essere tinteggiata del tutto e scommetto anche che alla tavoletta del bagno manca sempre una vite”. A quest’ultima affermazione fui costretto a intervenire. “Ti sbagli mia cara, non manca più la vite, manca proprio la tavoletta!”. Si accertò che non rifacessi il letto più di dieci volte l’anno e mi chiese un caffè. Con ottimismo mi misi alla ricerca di una cialda dispersa: visto che ero solito lanciarle tutte alla rinfusa nel cassettone delle pentole, con un poco di fortuna avrei potuto scovarne una. La trovai, sola e triste dentro un piccolo tegamino, solo che era senza confezione e attaccata a qualcosa di non identificabile. Non avendo tempo per far analizzare quel qualcosa dalla scientifica, la staccai coraggiosamente senza indossare i guanti in lattice. Feci il caffè. Glielo servii e la osservai mentre lo beveva. Lo assaggiò appena. Poi, senza cambiare espressione, impassibile e impenetrabile come un grande giocatore di poker, disse: “Buono”.
Non sapevo cosa dire. Lei che non amava i silenzi mi tolse dall’imbarazzo partendo con una sequela di parole, fatti, aneddoti. “Non sai quanto sono contenta di rivederti… A dire il vero avrei voluto telefonarti non so quante volte. È assurdo che non ci sentiamo da anni, non credi? Certo, le distanze non aiutano a mantenere i rapporti, è vero, potevamo telefonarci più spesso, messaggiarci… Ma tu odi quasi tutto quello che è tecnologico o solo moderno. Infatti sono meravigliata che tu abbia sostituito la moka con la macchinetta per cialde. Lo avrai fatto sicuramente per pigrizia, così hai il caffè pronto in trenta secondi. Io sono atterrata poco fa, sono ancora confusa. So cosa vorresti chiedermi – sono ancora capace di leggerti le domande negli occhi. La risposta è: sono tornata soltanto io, Gianni è rimasto in Australia, non poteva staccarsi dal lavoro. Lo so che la mia famiglia abita a un’ottantina di chilometri da qui. Adesso vuoi sapere perché sono piombata da te all’improvviso. Lo capisco. Mi sono detta: perché non passare dal mio amico Francesco a prendere un caffè? Avrà certamente messo da parte una schifosissima cialda per me. Parlo troppo? Lo sai come sono fatta, di cosa ti meravigli? Dio quanto mi fa piacere parlare con te! Ho fermato il taxi e invece di dare all’autista l’indirizzo dei miei gli ho dato il tuo. Quando ero già dentro ti ho telefonato. Mi faccio una doccia, ti dispiace?”.
Mi aveva riempito di parole senza dirmi nulla. Nulla che mi facesse veramente capire perché in quel momento si trovava da me.
Fissavo il lavandino, come se il lavandino potesse darmi delle risposte. Mentre flirtavo con lui, Alessia gridò dalla doccia: “Ho fame, puoi preparare qualcosa? Lo so che non hai quasi niente, andranno bene anche degli spaghetti aglio, olio e peperoncino”. Risposi subito “Certo” ma non distolsi lo sguardo dal lavandino che invece si era distratto e non mi prestava più la stessa attenzione. Avevo gli spaghetti – va be’ erano linguine. L’olio c’era, il peperoncino anche. Mi mancava l’aglio. Ero costretto a tornare dalla mia vicina.
Busso e aspetto. “Di nuovo tu! Ogni scusa è buona per bussare alla mia porta. Guarda che sono sposata e anche se sono bella, sexy e praticamente irresistibile, non posso concedermi carnalmente a nessuno, quindi se sei venuto da me a propormi una serata piccante con te e la tua amica, devo dirti di no. Lo capisci da te. Senti Frufrù ch’è in disaccordo?”. Mentiva sapendo di mentire. “Concy cara, in realtà si tratta di una serata piccante, ma solo perché sto cucinando la pasta aglio, olio e peperoncino…”. Non mi fece terminare, incalzò, insieme a quel cane maledetto: “Lo so come vanno a finire queste cene. Sicuramente mi inviti dicendomi che vuoi un’altra donna al tavolo per far compagnia alla tua amica, intanto mi fai bere il vino che io stessa ti ho regalato, al terzo bicchiere abbassi un poco le luci, e in un attimo ci troviamo tutt’e tre a terra, poi sul letto, poi sotto la doccia e magari ci filmiamo e mettiamo tutto in rete”. Rimasi senza parole. Anche Frufrù smise di abbaiare, gli si abbassò improvvisamente il ciuffo. “Aglio, voglio solo uno spicchio d’aglio!”. Alla parola “aglio” il cane ricominciò ad abbaiare. La mia vicina era perplessa. Rientrò, prese l’aglio, me lo porse e disse: “Comunque avrebbe partecipato anche Frufrù”. Il suo cane a queste parole abbassò la testolina emettendo dei timidi guaiti di disapprovazione. Stavo per ringraziarla ma chiuse subito la porta.
Rientrai e aprii la bottiglia di vino anche se non avrebbe avuto il tempo giusto per decantare. L’acqua era quasi giunta a temperatura, gli ingredienti per il condimento della pasta erano nella padella. Lo scroscio dell’acqua che cadeva dal soffione non si sentiva più, allora le chiesi se potevo calare gli spaghetti, che poi erano linguine. Mi gridò una risposta affermativa.
Uscì dal bagno in accappatoio. Scalza. Sembrava totalmente a suo agio. Diede un’occhiata alla pentola e chiese un tozzo di pane. Continuava ad asciugarsi i capelli col cappuccio. Lo faceva con grazia e sensualità involontaria. Sporcò di rosso i due calici, fece toccare il suo col mio e poi lo portò alla bocca.
gerry.66 (proprietario verificato)
Dietro l’ironia originalissima, segno di particolare acume, si nascondono creature alle quali ci si affeziona e quando ci si affeziona a qualcuno lo si segue sino in fondo. E’ ciò che accade in questo romanzo. Ed è ciò che fa di un romanzo un’opera ben scritta. Se l’impellenza diventa quella di sapere “come va a finire”, il gioco è fatto! Tant’è che in “Come una stufa d’estate” non si può fare a meno di seguire l’iconico amministratore di condominio, Concy e il suo cagnolino, Alessia e il suo improvviso e inatteso ritorno e così per tutta la moltitudine di personaggi che sembrano usciti dalla penna dell’immenso Nikolai Gogol. Sarebbe riduttivo dire che in questo romanzo si parla d’amore e d’amicizia e non perché questi siano temi banali, anzi sono universali ed è proprio per questo motivo che il rischio che si potrebbe correre sarebbe quello di farli arrivare senza che essi lascino una traccia di perenne nostalgia nella memoria e nelle fantasie del lettore. L’originalità sta proprio in questo: l’amore e l’amicizia, qui, arrivano attraverso l’uso finissimo che l’autore fa dello humor. Ogni personaggio contiene in sé un mondo aggrovigliato di potente umanità. Per certi versi strani, strampalati, eppure veri, autentici e sarà del tutto impossibile dimenticarsene.