Paride, un uomo di mezza età in cerca di un nuovo inizio, si trasferisce in un paesino di pescatori per prendersi cura di un faro. Lontano dal trambusto della vita passata, il silenzio e la bellezza del luogo risvegliano in lui i ricordi affettuosi della nonna, con cui aveva condiviso un legame speciale e indimenticabile. Immerso nella magia dei ricordi e nella solitudine del faro, il destino lo sorprende facendogli incontrare Gabrielle, una donna più giovane, che sembra capace di ridargli la gioia e la speranza di un amore rinato. La storia si dipana tra nostalgici flashback del passato e la dolce rinascita di un sentimento che illumina il suo presente.
Capitolo primo
Qui dove vivo si vede il mare.
Un immenso deserto d’acqua circonda la mia casa, il luogo dove ho deciso di abitare le mie domande e dove ho scelto di finire i miei giorni. In alcune giornate particolarmente limpide, il colore azzurro del mare e quello del cielo si confondono in una sola cromia ed è impossibile delimitare una linea all’orizzonte. Al crepuscolo, quando i colori sono più distinguibili, mi siedo sulla panchina ai piedi del faro e trascorro ore a contemplare le onde per stanare qualche irregolarità, una faglia, anche una microscopica imperfezione che mi consenta di vedere dove finisce questo confine impenetrabile tra me e il grande mistero che mi circonda. E mentre questo spettacolo meraviglioso danza nei miei occhi estasiati, stringo tra le mani la collana d’argento con incastonata una pietra di luna, quella che mi regalasti tu per il giorno del mio primo compleanno.
La casa attigua al faro risale agli anni Cinquanta. A poche centinaia di metri da qui, attraversando un tratto di spiaggia e un fitto bosco di querce, si trova il piccolo villaggio di pescatori. È un villaggio modesto che conserva ancora quella tipica atmosfera rurale. Tra i vicoli, si respira un’acre odore di pesce, erte scalinate conducono alle abitazioni e la pavimentazione leggermente concava nei lati, per facilitare lo scorrere delle acque piovane, rende il passeggio incerto e scomodo. Una piazzetta adornata di rose rampicanti giace ai piedi di una minuscola chiesa, il cui campanile troneggia su tutto il villaggio. Qui, gli anziani si radunano di tanto in tanto per improvvisare una partita di bocce. Un centinaio di famiglie appena si susseguono di generazione in generazione, facendo della pesca l’attività principale del loro sostentamento. Un pugno di barche riposa nel porto, posto proprio all’interno di una conca. Gigantesche rocce dorate la riparano, offrendo ai gabbiani un alveare di anfratti nei quali nidificano. Tra queste rocce, si affacciano grotte dalla forma irregolare all’interno delle quali acuminate stalattiti, che assomigliano ai denti di un grosso cetaceo, offrono allo sguardo una scenografia surreale. Ogni cosa qui è lontana dalla frenetica vita di città. Non esistono locali sfarzosi, fatta eccezione per un caratteristico pub che concentra qualunque tipo di attività ricreativa. Un pub spartano, arredato alla cieca, che porta il nome del terranova nero con la bandana rossa che dorme disteso ai piedi del bancone. Happy è il suo nome.
Il faro, risalente agli inizi del secolo, è stato edificato per consentire ai pescherecci, di rientro dalle lunghe battute di pesca, di attraccare nel porto con maggiore sicurezza, soprattutto di notte e nelle giornate in cui la nebbia è così fitta da soffocare il respiro. È sempre stato gestito da un gruppo di pescatori che, a turno, si faceva carico della manutenzione e di tutte le altre incombenze giornaliere. Soltanto dopo un brutto incidente avvenuto in mare, i pescatori avevano deciso di cercare un guardiano che se ne occupasse ventiquattr’ore su ventiquattro. È stata Rosa, un’anziana signora del villaggio, a raccontarmi di quell’accaduto che aveva turbato profondamente la tranquillità del luogo. In breve, la storia era questa. Un bambino di appena nove anni e il suo papà erano usciti con una modesta imbarcazione dal piccolo molo privato antistante la loro casa, ma non vi avevano mai più fatto rientro. All’improvviso, come spesso avviene su quest’isola, un temporale aveva trasformato il mare in un leone ruggente con le fauci spalancate. Un leone pronto a divorare ogni cosa. Tra le sue fauci, quel maledetto giorno, capitarono proprio quel padre e quel figlio, incauti avventori. Sprovveduti o forse troppo fiduciosi.
L’uomo, un pescatore sveglio ed esperto, era considerato un vero lupo di mare, eppure, malgrado la sua lunga esperienza, nulla aveva potuto contro la forza devastante della natura.
La casa del faro è bianca, rustica, costituita in gran parte da grosse pietre di porfido e travi di legno che ne sorreggono l’enorme peso. Una vecchia scala a chiocciola in ferro battuto divide l’ambiente giorno da quello notte. Al piano di sotto, in un angolo, si trova la cucina in muratura. Accanto al camino c’è un divano di cotone grigio, mentre al piano di sopra una camera da letto e un minuscolo bagno caratterizzato da una finestra ovale che affaccia a picco sul mare. Il punto più suggestivo della casa è certamente il lucernario in camera da letto che lascia penetrare i suoi raggi di luce perpendicolari, ricreando un’atmosfera teatrale. Da una grande porta rossa, invece, si accede direttamente al piccolo viale che conduce al faro.
Quando sono arrivato qui, la casa non era arredata. Accanto al camino era rimasta solo una vecchia sedia a dondolo di legno color acquamarina, completamente corrosa dalla salsedine e dal tempo che, più tardi, avrei ristrutturato riportandola a nuova luce. Il vecchio guardiano era morto da circa un anno per un’improvvisa polmonite e i figli avevano portato via ogni suo ricordo, lasciando la casa completamente orfana di tutto. Il faro, da allora, era rimasto incustodito poiché nessuno di loro desiderava occuparsene. Per me, quindi, è stato facile convincere il sindaco della mia abnegazione a un incarico tanto sconveniente.
Poco per volta, ho arredato la casa con degli oggetti ormai dismessi che ho trovato dal rigattiere del villaggio. Altre volte, invece, mi sono recato alla discarica per recuperare vecchie marmitte arrugginite che, con la mia spiccata creatività, ho trasformato in originali, quanto improbabili, fioriere. Ho sempre amato molto i fiori, li considero il più bel dono che la natura ci abbia fatto: ci ricordano quanto gli edifici in cemento armato, nei quali abitiamo, rendano più cupe le nostre vite e più inospitali le nostre anime.
In poco tempo sono riuscito a trasformare queste quattro mura disabitate in un accogliente rifugio per me stesso. Lo stipendio che mi pagano è piuttosto misero se rapportato alla vita che mi si chiede di condurre, ma mi garantisce una discreta indipendenza. Ogni tanto, qualche bottiglia di buon vino rosso e del tabacco di buona qualità. La restante parte del cibo la ricavo direttamente da un fazzoletto di terra che ho trasformato in un semplice ma fruttuoso orticello. Insalate, pomodori, peperoni, carote, zucchine, melanzane, cavolfiori e poi i legumi mi offrono, ogni giorno, un variegato menu. Poco distante, un oleandro secolare osserva il mio piccolo giardino dall’alto, come a proteggerlo dagli insetti che minacciano costantemente la sua sopravvivenza. Da aprile a ottobre mi regala abbondanti fioriture che rallegrano la mia vista. Altrettanto imponente è il mirto, che sta di guardia alla fine del viale e dal quale ricavo un ottimo liquore di grappa che, nei lunghi e tediosi pomeriggi invernali, centellino davanti al camino. Una dozzina di galline – di cui un solo gallo che ho chiamato Figaro – animano infine un pollaio costituito da una rete metallica e una tettoia di plastica verde, che le ripara dalle incessanti piogge autunnali.
Raramente mi reco al villaggio per rifornirmi di viveri, ma quando lo faccio indosso sempre un cappello con la visiera calata sul naso per nascondermi dagli occhi indiscreti degli abitanti. A volte riesco a sentire il bisbiglio insistente delle loro voci in sottofondo, vorrebbero fermarmi, riempirmi di domande, conoscermi meglio. Per tutti loro sono solo un vecchio uomo con la barba, che non fa domande e che non concede interviste a nessuno. Un’apparizione sporadica e silenziosa, avvolta nel più fitto dei misteri. La verità è che non sono più interessato al dialogo con la gente, né mi stimola conoscere le loro storie, le loro vite. Le considero tutte inette e prive di senso. Tutte uguali, senza un progetto, senza una scintilla.
Cosa conduce un uomo all’esilio? mi sono domandato spesso.
Forse le asperità di questo viaggio chiamato vita, caratterizzato da tornanti e burroni che ci fanno precipitare così in basso da non avere più la forza di voler tornare su, o forse dalle domande che non trovano mai risposte soddisfacenti e dai pensieri che continuano a fluttuare nell’aria.
“Non pensare troppo, oppure, uno di questi giorni, le orecchie inizieranno a fumarti” mi ripeteva sempre mio padre, quando, ancora bambino, mi vedeva assorto nel vuoto con gli occhi rivolti al cielo.
In realtà, quel fumo era il terribile presagio di un grosso incendio che sarebbe divampato dopo, negli anni più cruenti della mia adolescenza. Quel fuoco si sarebbe poi placato generando un fumo nero, inodore. Come il segnale indiano di chi si sente minacciato da un nemico invisibile e si lancia in un ultimo, disperato appello.
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Quel fumo lentamente si sarebbe diradato e dal suo interno sarebbe apparsa una curiosità morbosa e da quella curiosità avrebbero avuto origine milioni di domande destinate a non andare più via.
Che cosa genera la curiosità?
È un dono oppure una condanna?
Perché soltanto pochissime persone si mettono alla ricerca del senso dell’esistenza umana, mentre la maggior parte di esse non si pone alcun quesito?
Perché lasciano che il tempo si tramuti in un micidiale killer?
È un problema di sensibilità?
E da dove viene la sensibilità?
Alcuni ne posseggono tanta, altri poca, qualcun altro nemmeno un briciolo. Chi distribuisce questi doni – mi son detto spesso – deve essere cieco oppure un burlone che si prende deliberatamente gioco di tutti noi.
Qualche giorno fa, passeggiando lungo il viale che conduce al cimitero del villaggio – un lunghissimo sentiero costeggiato da imponenti cipressi – avevo notato che sul bordo della strada, tra un albero e l’altro, erano riposte delle piccole lapidi rettangolari a forma di mattone sulle quali c’era scolpito un nome, un cognome, una data di nascita e una di morte. Poi, subito sotto, una scritta in corsivo indicava il motivo del decesso: Venuto a mancare in guerra per una ferita oppure Disperso in guerra e cose così.
Il mio cuore si era raggelato all’istante nello scoprire che la loro prematura dipartita era avvenuta per le medesime ragioni e non potei fare a meno di pensare alle loro vite prima di quei tragici eventi. D’improvviso, mi era apparsa davanti agli occhi una scacchiera e su di essa fanti, cavalli, torri e alfieri in marmo bianco e nero affaccendati a mangiarsi l’un l’altro. Urla, spari, esplosioni. Nessuna traccia del re e della regina.
Sotto la subdola lusinga di una patria da difendere, quegli uomini, trasformati in pedine, erano stati condotti al macello. Divisi dalle loro donne, dai loro figli, dai loro genitori ai quali non sarà rimasta che la magra consolazione di una medaglia al valore o un monumento ai caduti in una piazza.
Mentre cercavo d’immaginare come sarebbe stata la loro esistenza se non fosse stata interrotta, mi venivano alla mente il re e la regina della scacchiera, questi signori della guerra, comodamente seduti nei loro salotti a bere whisky scozzese e a fumare sigari cubani, mentre questi poveri cristi venivano privati del loro diritto alla vita.
E pensavo a quanto questi ideali di sopraffazione e di lotta al potere abbiano allontanato gli uomini da quell’ideale di uguaglianza che ci rende tutti figli del medesimo mondo.
Mentre mi stavo allontanando da quel luogo di dolore per rientrare a casa, una processione di pensieri tristi si era manifestata nella mia testa. Un’eco lontanissima ma quasi palpabile. Il cielo era diventato plumbeo, come il colore del piombo e della polvere da sparo. L’aria si era fatta, tutt’a un tratto, umida. In fondo al viale riuscivo a scorgere i lampi di un temporale imminente, che di lì a poco sarebbe passato come un ciclone, lavando via tutto il sangue di quegli impagabili eroi.
Quella stessa sera avevo deciso di cucinare una minestra calda. Le mie mani erano gelide e anche i piedi. Non riuscivo a riscaldarmi in nessun modo. Il freddo di quelle vite, ormai dimenticate dal tempo, m’impediva di scaldarmi. Avevo acceso il camino con pochi tocchetti di legno rimasti nella cesta e non avevo voglia di andare nella legnaia a caricarne degli altri. Dopo aver mangiato la mia solita minestra, mi ero seduto sulla poltrona a sorseggiare un bicchiere di buon vino rosso. I profumi fruttati del suo ricco bouquet si alternavano nelle mie narici arrivando fino alle pendici della mia memoria olfattiva. Potevo riconoscere chiaramente il profumo delle ciliegie e delle more, i tannini così prepotenti e il raffinato sentore dei rimandi legnosi dovuti a un lungo invecchiamento in botti di rovere. Nella penombra della stanza, la luce calda del camino proiettava la mia lunga ombra sul muro. La fiamma sembrava danzare dinanzi ai miei occhi stanchi. Mi sentivo particolarmente solo quella sera. Forse, la visione di quelle vite spezzate mi aveva gettato in uno stato di profonda angoscia.
Angoscia del tempo, del mio tempo, del tempo del mondo. Angoscia della sua preziosità, certo, ma anche della sua fugacità e della nostra impotenza. Vedevo nitidamente un orologio da taschino, di quelli finemente decorati a mano. Un orologio che ci viene consegnato nel momento in cui emettiamo il nostro primo vagito, un orologio con un timer invisibile che inizia a emettere un ticchettio insonorizzato, molto simile a quello di una bomba a orologeria, pronto a esploderci tra le mani in qualsiasi momento.
Intorno a me vedevo solo un rovo di spine, affilate, taglienti, pronte ad attaccarmi.
Spine senza rose.
Quella sera, tutto il dolore del mondo, il suo grido alto e potente, risuonava dentro al mio corpo vecchio e ne fuoriusciva amplificato. E prima che le mie palpebre calassero giù per sprofondare in un sonno lungo e profondo, ero rimasto a lungo davanti a quel fuoco a contemplare il silenzio.
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