Gabriele è nato all’inizio degli anni Sessanta. Lo conosciamo bambino, nel 1967, e lo ritroviamo ragazzo nel 1978. Due anni molto importanti, non solo per lui, ma anche per un’Italia che sta radicalmente cambiando.
Gabriele impara a leggere gattonando sui quotidiani ben prima di iniziare la scuola, e racconta spesso alla mamma o alla nonna una qualche notizia che l’ha particolarmente colpito. Sono proprio le notizie, quello che succede fuori dalla casa in cui vive, a scandire il racconto di un anno di vita del bambino, figlio unico di una famiglia come tante allora.
Nel 1978, Gabriele è al liceo e coltiva la grande passione per la corsa. Crescendo in una città di provincia, quello che succede in quel 1978 è più percepito che vissuto in prima persona. Frequenta spesso i ragazzi della sinistra, che però faticano a riconoscerlo come uno di loro, viste le sue origini borghesi. Suo compagno di banco e migliore amico è Effe, figlio di un operaio di una locale fabbrica in crisi.
Quando in classe arriva Nora però, tutto cambia…
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto ‘Correndo a vuoto’ perché credo di avere qualche buona storia da raccontare, e penso possa piacere a chi in un libro cerca ancora il racconto, dei personaggi e una storia, non solo a chi ha vissuto quegli anni (almeno la seconda metà degli anni settanta, senza tornare agli anni sessanta).
BLOW-UP
Gabriele è piccolo, ancor più dei sei anni che compirà alla
fine dell’estate, tanto che il pallone Super Tele che rincorre
dalla mattina alla sera sulla spiaggia dei bagni Lido sembra
enorme.
Tra poco tempo, per definire la sua magrezza, diranno che
sembra un bambino del Biafra. Il Biafra ha dichiarato la secessione
dalla Nigeria meno di due mesi fa, a fine maggio del 1967.
Ieri alla radio, che a casa loro sta sempre accesa, hanno
detto che l’esercito nigeriano l’ha invaso.
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Quello che Gabriele, coi suoi sei anni ancora da compiere
non può sapere, è che l’indipendenza del Biafra non può essere accettata dal governo nigeriano anche perché lì ci sono i giacimenti petroliferi che danno la ricchezza al paese. Quello che invece nei prossimi due anni vedrà al telegiornale, l’unico
allora in onda su quello che si chiama “programma nazionale”, sono le immagini dei bambini del Biafra spaventosamente denutriti. Molti di loro saranno tra il milione di vittime della
guerra civile, che ucciderà soprattutto per la fame.
Oggi, all’inizio di luglio del ’67, l’unica preoccupazione di
Gabriele è rincorrere il Super Tele che ancora una volta rotola via, dopo un calcio svirgolato, fino alla zona tra le cabine e la passeggiata dove c’è il magazzino dei bagnini.
È al mare con Lena, sua madre. A novembre lei compirà
trent’anni. È molto alta, magrissima. Quando le vogliono fare
un complimento le dicono che sembra l’attrice di Colazione
da Tiffany. Stanno nell’alloggio a fianco di quello di Marina,
la cugina più giovane di Lena. Lei ha due gemelli di un anno
più grandi ma il maschio, Filippo, non gioca mai a pallone.
Sta a mollo, come dice sua madre, tutto il giorno. Mentre la
femmina, Elisabetta, parla pochissimo. Gioca con la sabbia
bagnata e le formine, scruta gli altri bambini strizzando gli
occhi scuri scuri e non sorride mai.
Sono nati a Londra perché il loro papà era già sposato quando ha incontrato la mamma, e all’epoca non c’era il divorzio, e queste cose non si dicevano, almeno non ai bambini, e infatti
Gabriele ufficialmente non lo sa che i suoi cugini hanno un
fratellastro molto più grande, che pare non abbiano mai conosciuto, come ha sentito dire dai genitori pochi mesi prima, anche se è stato ben attento a non farsi scoprire mentre ascoltava i “discorsi da grandi”.
Lena indossa sopra il costume intero un abito senza maniche, scuro con disegni floreali.
Invece l’uomo di Marina, da Londra, dove va sovente per
lavoro (almeno così si dice), le ha portato a casa dei vestiti
molto originali, con grandi righe bianche e nere, optical, che
sono come quelli indossati dalle modelle del film dell’Antonioni appena uscito, Blow-up, quello strano che finisce con una partita di tennis giocata senza pallina.
Blow-up ha molto colpito il pubblico, soprattutto per l’aspetto più glamour, il fotografo di moda e le belle modelle nella “swinging London” che in quel momento è il posto in cui
tutti quelli alla moda vorrebbero essere.
Al successo del film ha contribuito anche, come spesso accadeva all’epoca, la decisione di un pretore, in questo caso di Ancona, che l’aveva denunciato di oscenità ordinandone
il sequestro su tutto il territorio nazionale, come si dice. Gli
italiani dovranno attendere la metà di novembre per un altro
provvedimento dell’autorità giudiziaria di tenore opposto.
Come scriveranno le pubblicità sui giornali: “Comunicato
importante. Ritorna Blow-up in edizione integrale. Il procuratore della repubblica di Napoli, riconosciuti i meriti artistici del film, ha disposto l’archiviazione degli atti e la revoca del
sequestro ordinato a suo tempo…”.
Blow-up Correndo a vuoto
Biagio ha portato a casa da Londra alla moglie uno stock
di quei vestiti da modelle londinesi, e ci tiene che li indossi,
perché quelle ragazze alte e slanciate, a differenza della moglie che è piccola e di certo non filiforme, gli piacciono molto
anche se il suo sogno, come quello della maggior parte degli
uomini, resta “la B.B. che ha tutte le sue belle forme mentre la
Vanessa Redgrave o la Sandie Shaw la cantante scalza, come
tutte le inglesi, hanno la gamba lunga ma son troppo ossute”.
Il bagnino degli stabilimenti balneari lo chiamano tutti Pizzo, da quella volta che durante una partita di pallanuoto contro la Pro Recco, in una delle solite mischie sott’acqua in cui
volano colpi proibiti, ha strizzato le palle al più forte giocatore italiano, o almeno così ha raccontato lui a tutti.
Si vanta molto del suo fisico, scolpito e abbronzato, ed è
convinto che nessuna donna sia in grado, né voglia resistergli.
Essendo piccolo, cammina sulle punte spingendo in avanti
l’ampio torace, i cui peli – nonostante non abbia ancora quarant’anni – sono già bianchi.
Ha adocchiato Lena, le fa battute che crede spiritose e diventano sempre più esplicite.
Quel pomeriggio, quando la spiaggia è ancora poco affollata,
la vede passare davanti al gabbiotto dove sta sistemando delle
sdraio dalla stoffa a righe bianche e blu.
Lascia lì le sdraio e le si fa incontro. Mentre si avvicina ha
già deciso. Quando lei sembra infastidita dal suo approccio fa
un passo in più, la mano grande appoggiata sull’avambraccio
nudo di lei che prova a scostarlo, lo spinge ma la diversa forza
tra loro è troppa. Come se rimbalzasse Lena scivola a terra.
Lui ormai la vuole a ogni costo e tornerebbe a toccarla se non
si intromettesse Marina.
Per un lungo istante, se la luce non fosse così solare sembrerebbero un quadro di Caravaggio, dal punto laterale in cui li vede Gabriele, fermo immobile con il suo pallone Super
Tele sottobraccio: una a terra confusa, lui con uno sguardo
bestiale, ritto sulle punte, il torace in fuori, la stoffa del piccolo costume a slip tesa dall’eccitazione. Mentre Marina, con una smorfia di disgusto e riluttanza, lo sfida. Se sei un uomo
lo devi dimostrare con una donna come me. Da terra Lena vorrebbe dirle qualcosa, ma sa che sua cugina non si fermerà.
Se lo sono dette tante volte, da adolescenti, al cinema che è
sempre stato il loro rifugio, il mondo dei loro sogni di ragazze dove tutto quello che sarebbe meglio non esistesse restava fuori. Se lo sono dette tenendosi la mano, ogni volta che una
delle due aveva paura, che nessuno avrebbe fatto del male a
loro due, se erano insieme.
Pochi minuti e Marina esce dal gabbiotto dei bagnini, e
quando esce è consapevole di essere la Giuditta mentre Pizzo
non può che finire, metaforicamente, come Oloferne.
Sorride, sorride. Sorride a Lena: «Questa sera andiamo a
vedere Angelica?».
Al cinema sono andate insieme, domenica dopo domenica,
nell’adolescenza. Là, mentre Nazzari baciava la Sansòn, Marina le ha raccontato che Biagio, quell’uomo già sposato con
un figlio venuto quando lui era poco più che un ragazzo, era
stato suo, e se lo sarebbe tenuto anche se tanti non avrebbero capito.
E al cinema insieme andavano ancora la sera, almeno una
volta alla settimana, in quella lunga vacanza al mare. Lì al
cinema all’aperto estivo sul tetto piatto di una brutta costruzione bassa che ospita alcuni negozi, allestito con una buona dose di fantasia e di precarietà tipica degli anni Sessanta.
Il film era il terzo di una saga sull’eroina dei feuilleton, che
allora aveva avuto un notevole successo, interpretato da una
bionda francese sempre molto scollata che piaceva agli spettatori per le avventure osé di cui era protagonista, in ambientazioni storiche per il tempo originali. Era uscito in prima visione un anno prima, e i distributori italiani ne avevano, chissà
come, scambiato il titolo col quarto, che sarebbe uscito qualche
mese dopo, in autunno. Così quella sera vanno a vedere Angelica alla corte del re che dovrebbe chiamarsi Merveilleuse Angélique, mentre il successivo sarà in originale Angélique et le
roy, e in Italia perciò La meravigliosa Angelica.
Gabriele, che nel pomeriggio ha suo malgrado visto le molestie subite dalla madre, si spaventa per le scene ambientate alla
corte dei miracoli di Parigi e inizia a piangere, finché la mamma non si convince a riportarlo a casa e a metterlo a dormire.
L’indomani mattina pioverà e così non andranno in spiaggia, e il pomeriggio sarà dedicato all’attesa del papà che, come allora succedeva ai villeggianti, finita la settimana lavorativa
partirà subito per raggiungere la famiglia.
Quanto accaduto il giorno prima è finito tra quelle cose che
non si devono dire né raccontare, e sono davvero tante per un
bambino. D’altra parte lui non ha molti amici ed è silenzioso,
se non al riparo del ristretto ambito familiare.
LA MAPPA DEL MONDO
Per Natale la nonna Maria gli ha regalato un mappamondo,
di quelli che dentro hanno una lampada e accendendola i colori dei continenti e dei mari diventano più vivaci.
All’inizio il regalo lo ha un po’ deluso, perché a cinque anni
si spera sempre in un nuovo giocattolo, anche se la nonna già
il Natale precedente gli aveva regalato un libro illustrato di
fiabe, e gliene legge una quasi ogni pomeriggio: la sua preferita è Il brutto anatroccolo e, come fanno sempre i bambini,
cerca di farsi leggere ogni pomeriggio quella, anche se la nonna, come fanno sempre gli adulti, cerca invece di leggergliene
una diversa ogni giorno, perciò è grande per lui l’attesa del pomeriggio in cui gli rileggerà Il brutto anatroccolo.
Presto quel mappamondo invece diventerà un meraviglioso
modo per inventarsi percorsi e nuovi giochi. Lo ruota e fermandolo col dito ambienta in quel paese una corsa ciclistica
o automobilistica a tappe (aveva sentito alla radio che i piloti
erano partiti da diverse città europee per raggiungere Monte
Carlo in quello che veniva chiamato “rally” e lui ne inventava
sempre nuovi sul mappamondo), oppure ruotandolo due volte
una amichevole tra nazionali di calcio, e un po’ barando cerca
di fare uscire l’Italia, o almeno l’Inghilterra che l’anno prima
aveva vinto i campionati mondiali.
Spesso bara, perché preferisce che il dito cada in un paese
europeo siccome sa davvero poco degli altri continenti, anche
dell’America, che è comunque quello di cui, dopo l’Europa, si
parla di più alla radio e alla televisione e tutti, anche i bambini,
piccoli come lui, ripetono il “qui Nuova York vi parla Ruggero
Orlando” con cui il giornalista apre i servizi al telegiornale (a
loro sta molto simpatico anche per quel modo di salutare facendo ciao con la mano, come fosse un amico lontano).
Il passo successivo sarà ereditare l’atlante geografico della
cugina più grande, a cui ne hanno regalato uno nuovo perché
ha iniziato le scuole medie. Una fantastica scoperta: bandiere, informazioni, cartine con tante città in più, soprattutto
quelle a colori, mentre quelle che gli sembra si chiamino fisiche e che rappresentano l’orografia e l’idrografia lo interessano molto meno.
Il suo nome l’aveva scelto nonno Antonio, che aveva fatto
la grande guerra nei granatieri, dall’alto del suo metro e novanta.
Era dannunziano, e raccontava di essere entrato col “vate”
a Fiume, anche se Maria, sua moglie, quando lui non c’era lo
negava, aggiungendo che comunque quello lì, quel D’Annunzio, non le piaceva perché era “uno che si faceva mantenere dalle donne”.
Quando Lena gli disse che sarebbe nato il suo primo figlio,
Antonio era già ammalato gravemente, aveva perso moltissimi chili, camminava solo reggendosi a un sottile bastone con
l’impugnatura ricurva. Il suo fegato non funzionava più, dovevano di frequente togliergli il liquido che gli gonfiava l’addome.
Certi giorni stava meglio, quel pomeriggio decisamente no.
Si era tolto il cappello, entrando in casa, e Lena c’era rimasta male a vedere come erano diventati radi e sottili i capelli
bianchi di suo padre.
Era seduto vicino al tavolo della cucina ma continuava ad
appoggiarsi al bastone.
Cercò di sorridere alla notizia, e con tutta la voce che aveva
le disse subito: «Lo devi chiamare come il Comandante!». Con
quell’appellativo il poeta si faceva appunto chiamare dai suoi
legionari ai tempi del Carnaro.
Antonio, che coi granatieri faceva il cuoco, ai tempi di Ronchi, dove si erano accampati alla fine della grande guerra, conobbe Maria, e di ritorno da Fiume, dove in verità era rimasto
molto poco tempo, passò a chiederla in sposa.
Trovarono lavoro tutti e due in una grande casa di una famiglia di imprenditori piemontesi, lui come cuoco lei come cameriera. Nacque la loro prima figlia, Anna. Lena arrivò più di
dieci anni dopo, inattesa, e con sé portò dei problemi di cuore
per Maria, che non potendo più fare la cameriera divenne la
portinaia del palazzotto a quattro piani che quella famiglia si
era costruita, simbolo della ricchezza aumentata come erano
aumentate le vendite dei profumi che producevano.
La nascita di quella figlia a un’età che per l’epoca era avanzata, la malattia della moglie o forse la nostalgia di una vita
che si era immaginato molto diversa, lo aiutarono ad approfondire un’amicizia col vino rosso che comunque aveva sempre coltivato. Fino al giorno in cui il fegato venne a chiedere
il conto.
Anna aveva, come la maggior parte delle donne di quella
cittadina, trovato lavoro nella grande fabbrica di cappelli, e
uno dei ricordi d’infanzia più radicati in Gabriele era infatti di quando con la mamma andavano ad aspettare la zia che usciva dal lavoro alle cinque, annunciata dal suono della sirena di fine turno che si sentiva per tutta la città, e un enorme numero di donne sciamavano verso le loro case, tutte sulle
biciclette o sulle Lambrette.
Lena era cresciuta molto bella, con quei lineamenti fini da
attrice americana, tanto che aveva posato anche per alcuni
manifesti pubblicitari dei vari prodotti di bellezza o dei monili in argento che allora in città si facevano. Il suo cuore si era
spezzato quando era finito l’amore con un calciatore che, da
una delle grandi squadre di Milano, era venuto a guadagnarsi
gli ultimi ingaggi nella squadra della cittadina, una provinciale come si diceva, che ogni anno lottava per rimanere in
serie A. Un anno che la salvezza non era arrivata lui decise di
dire addio al calcio giocato, e per diventare allenatore accettò
l’offerta del presidente di una squadra di serie C, nel centro
Italia. Le chiese di sposarlo e seguirlo ma lei pensò che lo facesse senza la giusta convinzione, e preferì lasciarlo andare:
il dubbio l’avrebbe accompagnata sempre.
Fu la cugina una domenica al cinema a parlarle del più fidato collaboratore di Biagio che, tra l’altro, come notò appena li presentarono, aveva una somiglianza fisica marcata col
calciatore.
Il matrimonio arrivò nel giro di pochi mesi e meno di un
anno dopo anche il figlio.
«Lo devi chiamare come il comandante!» le aveva detto
suo padre che, con estrema fatica, sarebbe uscito di casa per
un’ultima volta, pochi giorni prima della fine, proprio in occasione del battesimo del nipote.
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