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Cose da fare prima dei venticinque anni

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Un ragazzino di periferia scopre la ferocia, una coppia in crisi parte per un viaggio on the road, una ragazza ebrea si interroga sui propri sentimenti, un giovane prete conosce malattia e sofferenza, un adolescente fa una scommessa con gli amici, un’ambiziosa giovane donna stringe un patto, un giovane lascia tutto per la Scozia, un ragazzo di buona famiglia si adegua a suo modo agli orrori del mondo. Ci sono tante cose da fare prima dei venticinque anni, compreso scoprire lati di te che mai avresti immaginato.

“Qui la gente è depressa
e irrequieta, non ti pare?”
“La mancanza di certezze
ci rende ambigui e
inaffidabili.”
Len Deighton, SS-GB. I nazisti occupano Londra

QUELLO CHE PUOI VEDERE IL SEI SETTEMBRE 

La battaglia inizia alle cinque del pomeriggio del sei settembre e finisce venti minuti dopo. Abbiamo perso, e fino a che le cose non cambieranno, gli autoscontri sul vialone del mercato resteranno sotto il controllo degli altri, quelli che vengono dall’altra parte del Fiume.

“Il Fiume” in realtà è una fogna a cielo aperto in una grossa crepa dell’asfalto. L’acqua nera corre veloce nelle spaccature della strada e ha il suono macellante dei torrenti. Ecco il perché di questo nome, e quelli che abitano dall’altra parte del Fiume sono dei veri duri, sono i terremotati. A dire le cose come stanno, loro con il Terremoto non c’entrano niente, però vivono ancora lì, nelle baracche costruite dopo la catastrofe. Le baracche sono fatte di lamiera, di plastica, di reti di metallo, vetro e amianto. Qualcuna ha anche il cesso. In mezzo alle baracche hanno una piccola cappella dedicata alla Madonna. Tutti hanno fatto qualche cosa o messo qualche soldo per la costruzione della piccola cappella per ringraziare la madre di Gesù. Ringraziarla di cosa io però non lo capisco. Non ci sono mica le strade dall’altra parte del Fiume. Quella è Calcutta. Noi la chiamiamo così, Calcutta.

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Da questa parte del Fiume ci sono le case popolari, dove viviamo noi. Quattro blocchi edilizi da quattro piani ciascuno che si allineano in quattro strade parallele. Una panetteria, una chiesa, una farmacia e il bar latteria che fa anche da edicola e tabaccaio. Qualche macchina bruciata e molta immondizia. In due parole, qui c’è il progresso.

Grazie alla rabbia dovuta alla miseria delle poche risorse che il governo gli riserva, stavolta hanno vinto loro. Avrebbero monopolizzato la pista degli autoscontri, ci sarebbero passati davanti nelle file alla posta, al bar latteria, ci avrebbero provato con le ragazze all’oratorio senza chiedere il permesso a nessuno e roba di questo genere.

La scuola non era ancora incominciata e già mi sentivo umiliato. Case popolari 0, Calcutta 1.

Quello che le case popolari e Calcutta avevano in comune erano le piante di fichi d’India e l’Istituto Statale Salvatore Quasimodo, elementari e medie insieme. Si trovava proprio nel mezzo, fra lamiere da un lato e panni stesi su corde di spago fra i balconi dall’altro. L’intonaco veniva giù a brandelli e i pilastri di cemento armato avevano buchi grossi come arance. In alcuni punti riuscivi a intravedere i tondini d’acciaio.

Avevi la netta impressione che lo Stato ti odiasse. Stava lì per dovere ma non ti avrebbe mai rivolto lo sguardo, aspettando pacificamente che tu trovassi il modo di sparire insieme ai tuoi vicini di casa e al barbiere della piazzetta.

Io ero in seconda media e il mio banco era di fianco alla finestra. Mentre la maestra parlava, potevo guardare lo Stretto e la costa dall’altra parte del mare.

La matematica era una forma di coercizione e la fisica era incomprensibile. L’italiano mi sembrava un sistema più emozionante per diventare intelligenti. L’analisi logica e l’analisi grammaticale mi facevano sentire parte di un mondo molto più vasto e intrigante. Il dialetto non lo parlavo mai, era la mia forma di emancipazione. Certo, lo capivo, ma questo non vuol dire niente. L’amore per la lingua era l’amore per me stesso, ficcato lì in un posto disperato.

La maestra Costalunga aveva cinquant’anni e non ne poteva più. Era chiaro che l’avevano presa per il culo tutta la vita con la storia dei vantaggi legati al posto sicuro. Uno dei suoi tre figli, in barba alle leggi dello Stato, era in classe con me ed era un deficiente. Si chiamava Gaetano e faceva schifo in tutto. Anche lei pensava che suo figlio fosse un povero stupido, però lo promuoveva sempre. In fondo era sempre una madre del Sud. Nel suo sguardo, in quello dei bidelli e in quello di chiunque avesse più di ventidue anni, l’età in cui sembrava, almeno ai nostri occhi, che si entrasse davvero nel mondo degli adulti, si leggevano cinica rassegnazione e invidia velenosa.

Sulla mia destra, un banco più avanti, c’era Maria. Aveva i capelli lisci e biondi, gli occhi nocciola e portava sempre gonne colorate con le scarpe in tinta. Era pulita e ordinata e anche se veniva dalle case popolari tutto il mondo la trattava come una reginetta. Mi piaceva un sacco e anche se avevo dodici anni mi ci volevo fidanzare, qualsiasi cosa questo avesse voluto dire. Ma non ero il solo a cui piaceva Maria. Domenico, uno che abitava dirimpetto al mio portone, le stava sempre addosso. La toccava, le tirava i capelli, le alzava la gonna. Ogni tanto le si metteva dietro e si tirava fuori l’uccello chiedendole di succhiarglielo. In quei momenti qualcosa si agitava dentro di me, ma non avevo modo di capire se questo mi faceva rabbia o se in qualche modo mi dava un sottile piacere. Io Maria riuscivo a immaginarmela solo tutta pulita mentre faceva gli esercizi di danza in tutù. Ogni tanto dentro di me sentivo che era solo la mia immaginazione, un’immaginazione che con Maria non c’entrava niente.

Quello che invece non aveva nulla a che fare né con la povera Calcutta né con le case popolari era mio padre, e io pensavo spesso che da grande sarei voluto essere come lui. Era magro e si vestiva in modo ricercato anche se doveva andare a comprare il giornale. Stava tutta la notte nel suo studiolo che si era ricavato con tanta fatica e leggeva trattati di medicina interna. Quando si era innamorato di mia madre aveva lasciato il mondo reale, quello dei servizi e delle possibilità, e l’aveva seguita qui, da dove veniva lei. Mi sembrava adatto a insegnare cose complicate in posti importanti, non a consumare la sua vita in un quartiere di case popolari del Meridione. In giro lo chiamavano “il barbetta” per via del pizzo che portava e che gli dava un’aria aristocratica. Sembrava che lo rispettassero nonostante la differenza fra loro fosse abissale. Mio padre mi sembrava un eroe borghese destinato a scontare chissà quale errore con una permanenza a tempo indeterminato nel quartiere.

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Giorgio Carella
nasce a Catania però vive a Milano quasi da sempre. È regista, direttore della fotografia, insegnante di recitazione. Ama la musica, leggere, raccontare storie. Cose da fare prima dei venticinque anni è il suo esordio letterario.
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