“Quanto importante è quello che pensa, se non si accorge di quello che sta accadendo?” Rifletti l’assistente diretta alla cabina di pilotaggio. La donna non sa che tutto è iniziato circa quattro anni prima, da un viaggio al suo paese d’origine in Calabria. Era stato costretto a farlo, con un ricatto, dal capo ndrangheta locale. Lo stesso che giunto in paese lo mette davanti a una rivelazione terribile, che Francesco, Ciccio, non vuole accettare. Quel segreto e tutto quel che ne è seguito lo hanno spinto in una lenta crisi esistenziale che si è conclusa con la fuga da casa. A Genova, dove ha vissuto da barbone, con l’aiuto di una prostituta dei caruggi, riprende a vivere. Da lì vola fino a Buenos Aires per trovare una risposta definitiva al suo dramma. Una serie di circostanze sfavorevoli, però, non l’aiutano e ora è di ritorno carico di nulla. Sull’aereo, riflette quanto possa essere pesante quel fardello fatto di niente.
È, quindi, concentrato sulla sua esistenza. Per cui, pericoli come quello sono stati una circostanza ricorrente nella sua vita. O almeno questo è quello di cui è convinto. Tutto a seguito di un passato che ha invaso il quotidiano e condizionato fortemente il futuro. È una partita vitale quella che si appresta a giocare una volta atterrato e mentalmente si esercita cercando di immaginare le possibili evoluzioni. Crede che probabilmente tutto dipenda da semplici sfumature, ma, comunque, capaci di rigettarlo nell’inferno in cui viveva prima del viaggio a Buenos Aires. Non è vero che non abbia fatto caso all’eccitazione degli altri passeggeri e alle comunicazioni del comandante. Almeno in un paio di momenti, ma solo per brevi attimi, ha avuto la sensazione che stesse succedendo qualcosa di strano, però non è riuscito ad associare il pericolo al suo interesse. Con la testa è lontano e quindi li ha vissuti dissociandoli dal contesto. Solo durante l’ultima comunicazione ha percepito una scossa. Qualcosa che lo ha afferrato strattonandolo. Si concentra incuriosito sulla voce tranquillizzante che giunge dall’altoparlante, ma la prima parte del messaggio ormai l’ha persa. Pensa di aver vissuto in completo isolamento e guarda l’orologio per rendersi conto del tempo trascorso. Gli viene in mente quando ragazzo, a mare, teneva la testa sotto il pelo dell’acqua per coprire i rumori del treno che passava lì vicino, lungo la tratta ionica. Quelle estati sono un lontano ricordo che ogni tanto emergono dalla memoria per poi riscompartire senza lasciare traccia. Stavolta vuole trattenerle, ma pur sforzandosi non riesce a ricordare altro oltre i tuffi dalla spiaggia con gli amici d’infanzia, la pesca dei ricci di mare e la cattura di polpi a mani nude. Non è soddisfatto. Qualcosa non gli torna. C’è una specie di nebbia che come un velo copre quello che sta dentro quei ricordi. Non riesce a riportare a galla quello che si nasconde. Si sforza di pensare, senza alcun risultato. Dopo un po’ decide di lasciar perdere, in fondo non gliene importa nulla. Peggio di com’è messo sarebbe difficile essere. Non è facile, però, comandare la memoria e men che meno quando si vuole non pensare al passato. Chiude gli occhi con l’idea di poter scacciare quei lontani riverberi. È inutile. Il mostro nero che si aggira in testa è ben nascosto e si lascia percepire appena, come impalpabile esistenza. Avverte dentro un senso di insofferenza che gli porta momenti di forte riflessione alternati ad altrettanti di rabbia. L’inconscia e momentanea distrazione causata dell’altoparlante ha l’effetto di squarciare quel velo. Improvviso e inaspettato, proprio quando sta per dichiarare la sconfitta, vede il sorriso enigmatico di una ragazzina dalle lunghe treccia che lo guarda. Riconosce lo stesso sguardo inseguito per un’intera estate. Arrossisce come gli succedeva un tempo, quando incrociava i suoi occhioni azzurri. Un lividore che dà al volto gli aspetti di una scottatura solare. Non ha mai avuto il coraggio di avvicinarla. Lo sforzo massimo che era riuscito a fare è stato di consegnarle un bigliettino: un cuore trapassato da una freccia e una poesia scritta da lui. Cerca di ricordare i versi. Non gli viene. Fa uno sforzo. Ripete alcune parole. Poi arriva alla mente la prima strofa. Prova a ripassarla nella speranza di ricordarla tutta e lo fa schiudendo leggermente le labbra e recitando a bassa voce.
“Nella buia notte
la mia mano innaspa l’aria,
già sogno. Mi sei vicina,
ma nella realtà del dì
sei già lontana …”
Si blocca. Per quanto si sforzi non ricorda altro e ha anche il dubbio che le parole appena dette siano veramente quelle. Gli sembra di sì, ma non è sicuro. Non ricorda bene la circostanza del recapito: il bigliettino l’aveva consegnato lui o mandato con un’amica? Boh! Chissà! Senza impegno ci riflette ancora un momento sforzandosi di ricordare. Presto, però, si rende conto che non ha alcuna importanza dopo cinquant’anni o poco più e ci ride sopra.
Continua a riportare a galla vecchi ricordi, più con l’idea di far passare il tempo che per la necessità di farlo.
Anche ora, come ultimamente gli succede sempre più spesso, cancella la realtà degli ultimi giorni per sostituirla con ricordi che richiama direttamente dal cimitero del subconscio dove sono seppelliti da anni. È un modo per scantonare i problemi senza affrontare la realtà. Come fanno i deboli, ma questo non lo vuole ammettere anche se gli balena in testa.
Ha preso l’aereo da Buenos Aires il pomeriggio del giorno prima, il giorno dopo l’esito del test. È stata una decisione d’impeto. Ha fatto tutto in fretta, appena in una mezza mattinata: il biglietto, il licenziamento dal lavoro e il bagaglio, cosa molto facile perché si trattava di mettere dentro la valigia le quattro cianfrusaglie che l’avevano accompagnato nel viaggio di arrivo.
Riflette com’è semplice sfasciare, mille volte più facile che costruire. È scappato senza salutare Giovanna né ringraziare di persona Manuel ha solo lasciato un biglietto. È evaso dalla casa dov’è stato ospite quasi come un ladro. S’è sentito un furfante mentre il taxi lo portava in aeroporto, ma non ha fatto niente per rimediare, nemmeno una telefonata. È uno scippatore di amicizia, di affetti e di speranza. Un egoista e un vigliacco, ma non gliene importa un cazzo di niente. Ha iniziato quel nuovo volo della sua vita senza un paracadute, conscio che qualcosa sarebbe successo prima di sfracellarsi al suolo. Si è abbandonato al destino, come ha fatto quando è scappato di casa tanti anni prima. Senza riflettere se con quell’azione avrebbe arrecato dolore ad altri.
L’esito del test non è stato quello sperato. Purtroppo, quello è e non può cambiarlo a suo piacere. Ma poi, è veramente così importante? Effettivamente è quella la vera ragione della sua fuga o piuttosto sta scappando da un mostro esistenziale a cui non riesce a dare una giusta connotazione?
La notte dopo il risultato non ha dormito. A letto si è girato e rigirato, riempiendo il tempo di mille supposizioni, altrettante spiegazioni e una decisione. La sola che, a suo modo di vedere, gli lasciava ancora una speranza: ritornare. E ha ubbidito all’istinto.
Durante il viaggio ha la sensazione che quel volo non finisca mai. L’aereo fa una sola sosta, ma lui rimane a bordo, imbostikato a qualcosa che non è il sedile, bensì i pensieri che frullano in testa. È come se stesse vivendo la vita nelle immaginazioni le cui proiezioni riverberano il futuro: un fantoccio di cartapesta seduto su un sedile dell’aereo Alitalia in viaggio per Roma e poi un grosso punto interrogativo.
Ha scelto Roma per due motivi. Perché era il primo aereo per l’Italia dove c’erano posti liberi e perché ancora non ha sciolto il dubbio se andare a Genova, a casa, o ritornare in Calabria.
Dopo tanti mesi, proprio quando stava in fila per il biglietto, gli viene in mente Imma e con lei la promessa di aiutarla a ritrovare la figlia e l’impegno a saldare il debito. Nello stesso momento pensa alla moglie, ai figli e a Viola la nipotina e una lacerazione si apre nel cuore: sente il bisogno di braccia amorevoli che lo stringano. L’ossessione dalla rivelazione di zio Pietro che lo insidia o qualcos’altro di incognito che gli rode dentro, alla fine hanno il sopravvento su tutto. Al momento si convince che l’interrogativo che lo attanaglia esiga una risposta certa e che l’unico posto dove poterla trovare sia il paesino in Calabria. Non sa il perché di quella certezza, ma se c’è un posto dove mettere la parola fine questo è proprio lì. I convincimenti di un momento prima divennero dubbi subito dopo fino a chiedersi se fosse veramente quello che voleva. Se valeva la pena continuare a buttare al vento la vita per un fatto ininfluente e successo tanto tempo prima, ora che i diretti interessati, a parte lui, erano morti da anni.
In realtà quelle domande se le pone spesso, ma mai con forza. Solo come vacue preclusioni a una domanda più importante: perché ha buttato via la sua vita? Forse, addirittura, non le ha mai percepite o, se l’avesse fatto, certamente le ha rilegate in quell’angolino della memoria dove ammucchia le cose spiacevoli di cui ha paura, sperando di dimenticarle.
È così che decide per Roma Fiumicino. praticamente una non decisione, in attesa che abbia le idee più chiare. Spera che magari lungo il viaggio deciderà il da farsi. Naturalmente non è stato così e l’aereo atterra senza che abbia fatto una scelta precisa. Non può essere diversamente, visto che Francesco Treolo non è uomo di scelte precise o almeno non sempre.
Ritira il bagaglio e passa la dogana. Il cane antidroga, al guinzaglio di un agente, lo annusa girandogli intorno. Ha un balzo al cuore quando il muso dell’animale si ferma all’altezza delle tasche. Sa di non avere niente da temere, ma l’esperienza di barbone ha lasciato una inconscia paura ogni volta che un poliziotto si avvicina o lo guarda. Gli scatta dentro uno spavento che subito si trasforma in terrore come se fosse il peggiore delinquente al mondo. È solo questione di un momento e il cane si sposta verso un altro passeggero. Non ha il tempo di tranquillizzarsi per lo scampato pericolo che una domanda, imperiosa e martellante, prende possesso della sua mente. “Ora cosa farò?”
Con l’inconsapevolezza di quello che farà e dove andrà, si incammina seguendo le indicazioni dell’uscita. A capo chino, trascinandosi dietro il trolley e senza una meta ne un’idea di futuro, ritma passi pesanti sopra i quadroni in marmo del pavimento. Senza accorgersi cerca con ogni passo di stare dentro un quadrone, quasi un gioco. Dentro l’uomo c’è il panico dell’ignoto.
In quel suo mondo di noncuranza e distrazione, ha un attimo di lucidità. Giusto una frazione di secondo, generata dalla visione che si trova davanti. Si sente colpito diritto come da una saetta e sobbalza meravigliato. Non pensa sia reale. Sfarfalla gli occhi per cancellarla o renderla concreta. Conosce bene lo sguardo che l’osserva interrogativo, anche se sono passati circa quattro anni dall’ultima volta che l’ha visto. Non gli sembra vero. Nota l’altro, un giovane, corrugare la fronte, come una esternazione di preoccupazione. Forse non lo ha riconosciuto? Può darsi, dopo tutto quel tempo e i cambiamenti che il fisico ha subito.
Passano pochi secondi che sembrano secoli. I due si scrutano a vicenda increduli. Poi chi lo guarda alza la mano per farsi notare, anche se non c’è bisogno visto che si sono visti bene, e si avvia a passo svelto nella sua direzione. Francesco rallenta fino a bloccarsi, lascia cadere il bagaglio sul pavimento. È smarrito, pronto a scappare senza nulla o a corrergli incontro e buttarsi in quelle braccia. In un attimo gli vengono quei due pensieri contrapposti. Non fa né l’uno né l’altro. Resta praticamente fermo. Congelato nel posto e con l’espressione assunta al momento della sorpresa.
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