Come il nome, il suo destino pare segnato dalla consuetudine del luogo dove vedrà la luce. Minatore come il padre, magari in Svizzera, o casalinga come la madre, fissa in paese ad aspettare il marito emigrante. Si sposerà in entrambi i casi e farà una nidiata di figli, com’è usanza in questo angolo sperduto della Calabria: almeno quattro o cinque.
La tradizione della famiglia Treolo, ormai alla quarta generazione, proseguirà con i figli e probabilmente anche dopo con i nipoti.
«I figli sono ricchezza» aveva detto suo marito alla notizia della gravidanza, senza preoccuparsi delle modeste dimensioni della casa: due stanzette, oltre a un cucinino e una specie di gabinetto ricavato in una buca in un cantuccio della vicina stalla. Né si era angustiato di immaginare con che cosa quei figli sarebbero cresciuti. «Dove mangiano in quattro, mangiano in cinque» aveva concluso.
Però con quali soldi avrebbero fatto tutto questo non lo aveva mai accennato, non sapendolo neanche lui. È pur vero che basta poco per vivere, almeno nella loro borgata. Ultima striscia di terraferma prima dello Ionio, nelle notti di calma vi si possono sentire i tam tam delle tribù africane dalla costa opposta, che più tardi si trasformeranno in disperate urla di morte in quel mare divenuto un cimitero.
In questo microcosmo, tutto confinato entro le pendici della collina su cui è adagiato il borgo, il mangiare, pur facendo parte della vita, non è tra gli aspetti più importanti. A colazione basta una tazza di latte della capra o della pecora allevata nella stalla, in cui inzuppare pane duro fatto in casa. Per il pranzo un piatto di pasta col sugo o una minestra di fagioli con dentro carne di maiale conservata in salamoia. Per cena invece si alterna: frittata di patate o patate bollite contornate da cipolla e condite con olio di oliva oppure patate fritte con peperoni, melanzane e salsiccia.
Francesco Treolo sta tornando in Calabria pervaso da una inusuale inquietudine poiché è stato quasi obbligato a fare questo viaggio.
«Prendi l’aereo fino a Lamezia, poi vai a Reggio col treno oppure noleggi un’auto che ti permetterà di raggiungere direttamente il paese» gli hanno ribadito più volte la moglie e i figli, visti i tempi di percorrenza, ma non c’è stato modo di convincerlo.
Ha deciso di andare in treno nel momento stesso in cui si è convinto a partire, e così ha fatto.
È stata una scelta priva di condizionamenti e senza un apparente motivo. Sono più o meno trent’anni che non percorre quel tratto ferroviario, essendosi adattato alle nuove abitudini di viaggio degli italiani. Ormai spostarsi in macchina o prendere un aereo non è più un’abitudine da ricchi. Le compagnie aeree propongono offerte economiche vantaggiosissime.
Non è pentito della scelta, anche se si tratta di un viaggio lungo e vissuto con una incancellabile agitazione interiore.
In testa gira come una trottola la telefonata ricevuta alcuni giorni prima dalla Calabria. Apparentemente senza senso, lo aveva turbato nel suo intimo provocando un’inquietudine in tutto il corpo tale da non riuscire a nasconderla neanche alla moglie.
Quel maledetto giorno era in studio, intento a riflettere su una perizia che stava completando, quando era squillato il cellulare. Saranno state le cinque del pomeriggio. In sovraimpressione sul display era apparsa la scritta sconosciuto. Di solito non rispondeva ai numeri ignoti ma quella volta, senza un plausibile motivo, aveva attivato la ricezione.
«Cicciu, sugnu u zi’ Petru. Staiu murendu, ma prima ti vogghiu vidiri pirchì ndaiu nu rigalu pi ttia. [Francesco, sono zio Pietro. Sto morendo, ma prima voglio vederti perché ho un regalo per te.]»
La voce che proveniva dall’altro capo del telefono era stanca e Francesco l’aveva percepita come un rantolo. A sentire il nome aveva collegato immediatamente quell’uomo al suo passato e aveva cercato istintivamente di ricordare i fatti che lo coinvolgevano. Sul momento aveva avuto un turbamento, un senso di paura, ma si era ripreso subito e aveva risposto con un tono meravigliato. «Zio Pietro! Come state? È tanto che non ci sentiamo.» Inconsciamente aveva dato del voi a quell’uomo, com’era uso ai suoi tempi al paese.
«È na vita chi non ndi sintimu. Staiu mali, u cancru mi sta mangiandu vivu, ma ti vogghiu dare na cosa chi t’apparteni. Ti spettu, venimi a truvari, ma fai prestu perchì u tempu è pocu… Salutimi to mugghieri e i to ddu figghi [È una vita che non ci sentiamo. Sto male, il cancro mi sta mangiando vivo, ma ti voglio dare una cosa che ti appartiene. Ti aspetto, vieni a trovarmi, ma fai presto perché il tempo che mi resta è poco… Salutami tua moglie e i tuoi due figli]» e aveva staccato il telefono senza attendere risposta. Dando per certo che Ciccio sarebbe andato a trovarlo.
Francesco era rimasto ammutolito e con il telefono in mano aveva riflettuto sulle parole appena ascoltate: apparentemente cordiali, nascondevano una minaccia. Aveva pensato che quell’uomo stesse farneticando. Non poteva avere nulla di suo e non avevano niente da dirsi. Di questo Francesco, riflettendoci bene, era sicuro. È proprio così, si era detto e aveva chiuso gli occhi tirando indietro la testa. Quell’atto aveva inconsciamente risvegliato vecchi ricordi rendendoli più vivi. Presto gli era venuto in mente un episodio e subito dopo si era reso conto di non poter cancellare la telefonata dalla memoria e far finta di nulla. Pietro Condello era un ’ndranghetista, anzi, le voci lo avevano sempre indicato come il capo dell’Onorata Società della zona e per questo era conosciuto e chiamato con rispetto zi’ Petru. Perché si interessava a lui? E proprio ora che stava morendo?
Francesco aveva riflettuto bene e pur volendo scacciare quanto gli tornava in mente, alla fine si era convinto che uno solo poteva essere il motivo: i fatti del torrente di Lardaria. Nel tempo li aveva spinti nel più profondo della sua anima e aveva imposto alla sua mente di cancellarli. In quel momento si era accorto che non erano stati per niente eliminati ma, anzi, custoditi a futura memoria.
Da quel lontano giorno, fino a quando era rimasto al paese, aveva sempre evitato zio Pietro e, a parte qualche saluto a distanza con un’alzata di mano, non aveva mai più avuto contatti con lui.
La prima reazione era stata di non ubbidire al comando mascherato. Aveva fatto una scelta precisa oltre quarant’anni prima e se aveva avuto la forza per farla, allora poteva averla anche quel giorno per ignorare l’intimazione velata di cordialità.
Aveva ripetuto a se stesso, a voce alta per dare più vigore a quanto stava pensando: «Non mi sogno minimamente di andare in Calabria, e poi per che cosa? Per vedere un malavitoso assassino?».
Però non era tranquillo. Ricordava i tanti aneddoti narrati su quell’uomo e la sua intimidazione, sotto forma di una garbata richiesta, non era da sottovalutare. Aveva incominciato prima a essere soverchiato da una certa agitazione e poi ad avere timore, non per sé, ma per la sua famiglia. A un certo punto gli era venuto spontaneo chiedersi: Come diavolo avrà fatto ad avere il mio numero di cellulare?
Dalla flebilità della voce gli era parso che l’uomo stesse veramente male. Però era anche conscio che una persona con i suoi precedenti non ha bisogno di essere in forza per colpire: basta dare un ordine.
Malediceva la sua origine e l’essere nato in quella terra dove la legge spesso non era quella della giustizia, ma della delinquenza organizzata. Era andato lontano apposta, per costruirsi un futuro migliore e non farsi coinvolgere in quella cultura ’ndranghetista, e c’era riuscito. Ora il passato tornava a riprenderlo e cosa avrebbe fatto di lui non lo immaginava minimamente.
Con lo sguardo perso nel vuoto e la fronte corrugata si era soffermato sulla frase Salutimi to mugghieri e i to ddu figghi e l’aveva ripetuta tra sé una, due, dieci volte. E si era preoccupato ancora di più. Che cosa ne sapeva zio Pietro di sua moglie e come faceva a sapere che aveva anche due figli?
Quelle circostanze gli avevano creato dentro un senso di inquietudine che aveva alimentato il timore di vedere coinvolta la sua famiglia in eventi tragici. Immaginava che un uomo così, legato alla ’ndrangheta, potesse essere capace di tutto, e allora la paura che potesse succedere qualcosa alla sua famiglia si era impadronita dei suoi pensieri e piano piano lo aveva pervaso tutto senza lasciargli scampo.
Un momento si convinceva che era meglio dimenticare quella brutta storia e lasciare che la malattia togliesse dalla faccia della terra quel delinquente. Però l’attimo dopo si persuadeva che una tale decisione non era quella giusta, anche perché ignorava il tempo di attesa. Allora aveva cercato di trovare delle spiegazioni che legittimassero l’idea di lasciar fare al destino, però senza risultati concreti. Aveva pensato anche di andare dai carabinieri e denunciare i fatti di un tempo, ma si era domandato quasi subito che cosa dovesse segnalare. Parlo di un omicidio di quasi cinquant’anni fa e di un morto senza nome di cui nessuno ha denunciato la scomparsa? Accuso un vecchio moribondo che mi vuole vedere perché mi vuole restituire qualcosa di mio?
Si era reso conto che nessuno gli avrebbe dato retta, anzi, forse lo avrebbero deriso e preso per matto. Per cui si era persuaso ancora di più di non poter ignorare la telefonata.
La sera a tavola era irascibile, ogni cosa gli dava noia. Stava per litigare con la moglie quando, a un certo punto, all’apice della tensione aveva trovato una giustificazione e chiedendo scusa si era ritirato in camera. «Abbi pazienza, Silvia, ma non mi sento bene… perdonami…»
Si era messo quasi subito a letto con la speranza di addormentarsi presto e di svegliarsi la mattina senza quei pensieri per la testa: magari nell’illusione che li avesse vissuti dentro un sogno. Non era stato così: non aveva avuto pace, nella testa risuonavano i toc toc dello scalpitio del cavallo. Gli stessi sentiti al torrente di Lardaria quarantasette anni prima.
Al mattino, di tutti quegli strani pensieri e paure non aveva detto nulla alla moglie e neppure le aveva dato una spiegazione capace di giustificare un viaggio così frettolosamente organizzato in un posto tanto lontano, anche se si trattava del suo paese. Tanto più che era prossimo il Natale e trascorrerlo tutti insieme in famiglia era una regola mai infranta fino a quel momento. Perciò aveva detto semplicemente: «Un lontano parente sta morendo e vuole vedermi. Non posso negarmi a uno in fin di vita… Silvia, devo andare in Calabria… al paese».
Né la moglie né i figli avevano insistito per dissuaderlo, pur considerando strana quella decisione. Sapevano che avrebbe comunque fatto di testa sua.
Gli stessi incubi si erano presentati la notte successiva e anche quella dopo e dopo ancora. Solo allora aveva accennato alla moglie della telefonata e, senza scendere in particolari, le aveva parlato di una vecchia storia che, ritornata alla memoria, lo stava angosciando. Aveva concluso il racconto con la convinzione che quel viaggio doveva farlo e al più presto. Sicuramente prima di Natale.
In un primo momento aveva anche considerato di fare tutto in un paio di giorni al massimo: viaggio aereo da Pisa a Lamezia Terme, un salto al paese per l’incontro con zio Pietro e immediato ritorno per la stessa tratta aerea. Poi invece aveva preso corpo nella sua testa l’idea di viaggiare in treno, come trent’anni prima. La giustificazione che gli era venuta in mente è che così avrebbe posticipato il momento dell’incontro. Però dentro di sé sapeva che quella scelta toccava ricordi mai sopiti che avevano a che fare con quanto si portava dentro del suo paese, con quello che era stato il suo passato e con quello che aveva amato di quei posti.
La moglie e i figli avevano cercato almeno di convincerlo a prendere l’aereo, ma Francesco aveva già deciso e non c’era stato nulla da fare.
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