Ogni primavera arrivavano a Sidi Ifni dal Sahara carovane di berberi incappucciati con i loro burnus e si accampavano poco lontano dalla spiaggia. Di giorno si sparpagliavano nel mercato e magicamente per tutto il villaggio iniziava a fluttuare un intenso profumo di menta. Salwa Ait Hellal portava i suoi bambini a passeggiare tra le bancarelle e, quando gli uomini la chiamavano per farle vedere la mercanzia, scopriva appena la mano, decorata con sottili linee di henné, e tastava la frutta. Allora la piccola Nuha, nascosta sotto il niqab della mamma, allungava la mano e sgraffignava qualche dattero, per morderlo in fretta e furia con i dentini da latte. Molti di quegli uomini non parlavano neppure arabo, ma Ameen aveva imparato presto a cogliere le parole chiave che la mamma usava per chiedere i prezzi del cuscus e dei tessuti. Ora, a distanza di anni, si ricordava ancora come dire grazie, come dire basta, come implorare di smettere. Guardava i loro visi magri e si chiedeva se qualcuno di loro assomigliasse a suo padre. In tal caso avrebbe forse capito, osservando i loro occhi, perché avesse deciso di tornare nel deserto e abbandonarli ad una vita da reietti. La mamma non aveva mai voluto parlare dell’argomento; era una donna forte ed accettava il volere di Allah a denti stretti.
Salwa aveva iniziato ad indossare il velo a quindici anni e quel primo pomeriggio, camminando per strada si era sentita invincibile. Era andata con la madre a prendere acqua al pozzo, irriconoscibile agli occhi di chi fino al giorno prima le accarezzava i capelli e le sorrideva teneramente. Ora era una donna. Si guardava negli specchi del mercato e apprendeva a sbattere le palpebre con delicatezza, a far trasparire la sua bellezza dai dettagli. Sua madre ripeteva che il dono che Allah le aveva fatto doveva essere curato come un fiore, fino al giorno in cui l’uomo giusto si fosse guadagnato il diritto di scostare quel velo e guardarla nuda di ogni apparenza.
Un anno dopo erano arrivati dei nuovi viandanti dalle oasi del Mali. Allora le carovane arrivavano molto più spesso alla costa, perché gli spagnoli non avevano ancora applicato i dazi sulle vendite, e si fermavano anche intere settimane. Sua madre l’aveva messa in guardia dall’invaghirsi dei berberi: non le avrebbero mai potuto portare la stabilità che si addiceva ad una donna sposata e molti di loro non rispettavano neppure le leggi del Corano. Eppure, le piccole regole che vietano sono molto spesso quelle che incoraggiano alla trasgressione e Salwa aveva pensato proprio a questo quando una sera tiepida di maggio fu trascinata da un giovane berbero lontano dal centro della città, sotto un albero di olive. Lui aveva disteso il suo mantello a terra e l’aveva fatta sedere. Con un gesto leggero le aveva abbassato il velo decorato di ciondoli e scoperto le labbra. Un brivido di paura l’aveva scossa mentre la baciava e le toccava il seno; si era chiesta se fosse pronta davvero a violare le leggi dell’onnipotente, poi si era lasciata spogliare.
La luce del Marocco sembra venire da ogni punto del cielo. Non vi sono ombre, né sfumature. I colori non si mischiano. Il rosso è rosso. Il sabbia è sabbia. A Sidi Ifni l’aria fresca del mare soffiava sempre primavera e, quando quella primavera il ragazzo era tornato verso il deserto, Salwa non era più sola sotto il suo velo verde. Sua madre era stata chiara. «Se quel berbero è un vero uomo, come vuole far credere, è ora che si prenda le sue responsabilità e venga a crescere il figlio che ti ha dato!» Salwa era consapevole di cosa succedeva alle donne nubili con un figlio.
Quando l’anno successivo tornò, Salwa gli presentò il piccolo Ameen e concordarono di prendersene cura insieme. Eressero una baracca di speranze e malta bianca, nella parte alta del paese, che guardava l’oceano. Fu in tale periodo che Salwa realizzò come un velo potesse proteggere dagli sguardi indiscreti, ma anche celare i segni di una realtà orribile. Quando rimase incinta per la seconda volta provò ad abortire usando un ferro da cucina, ma sua madre la sorprese e la percosse.
Una notte, sotto il cielo stellato, il padre di Ameen e Nuha mise in groppa a un cammello grigio tutte le sue cose e se ne andò. Non lo videro mai più. L’inverno successivo fu stranamente caldo: contribuì a dare un senso di immobilità alla vita di una giovane donna abbandonata. Salwa divenne malinconica e sfuggente, parlava di rado e cambiava niqab ogni settimana per non farsi riconoscere. Tutto ciò che al villaggio si sapeva di lei era dovuto ai racconti della nonna, che una volta alla settimana risaliva la via principale del paese, fino ad uscire dall’abitato e arrivare a quel cubo spoglio sulla collina.
Tra le mura di casa, fresche e sicure, Ameen e Nuha giocavano spesso con i veli della mamma. Quel gioco innocuo divenne col tempo un’ossessione per loro. Tutte le sere, Ameen chiedeva a sua sorella di avvolgerlo in quella stoffa colorata e fare finta che fosse una donna. Nuha fu felice di farlo per molto tempo, senza chiedersi il perché, piegando le stoffe con grazia sul suo viso e applicandogli una polverina brillante intorno agli occhi. In quel gesto di femminilità Ameen si riteneva completo. Salwa Ait Hellal li guardava compiaciuta, permettendo loro di fare quello che desideravano. Mentre massaggiava il cuscus con le mani canticchiava. Voleva che almeno i suoi figli si sentissero liberi.
Una volta uscirono dalla finestra di nascosto e scesero fino alla spiaggia, a notte fonda. Nuha corse fino al bagnasciuga e mise i piedi in acqua. Poi guardò il fratello e si tolse i vestiti, scoprendo il corpicino acerbo. Aspettò che lui facesse lo stesso.
«Spogliati!»
Ameen si toccò la pancia. «Vorrei essere come te.»
«Già lo sei, fratellino.»
Lui scosse la testa e si spogliò. Nuha guardò il suo pene e gli andò incontro, fino ad essergli di fronte. Poi prese le sue mani e spingendosi sulle punte lo baciò sulla bocca. Non avrebbe dimenticato la sensazione di pulito sulle labbra, mentre lei lo trascinava in acqua correndo. Ameen pensava spesso a quel bacio: l’unica donna che avesse mai baciato, se così si poteva chiamare una bambina tutta ossa che condivideva il suo stesso sangue.
Dopo l’episodio della spiaggia, al compimento dei dodici anni di età, Nuha ebbe la sua prima mestruazione. La prima persona a cui si rivolse non fu la mamma, ma Ameen. Quella mattina si svegliò presto e andando in bagno trovò del sangue sulle mutandine. Quando si sedette sulla tazza capì che quello di cui le aveva parlato spesso la mamma si stava avverando. Allora si pulì, si mise un paio di mutande pulite e tornò in letto. La pancia le faceva male. Svegliò Ameen e si mise sotto le coperte con lui.
«Sono diventata grande» gli disse sospirando.
Poi accese la luce e gli fece vedere le prove della sua maturità. Ameen si stropicciò gli occhi. Quel giorno, guardando quelle mutandine sporche di sangue, percepì un forte vuoto allo stomaco. Improvvisamente si sentì incompleto, profondamente sbagliato. Quando parlarono con la mamma lei li rassicurò. Ameen guardava Nuha farle domande e la mamma spiegarle dettaglio dopo dettaglio come funzionava, cosa avrebbe dovuto fare, cosa non fare. Ciò che però rese ancora più importante quell’evento fu il fatto che Nuha volle iniziare ad indossare il velo. Così il giorno dopo si recarono insieme al mercato e comprarono una stoffa arancione bellissima, che divenne il suo niqab preferito. Salwa Ait Hellal, quella sera stessa, sentì Ameen piangere di nascosto. Quando gli chiese che cosa fosse successo lui rispose che non voleva essere un maschio. Voleva poter indossare anche lui il velo, avere un corpo completamente glabro, avere le mestruazioni. Ora che Nuha era diventata una donna, non sarebbe mai più stato lo stesso tra di loro, un equilibrio si era spezzato. La mamma non ebbe il coraggio di dirgli nulla. Pensò molto nei giorni successivi, ma sembrava che ogni soluzione finisse per stravolgere le leggi fondamentali del mondo.
Fu ancora Nuha a prendere l’iniziativa. Un giorno tornò a casa da scuola con un’amica e camminò con lei lungo la via del centro, passando di fronte alla moschea, alle bancarelle del pane, fino ad arrivare in cima alla collina. Quando la mamma aprì la porta per farle entrare, Nuha indossava un hijab leggero color rosa e la sua amica un niqab verde scuro che lasciava trasparire solo gli occhi. Salwa, guardando quell’espressione, non fu persuasa neppure per un istante, le prese per le braccia e le trascinò dentro. Diede a entrambe uno sculaccione e alzò il velo della bambina rivelando Ameen. Non aggiunse nient’altro e tornò nell’altra stanza. Da quel giorno Ameen cominciò a vestirsi sempre con il velo e a saltare scuola.
Passava la maggior parte del tempo tra le pietre scottanti della collina o vicino alla spiaggia, e lui e Nuha furono talmente bravi ad attuare la loro scenetta, che nessuno se ne accorse per lungo tempo. D’altronde, Ameen era piuttosto basso di statura e non aveva ancora cambiato la voce. L’unica a scoprire la verità fu Hasna, un’amica di Nuha che andava spesso a casa da loro. Un giorno le aveva confessato di avere una cotta per suo fratello, allora Nuha si era scossa e aveva detto: «Io non ho nessun fratello.» Hasna aveva abbassato lo sguardo avvilita: quel giorno perse una cotta e guadagnò un’amica in più.
Le tre fanciulle uscivano spesso coperte dai loro veli per andare alla sorgente termale dove sorgeva il hammam. Nuha era diventata una vera ambasciatrice per Ameen: aveva convinto le tre donne che lavoravano presso la struttura a tenere tutto segreto. Così, le mettevano sempre in una stanzetta a parte e quando entrava la raschiatrice per cospargerle di sapone e unguenti, si spogliavano e facevano finta di niente. Un brivido percorreva la schiena di Ameen quando la donna posava le mani sulle sue cosce tese. Era bello essere toccati, essere raschiati del peccato che lo accompagnava ad ogni ora del giorno. Sentirsi puliti.
Ameen era circondato dalle donne. Donne risolute, ma che si erano abituate a vivere nell’ombra. Era cresciuto tra le donne ed aveva imparato a comprendere il sottile equilibrio che le legava e la rete di aiuti che tessevano tra casa e casa. Gli uomini di Sidi Ifni non potevano immaginare ciò che succedeva a loro insaputa. C’era Nusayba Benharti, che tutte le sere, quando suo marito scendeva alla spiaggia all’unico locale dove si potesse ottenere del vino, preparava un vero e proprio palchetto sul terrazzo della sua abitazione e ballava per ore facendo pagare l’ingresso a chiunque volesse assistere. Nessuno si faceva sfuggire il segreto, che se per qualche ragione il marito ne fosse venuto a conoscenza, tutto lo spettacolo sarebbe andato a farsi friggere. Nusayba ci pagava i libri ai suoi figli con quel che guadagnava o altre volte comprava gli unguenti che le facevano avere la pelle più bella del paese. Quei rimedi di erbe li comprava da Souad El Manjaoui ‘Utba, che aveva contatti con i migliori botanici dell’Atlas e che si occupava da sola di gran parte delle importazioni dal nord. Il tutto era chiaramente sotto il vessillo del marito, che però era conosciuto in paese come un incapace e impotente. C’era poi Taroob Chraïbi, che si vociferava avesse un rapporto sentimentale con un politico di Meknès. Le altre levatrici la vedevano allontanarsi verso Legzira una volta al mese e tornare la mattina dopo con ciondoli di pietre sul velo.
Ameen si era ormai lasciato crescere i capelli, aveva tolto tutti i peli del corpo ed imparato a muoversi in maniera più femminile. Tuttavia, viveva ancora in una menzogna, il cui peso diventava più gravoso ogni giorno che passava. Gli uomini del paese non avrebbero mai potuto accettare la sua condizione. Non riusciva a fare a meno di pensare al suo pene. Era lì, in mezzo alle sue gambe e c’erano dei momenti in cui avrebbe voluto strapparselo. Con il tempo diventava sempre più grande e difficile da nascondere. La sua voce cambiò a tal punto da costringerlo a non parlare quasi più. La parte più difficile veniva quando non era con sua sorella e la mamma lo mandava a fare la spesa al mercato. Le occhiate dei commercianti erano sempre sospettose. Arrivò persino a credere che qualcuno di loro fosse attratto dal fatto che non pronunciava una parola. Li coglieva in flagrante mentre lo fissavano allontanarsi; loro si ricomponevano e servivano un altro cliente.
Il mercato era per Ameen un luogo di disagio e al contempo dove trovava una certa serenità. A volte era il centro dell’attenzione, a volte era invisibile. Ciò che però amava di più del mercato era che gli dava l’idea che tutto fosse in movimento. Se c’era qualcosa di nuovo a Sidi Ifni, bisognava cercarlo lì. Camminare tra le bancarelle era come osservare una mappa del mondo, che ne mostrava la diversità, l’abbondanza. Colori, profumi, lingue diverse.
Ad aprile era arrivata una donna dalla Spagna, che però non era vestita come le mogli dei soldati a cui Ameen era abituato. Portava ciondoli in testa, sonagli sulle caviglie ed aveva la pelle olivastra e gli occhi verdi. Si fermò al mercato per una settimana ed Ameen andò ad osservarla tutti i giorni. Se ne stava appoggiato ad un carretto in disparte. La donna non aveva bancarelle con sé, né prodotti da vendere, ma un solo oggetto, tanto semplice quanto complesso, intrecciato tra le sue dita: una marionetta. Era una marionetta vestita di colori sgargianti, con uno sguardo gioviale dipinto sulla testa tonda. Ameen la osservava tanto da credere quasi che potesse sorridere dopo un po’, poi piangere, poi rispondere a delle domande. La marionetta ballava, instancabile, faceva piroette e inchini. Il pubblico la guardava stregato. Per ore la burattinaia muoveva le mani leggera, senza alzare mai lo sguardo, fisso sul legno, come avesse di fronte una figlia, una creatura a cui dava vita. E forse lo faceva davvero e Ameen, guardandola tendere e distendere quei fili bianchi, si chiedeva se la sua anima fosse nel suo corpo o in quella piccola marionetta di legno. Quando una mattina passò di fronte a quell’angolo e vide che la donna se n’era andata, fu come se ad un tratto fosse scomparsa una parte del suo tempo.
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