Chissà quali malvagi pensieri albergavano nella sua mente, quali oscuri piani stava tramando, quando innanzi a lui si parò il messaggero. Subito, un bagliore improvviso di vita percorse gli occhi del Signore della Furia e un’ombra, come fosse un arto, si prolungò dalla sua figura circondando il nuovo arrivato; questi, sudando e tremando vistosamente, cercava di essere a suo agio, così, accarezzato dal male che gli lambiva l’anima.
«S… Signore, porto nu… nuove no… notizie».
Solo quelle poche parole richiedevano un coraggio indescrivibile se pronunciate alla presenza di una tale persona, o meglio, entità.
«Sto aspettando.»
Una voce cavernosa, maligna e antica, percosse il povero messaggero, un Goblin sparuto, dalle lunghe orecchie e il naso adunco. Il timore di spazientire il Signore della Furia fu più forte della paura di stargli innanzi, e il messaggero ritrovò un po’ di sicurezza. Schiaritosi la voce, disse: «Sì è mosso, signore. Sono partiti ieri diretti a Vargas».
Nessuna reazione seguì. Solo un terribile silenzio terribile. E proprio allora, in preda all’ansia acuita da quel sordo ghiaccio, il messaggero commise un terribile errore.
«Signore, posso and…»
«CHI TI HA DETTO DI PARLARE, PICCOLO SGORBIO?»
Fu peggio di un maglio. Un vento impetuoso, una potenza invisibile, colpì il Goblin violentemente, scaraventandolo lontano dal Signore della Furia e dalla sua vista schiacciante, nelle viscere del buio più profondo. Del messaggero rimase solo l’eco di un urlo sgraziato di dolore.
Quando anche quel suono si spense, le tenebre ripresero a convergere verso il loro sovrano. L’aura oscura cominciò a contorcersi lentamente. Una mente maligna, un intelletto acuto e straordinario si era messo in moto.
Perché il male è tutto, tranne che stupido.
In quel covo d’ombra, con la pazienza di chi dispone di ben più di una vita umana e mortale, il Signore della Furia rimase a meditare.
Il frutto più fecondo del male. Pensieri di tenebra.
CAPITOLO II
L’ASSEDIO DI VARGAS
Un’orda selvaggia e infinita. Così era parsa agli abitanti di Vargas l’armata dell’Esercito Oscuro giunta per distruggerli. Da mesi non arrivavano più notizie dalle terre a est. Nessuno sapeva cosa stesse succedendo, quali sarebbero state le successive città attaccate né dove fosse il nemico. Una cortina insondabile di dubbio lacerante e paura profonda. Poi, all’improvviso, una caligine grigia e opprimente si era abbattuta sulla città, nascondendo il sole, che di lì in avanti sembrò non sorgere più. Dall’orizzonte d’oriente, a un tratto, sembrava calare la notte: una linea continua e indistinta; una marea in arrivo. E a mano a mano, la linea cresceva, e aumentava, e si avvicinava, inesorabile e minacciosa. Suoni selvaggi iniziarono a giungere agli abitanti della città, portati dal vento. Suoni gutturali di odio e guerra. Prima venne il terrore: appena si sparse la voce dell’avvistamento nemico, tutti fuggirono senza sapere dove andare, totalmente in preda al panico. Le donne abbracciavano i figli piangendo, come se in quel modo avessero potuto proteggerli; mentre gli uomini impugnavano fiaccamente le armi e nascondevano gli averi. La seconda reazione fu un riflesso naturale: l’automatica tendenza a reagire a un attacco rinchiudendosi entro luoghi fortificati. Erano stati subito richiamati tutti i cittadini all’esterno delle mura, con animali e viveri. Tutto ciò che veniva trovato, purché commestibile, veniva trasportato nei magazzini della città, in previsione di un assedio lungo e terribile. Le mura erano alte e solide, ma nessuno si faceva troppe illusioni e l’istinto di sopravvivenza prevaleva su tutto.
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