L’uomo gabbiano
Era ormai da qualche anno che non vedeva più il suo mare. Una volta l’estate per lui significava raccogliere le sue poche cose, salire in auto e partire con la moglie verso la casa delle vacanze. La vita iniziava lì, con gli amici per giocare a bocce, il sole rovente sulla pelle, le onde a cullarlo sul suo materassino, le cene a base di pesce e un buon libro da leggere sotto l’ombrellone.
Poi, d’un tratto e prepotentemente, sopraggiunse la vecchiaia e con essa gli acciacchi, la difficoltà a guidare e la moglie sempre più restia a viaggiare. Cosa significava estate ora? Restare sul balcone a leggere il giornale senza nessuno a cullarlo e il silenzio torrido nel paese. Nessun volto amico a far schioccare le bocce, nessuna barca da seguire con lo sguardo, nessun grido di gabbiano a svegliarlo dai suoi sonnellini e a cena al massimo un po’ di pesce surgelato.
I compaesani spesso lo vedevano sconsolato passeggiare per le strade: canottiera, pantaloncini e bandana, sembrava proprio un villeggiante. Sceglieva sempre le ore più calde per uscire, il sole non lo aveva mai spaventato, gli piaceva sentirlo bruciare sulla sua pelle che era ormai diventata una dura corazza.
Ogni tanto andava in biblioteca, si sedeva su una poltrona e prendeva il giornale. Scorreva velocissimo le notizie e poi si soffermava sulla pagina del meteo: con lo sguardo cercava i nomi di tutte le città di mare per vedere com’era il tempo laggiù e se c’era sole era contento, piegava il giornale soddisfatto e se ne tornava a casa.
Altre volte si fermava al bar a bere acqua frizzante con una fetta di limone e chiedeva sempre alla cameriera dove sarebbe andata in vacanza quell’estate o dove era stata. Voleva sapere tutti i dettagli di com’erano state le giornate, se si mangiava bene, se la spiaggia era di sabbia o di sassi e se aveva trovato meduse.
Qualcuno l’ha visto l’altra sera, seduto su una panchina davanti al laghetto artificiale vicino casa sua: il suo sguardo era assorto e la schiena era ben dritta sullo schienale in legno. Se qualcuno si fosse avvicinato avrebbe di certo notato che teneva in mano una conchiglia e a volte la avvicinava all’orecchio, come se fosse un telefono.
Il treno e il bambino
La domenica mattina era sempre stato un momento speciale nella sua vita di bambino di sei anni. Riccioli neri, occhi furbi, gambe magre e veloci, era il figlio più piccolo nella casa in fondo alla via e ogni momento per lui era buono per correre in cortile insieme agli amici. Si giocava a prendi e scappa, a nascondino o a guardia e ladri oppure, con le bambine più grandi, alla famiglia. Si faceva così coccolare e viziare per un po’, per poi correre come un lampo di nuovo verso la campagna, in cerca di nuove avventure. Ma la domenica, e in particolare la domenica mattina, era tutta un’altra storia. Quello era il momento solo dedicato a lui e al suo papà.
«Buona domenica!» si sentiva esclamare cordialmente per le vie. C’era chi andava a pranzo dai parenti, chi partiva per la montagna o per il lago e chi si dirigeva verso la pasticceria per prendere un dolce per la merenda. Padre e figlio passeggiavano piano salutando i passanti e fermandosi ogni tanto a chiacchierare con gli anziani seduti in piazza.
«Porto il bambino a vedere l’aeroporto, ci va matto!» stava dicendo il papà a un signore di circa ottant’anni. Era un po’ sordo, quindi bisognava urlare e questo divertiva troppo il bambino. A volte qualche amico li invitava al bar per fare due chiacchiere e bere qualcosina: un bicchiere di vino bianco per gli adulti e un succo per il bambino. In quei momenti si sentiva proprio un ometto e provava a imitare i discorsi e gli atteggiamenti dei più grandi, cercando di raggiungere il bancone del bar per appoggiarci il gomito. Beveva il suo succo a grandi sorsate, guardandosi attorno con gli occhi marroni spalancati. Poi, un poco impaziente, cercava di attirare l’attenzione dei più grandi, cominciando a parlare di quanto era bello l’aeroporto del suo paese.
«L’aeroporto eh?» gli disse quel giorno il barista. «Lo sai che è stato costruito dagli austriaci? E ha visto ben due guerre… durante l’ultima guerra fu utilizzato anche dalle truppe tedesche e ora invece è scalo di linea civile, per fortuna… basta guerre, basta!» La fantasia del bambino si accendeva ancora di più, immaginando qualche soldato che vagava all’aeroporto.
Sempre più impaziente quella volta disse: «Allora ciao, adesso andiamo sai? Andiamo a vedere gli aerei e se è una giornata fortunata vedrò anche passare il treno lì vicino… è una cosa da uomini» aggiunse poi, rivolgendosi alla cameriera, la quale trattenne a stento una risata. Il padre prese quindi per mano il figlio e i due si avviarono chiacchierando verso il piccolo aeroporto del paese. Barista e cameriera continuarono a lavorare indaffarati, ritornando ai loro pensieri quotidiani. Pochi minuti dopo però, si sentì il fischio di un treno… e tutti quelli che avevano sentito il bambino parlare sorrisero.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.