«Io vado al lavoro, ci vediamo per cena» concluse frettolosa, dopo aver lasciato di colpo la cinghia della persiana, generando un fastidioso cigolio.
Che sonno… pensai, non appena udii il portone d’ingresso chiudersi a chiave. Non ho per niente voglia di andare a scuola oggi… continuai sbadigliando, prima di levarmi il cuscino dalla faccia riposizionandolo dietro la nuca, per poi affondarci la testa. Dai, prova almeno ad aprire un occhio mi convinsi, intravedendo la mia gatta, presumibilmente infastidita dal frastuono, scavare per infilarsi sotto le coperte e tornare a dormire.
«Sai… credo proprio che farò come stai facendo tu, Luna» sussurrai, dandole una carezza e coprendomi con il lenzuolo fin sopra la testa. Passò appena qualche secondo, in cui stavo per riaddormentarmi, quando percepii la vibrazione del mio cellulare espandersi per tutto il materasso, oscillandomi dal timpano al cervello. Inizialmente feci finta di niente, spingendo seccato il telefonino sotto il cuscino, ma essa continuava incessante, interrompendosi qualche istante, per poi ripartire immediatamente. Seccato lo afferrai sgraziatamente, arresomi alla sua ostinazione, cominciando a scorrere il dito per provare a rispondere.
«Che c’è?» parlai a fatica, prima di schiarirmi la gola.
«La sera Leon…i e la mattina coglio…».
«Non ce la faccio a sentire queste pessime battute di prima mattina Michael. Per favore risparmiatele» lo interruppi alzandomi dal letto, contrariato, iniziando a raccattare i primi vestiti che trovavo in giro per la camera.
Siamo amici da anni, ma le sue spiritosaggini di questo tipo mi fanno venire l’orticaria ogni volta! dissi tra me e me innervosito e assonnato, mentre a fatica tenevo il cellulare schiacciato tra orecchio e spalla, saltellando su una gamba nel tentativo di infilarmi dei pesanti pantaloni neri della tuta.
«Oggi vai a scuola o balzi come al solito?» domandò amichevole.
«Idee?» chiesi, facendo supporre la risposta.
«Passi a prendermi con il People e raggiungiamo Lupo al centro commerciale?» propose.
«Perfetto, che oggi c’è il rischio che il professore di filosofia interroghi. Mi preparo e arrivo – confermai – Comunque Zio, il soprannome Lupo non si può sentire» scherzai ridacchiando.
«Hai ragione! Dai ti aspetto al solito posto» concluse, dopo una breve risata.
Riattaccato, ficcai il cellulare in tasta, guardandomi poi attorno in cerca di una felpa pulita e le chiavi del motorino, entrambi sparsi nel caos della camera; una piccola stanza con delle grandi finestre da un lato e un lungo armadio, dalle ante blu, che correva attorno alla parete opposta dove, a incastro, era montato un letto singolo e uno scrittoio, sempre in disordine. Stiracchiai i muscoli delle braccia, intorpiditi, e iniziai frettolosamente a rovistare sulla scrivania, gettando a terra tutto quello che non mi serviva.
Maglie… Fogli… elencavo nella mia testa, a mano a mano che lanciavo gli oggetti. Oh, ecco il mio diario, sapevo di averlo da qualche parte! Prima o poi dovrei portarlo a scuola per far vedere che, perlomeno, l’ho comprato, anche se mai usato ironizzai, sorridendo.
Finalmente, qualche istante dopo, trovai le chiavi e un maglione appallottolato, posti poco distanti dalla cartella scolastica, rigorosamente vuota se non per un quaderno mai usato.
Dopo essermi vestito mi lavai i denti, salutai Luna che ricambiò con un miagolio scocciato, dopodiché uscii di casa. Ancora con gli occhi incrostati mi osservai allo specchio dell’ascensore, in attesa di raggiungere il primo piano interrato; la faccia pulita, senza un filo di barba o segni del tempo, era rovinata solo dalle pesanti occhiaie che mi accompagnavano da giorni. Con una mano mi tastai quella zona, quasi a voler cancellare quel colore bluastro-viola sopra le guance.
Devo dormire di più invece di giocare ai videogiochi e aspettare le due del mattino per vedere South Park… dissi tra me e me. Anche se non è che poi dorma molto serenamente… considerai, venendo interrotto dal rumore dell’elevatore che segnalava l’arrivo al piano. Superate due grosse porte rosse tagliafuoco, raggiunsi il garage e recuperai il mezzo, noto con il nome di People; un vecchio e malconcio motorino grigio, con una stella disegnata sul sellino posteriore e chili di nastro adesivo usato per fissare il fanale anteriore.
Infilai le chiavi, misi le cuffiette per la musica, già pronte a riprodurre i System of a Down al massimo volume, indossai il mio fedele casco integrale nero e diedi due poderose spinte alla pedalina d’avvio con il piede, accendendo il veicolo. Sgasai per qualche secondo, così da scaldarlo, prima di avviarmi verso il paesino vicino, dove Michael mi aspettava. Agilmente sfrecciai nel traffico mattutino della periferia milanese, incurante del codice stradale, finché non raggiunsi il mio amico, trovandolo appoggiato a un palo, svaccato. Era leggermente più alto di me, con pochi capelli ma folta barba brunastra, fatta crescere senza particolare cura. Gli occhi piccoli e vispi gli facevano brillare il volto, nonostante le occhiaie che ci accumunavano. Indossava vestiti larghi e scuri, monocromatici, che accentuavano la sua stazza, facendolo figurare particolarmente massiccio. Non appena mi vide fece un pigro cenno con la mano e, con passo flemmatico, si avvicinò ghignante a me, sistemandosi lo stropicciato felpone che gli scendeva quasi fino alle ginocchia. Gli strinsi la mano, prima di dargli il casco blu che avevo portato per lui.
«Prima o poi dovrai comprare un casco più largo» disse, facendo fatica a infilarlo.
«Non è colpa mia se hai la testa gigante!» scherzai, mentre saliva sul mezzo, posizionandosi dietro di me, ripartendo poi rapidamente verso il centro commerciale.
«Da quanti giorni di fila è che non andiamo a scuola?» chiese durante il tragitto, alzando la voce così da farsi sentire nonostante il rumore dell’aria che penetrava nei caschi integrali, nonché la mia musica sempre accesa, che nel frattempo abbassai.
«Ho perso il conto ormai» risposi con gli occhi fissi sulla strada, salendo su un marciapiede per aggirare le macchine in coda. «Comunque, ieri in palestra ti sei perso una caterva di mazzate dal Sifu. Ci ha fatto fare combattimento libero alla fine… sono tutto dolorante» proseguii facendo attenzione a non investire nessuno.
«Ti ha massacrato Zio?» chiese interessato, chiamandomi con quell’appellativo in amicizia, come eravamo soliti fare.
«Abbastanza. Rimpiango i giorni in cui non facevamo un cavolo di sport. Mannaggia a me che mi sono lasciato convincere a iscrivermi» continuai ridendo, saltando giù dal marciapiede per evitare un pedone comparso improvvisamente da dietro un angolo.
C’è mancato poco stavolta pensai con il cuore in gola, guardando nello specchietto il signore che mi sbraitava contro.
«L’avevi visto?» domandò Michael.
«Si si certo, tranquillo» mentii con voce sicura.
Raggiunto il centro commerciale parcheggiai e legai il motorino insieme ai caschi, per poi raggiungere Lupo che ci attendeva al bar, come di consueto. Era di profilo, più alto e slanciato rispetto a me, i capelli castano chiaro e lisci, perfettamente pettinati, scendevano fino al termine della fronte, mettendo in risalto i suoi occhi chiari.
«Ehilà lupacchiotto, come stai?» esclamai, dando una pacca sulle spalle all’amico appena raggiunto.
Si girò sobbalzando, probabilmente colto di sprovvista, e ci fissò. Dopodiché, si batté il petto con la mano due volte, per poi stringere il pugno; il suo caratteristico saluto.
«Che faccia che hai. Non hai dormito?» chiese Michael guardandolo.
«Ultimamente faccio sogni strani. Dormo poco, magari poi vi racconto» rispose con un filo di voce.
«Sarà quel soprannome che ti sei scelto! Alla fine, non è mica un animale notturno?!» scherzai intromettendomi, cercando di risollevargli il morale, a terra da qualche giorno.
«Ha parlato Leon» replicò rapido, sprezzante.
«Dai beviamoci un caffè o rischio di riaddormentarmi» conclusi, tirando fuori diverse monete, così da poterlo offrire a tutti.
Dopo aver fatto colazione, tra una battuta spensierata e l’altra, decidemmo di fare un giro per il centro. Lupo pareva particolarmente distaccato, anche se non comprendevo esattamente la motivazione. Era sempre stato riflessivo e malinconico, ma nell’ultimo periodo questo suo lato si era particolarmente amplificato, provocandogli insonnia e disturbi alimentari, con annesse conseguenze sul piano della salute.
Dato che eravamo tutti e tre appassionati di arti marziali, per svagarci un po’, proposi di andare nel parcheggio ad allenarci e combattere; un modo come un altro per passare il tempo, dato che molto spesso la noia rendeva quelle mattinate peggiori delle lezioni scolastiche. Giunti a destinazioni, dopo esserci assicurati che nessuno guardasse e che lo spazio fosse sufficiente, io e Michael iniziammo.
Il mio avversario partì cautamente con qualche diretto semplice, che facilmente schivai, riuscendo poi a colpirlo al corpo con un calcio laterale. Quando provò a contrattaccare lo anticipai scagliando due colpi di taglio in rapida successione, bloccando i suoi attacchi e immobilizzandogli le braccia.
«Sono troppo forte, potrei battere chiunque» esclamai sogghignando, intanto che lasciavo libero il mio amico, pervaso dall’eccitazione che le arti marziali mi provocavano. «Dai Lupo, vieni tu!» proseguii subito dopo, saltellando sul posto e scimmiottando qualche mossa, imitando uno dei miei idoli: Bruce Lee.
«Oggi passo, non mi va» declinò pensieroso, osservando il cielo parzialmente nuvoloso che si estendeva sopra di noi, perennemente ricoperto da un lieve velo di smog.
«Vabbè» dissi alzando le spalle e stoppandomi. «Comunque, a quando la prima apocalisse zombie o invasione aliena? Almeno spacchiamo le ossa a tutti» continuai cambiando discorso, dando una pacca sulla spalla a Michael e scoppiando a ridere insieme a lui, sperando di far svagare anche Lupo.
«Sì, in un videogioco forse. Nella realtà ognuno di noi se la farebbe sotto al primo millesimo di secondo!» affermò il ragazzo in disparte, con un tono fin troppo serio rispetto alla frase evidentemente scherzosa.
Io e Michael ci guardammo straniti, finché quest’ultimo non prese parola «A proposito di alieni. Avete sentito di tutte quelle segnalazioni di strane luci colorate nel cielo comparse qui in Italia e, se non sbaglio, in Corea. Pare non siano riusciti a trovare una spiegazione razionale per ora».
«Si ho visto su internet. Una di quelle era proprio vicino alle nostre parti» confermò Lupo.
«Girovagando su vari siti e forum si sospetta anche la formazione di un gruppo tra alcuni potenti e intellettuali di tutto il mondo. Alcuni hacker hanno recuperato dei file sospetti» riprese parola Michael.
«Personalmente – mi intromisi – mi sembra la solita storia complottista in stile nuovo ordine mondiale. Buono per la prossima puntata di qualche programma televisivo di serie b su mostri e misteri. Stile gnomo armato di ascia filmato – virgolettai quella parola con le dita – messa in onda qualche sera fa… Ma mai dire mai» conclusi con una vena quasi di speranza.
«Lo gnomo armato d’ascia» fece eco Lupo non trattenendo un ghigno. «Ho visto anch’io quel programma! Potevi tranquillamente essere tu qualche anno fa dopo una serata alcolica» mi prese in giro scoppiando poi a ridere.
«Sarò pure più basso di te ma posso comunque menarti!» controbattei infastidito dalla sua frase, ma allo stesso tempo felice nel vederlo, almeno per un attimo, col sorriso.
Dopo quello scambio riprendemmo ad allenarci per qualche ora, riuscendo a convincere anche il terzo a unirsi a noi. Ogni tanto ci fermavamo per delle brevi pause caffè e dei giretti nel centro, cercando di annoiarci il meno possibile fino all’orario in cui saremmo potuti tornare a casa, ovvero quello di fine lezione scolastica.
Giunto il momento ci salutammo e riaccompagnai Michael alla fermata dove lo avevo trovato.
«Ci vediamo domani» disse il mio amico non appena mi fermai, scendendo e stringendomi la mano, prima di consegnarmi il casco.
«Come sempre» risposi sorridendo, vedendolo poi sparire tra le vie della città.
Impensierito per Lupo, decisi di raggiungerlo, certo di trovarlo al solito parchetto semi abbandonato posto di fianco a dove abitava, al centro di una piccola area residenziale di periferia. Giunto sul posto notai che, come di consueto, non c’era nessuno in quel luogo, fatta eccezione per il mio amico, che rifletteva seduto sulla spalliera di una vecchia panchina in legno, con la testa immersa tra le mani e i piedi poggiati su ciò che restava del sedile, ormai marcito.
«Che ti prende lupacchiotto?» domandai rapido e con tono preoccupato, accomodandomi al suo fianco.
«Non lo so» rispose laconico, alzando il capo e guardandomi di sfuggita.
«Siamo amici da una vita, praticamente fratelli… Non ti starai mica facendo problemi a parlarmi?!» insistetti.
Sospirò. «Non riesco a capirlo, sinceramente – prese parola, insicuro – Non so se sono sogni o altro» disse con un filo di voce, quasi bisbigliando. «Sembra che qualcosa stia cercando di entrare in contatto con me, però… non per me. Sto provando ad analizzarmi ma non ci riesco. Dormo poco, sono senza energia, stanco».
Rimasi in silenzio, ascoltandolo con attenzione in un miscuglio di confusione, preoccupazione e un’inspiegabile angoscia prodotta da quel discorso.
«Mi sento come se avessi la responsabilità di tutto il mondo, forse anche di più, sulle spalle – fece una pausa – Una specie di Atlante, dato che so che ti piace la mitologia greca» continuò, cercando di alleggerire.
Lo guardai, avvertendo nei suoi occhi una sincera inquietudine. «Ma cosa sogni esattamente? Cosa vedi o ricordi?» indagai.
«Una voce confusa. Lampi arancioni e verdi» rispose con lentezza, come se stesse cercando dentro la sua mente, vagando con un lanternino in una foresta senza luce. Si strofinò le palpebre, stringendosi poi il mento con nervosismo, prima di riprendere a parlare: «Sai cosa sono i sogni? Sono i guardiani del sonno. Permettono di resistere alle tensioni del subconscio, riuscendo a restare addormentati e, quindi riposare. Per farlo creiamo eventi, immagini, allegorie, che adattiamo pittoricamente tramite processi di spostamento e condensazione a partire da aspetti, eventi, esperienze che ci hanno colpito o abbiamo colto inconsciamente. Eventi che ci hanno segnato ma che non abbiamo registrato – sospirò – tutto questo ci permette di scoprire cose di noi che non sappiamo o sospettiamo minimamente. Analizzandolo forse potrò capire cosa succede».
Fui scioccato da quell’improvvisa e inaspettata spiegazione, ma ancora di più dal suo atteggiamento serio e preoccupato; amplificato da un tono cupo e da occhi spenti e persi nel vuoto della sua interiorità. Sembrava prosciugato, in conflitto con qualcosa di indefinito.
Per qualche secondo non parlai, poi provai a scacciare quel senso d’inquietudine che mi permeava ironizzando: «Ci credo che fai sogni strani se pensi queste cose! Da dove hai tirato fuori tutta questa conoscenza, che fino a ieri leggevi a malapena le conversazioni dei personaggi nei videogiochi?»
Ridacchiò, stampandosi un lieve sorriso in volto e tornando più sereno dopo quella stoccata, almeno in apparenza: «Lo dice Freud, ma lo sto ancora studiando. Quindi potrei averlo frainteso… ho ancora molto da capire».
«Freud?!» ripetei aggrottando le ciglia, incredulo e stranito nel sentire quel nome. «Perché ti sei messo a studiarlo?».
«Me ne parlò mio padre, a cena con quella sua nuova amica. Le parole di quest’ultima mi hanno affascinato riguardo a quest’argomento, invogliandomi ad approfondire. Quasi quasi studierò psicologia finite le superiori».
«Questa non me l’aspettavo» esclamai meravigliato. «Prima le arti marziali, ora lo studio… non è che stai mettendo troppo la testa a posto? O i tuoi parenti ti stanno plasmando per il futuro?» continuai a scherzare, cercando di sdrammatizzare così da allontanarmi sempre di più dalla serietà e angoscia iniziale.
«Mi stanno preparando alla vita» rispose fiero, prima di voltarsi con il busto e guardarmi negli occhi. «E anche tu, stai cambiando molto ultimamente!».
«Si cresce! Ma non guardarmi così, sai che sono già fidanzato e che mi piacciono le ragazze!» continuai a prenderlo in giro, dandogli una lieve spallata amichevole, facendolo quasi scivolare dalla paca.
«Purtroppo lo so, soprattutto per l’ultima questione» scherzò sorridendo.
«Quindi tuo padre continua a frequentare quella donna che sembra la versione più alta e muscolosa di Wonder Woman?» chiesi subito dopo, tornando al discorso precedente.
Scoppiò a ridere: «Mamma mia Leon, vorrei insultarti da quanto sei nerd, ma non posso perché lo sono anch’io!».
«E perché non c’è nulla da dover insultare per questo!» controbattei rapido.
«Dipende se tiri fuori quel lato anche in discussioni che tentano di essere serie!» ribatté scherzoso, ridacchiando. «A ogni modo no. Non si frequentano come pensi tu, sono solo amici. Almeno per ora – spiegò – Sai, anche se non direttamente, mi sta aiutando molto quella donna, gliene sono grato. Sia per quanto riguarda la mia identità, la mia sessualità… sia consigliando a mio padre strade che potrei percorrere io, così da non gettare la mia vita».
«Come sei profondo oggi!» esclamai sforzando un tono allegro, prima di riprendere: «Comunque, sono contento se tuo padre si dovesse fidanzare con quell’amica – virgolettai l’ultima parola – e mi fa piacere se ti trovi bene a parlare con lei. Per il resto, non preoccuparti troppo. Vedrai che questi sogni sono solo preoccupazioni adolescenziali. Stiamo per finire il liceo, è normale essere un po’ agitati».
«Se lo dici tu» disse con un filo di voce.
«Fidati! Inoltre, non dar troppo peso a stupide mentalità omofobe che ultimamente divagano tra politiche e cavolate del genere. Vai a letto con chi ti pare e come ti pare lupacchiotto, ma usa sempre il preservativo!» proseguii scimmiottando un tono paterno e serioso.
Mi diede un pugno sulla spalla, ridendo. «Grazie Leon!».
Ricambiai il colpo, sogghignando, prima di prendere il telefono e guardare l’ora.
«Ora devo andare, passo a salutare Sara poi torno a casa – presi voce – Direi che se l’anno prossimo vuoi veramente andare all’università, domani ci tocca tornare a scuola, o rischiamo di venire bocciati ancora!» conclusi, saltando giù dalla panchina e tirando fuori le chiavi del motorino, iniziando poi a farle roteare sull’indice.
Fece una smorfia, per poi scendere e salutarmi con una stretta di mano e un rapido abbraccio.
Raggiunsi il mezzo e misi il casco, quando sentii Lupo parlarmi ancora: «Tu non hai avuto strani sogni o sensazioni nelle ultime notti?».
Risposi scuotendo la testa, venendo nuovamente avvolto dall’angoscia a quella domanda, come se ogni volta che ne parlassimo qualcosa si muovesse nella profondità del mio animo, aggrovigliandosi a esso. Quest’ansia è solo preoccupazione nei suoi confronti, Leon mi dissi convincendomene, cancellando e scacciando quell’evento, prima di accendere il motorino e scendere dal cavalletto, lasciandomele alle spalle.
«Che ne dici di vederci dopo domani notte, sempre qui?» gridò, mentre iniziavo ad avviarmi.
Rallentai, facendo un cenno affermativo con la mano destra, prima di ruotare la manopola del manubrio e dare gas, allontanandomi velocemente.
Dopo aver raggiunto Sara e passato spensieratamente con lei il resto della giornata tornai a casa, con una rinnovata serenità che solo un giovane amore può produrre. Appena entrato salutai la gatta, che individuai esattamente nello stesso punto in cui l’avevo lasciata, e mi misi a giocare ai videogiochi fino al ritorno di mia madre dal lavoro.
«Ciao Leon, com’è andata oggi?» chiese indaffarata, iniziando a sistemare la spesa portata in cucina non appena la raggiunsi.
«Come al solito» risposi aiutandola.
«Beh, come sto? Sono passata dal parrucchiere prima di tornare».
La osservai, fingendo attenzione. «Hai i capelli ricci e rossi, come sempre direi» risposi sghignazzando. «No dai, ti prendo in giro, stai bene».
«Fai le stesse battute del tuo patrigno!».
«Si vede che anche Attilio ha un grandissimo senso dell’umorismo» replicai.
«Grandissimo proprio… Vai in palestra stasera?».
«Si, mangio qualcosa prima, poi vado».
«Pensare che fino a qualche tempo fa non facevi sport! Chi devi ringraziare per questa passione?» domandò retoricamente, prendendosi sempre il merito di quella mia scelta. «A proposito, sai chi è passata oggi al bar? – riprese poco dopo – Quella donna con i capelli neri, molto elegante, te la ricordi?».
«Ogni volta che passa me ne parli come se la conoscessi, ma non l’ho mai incontrata io. Né lei, né molti altri che mi citi quotidianamente» risposi sbuffando, sapendo benissimo che quella domanda era una scusa usata per iniziare la tipica discussione sul mio futuro post-scolastico.
«Dovresti incontrarla, è molto intelligente. Oggi parlavo della tua idea di fare scienze motorie dopo il liceo, vista la tua costante pratica delle arti marziali…»
«Non mi dire, vuoi parlarmi dell’università. Strano! – la troncai irritato – Ti ho già detto che è solo un’idea, non so se avrò voglia di studiare ancora, dopo».
«Non è questo che volevo dire, se non mi interrompessi sempre» si difese, cercando di sviare. «A ogni modo, oggi abbiamo parlato di filosofia, partendo proprio dalle arti marziali, delle competenze che sviluppa; il pensiero critico, una differente visione prospettica, un approccio alla vita e alla realtà totalmente differente…».
«Ti sei imparata a memoria le sue parole?» scherzai.
«Sono seria. Credo potrebbe piacerti quella strada. Sei sempre stato empatico e saggio, molto riflessivo e bravo a cogliere e mettere insieme i pezzi… anche se ultimamente vuoi fare il ribelle. Immagina che rottura diventeresti da filosofo! – rise – No sul serio, devi essere preparato al futuro… trovare un buon lavoro».
«Sai che non mi interessano i soldi, posso vivere decentemente anche solo insegnando arti marziali in una palestra».
«Lo so bene che non ti interessano, o non staremmo parlando di studiare filosofia» esclamò spiritosa. «Puoi continuare a insegnare e praticare arti marziali anche studiando filosofia…»
«Ascolta – la bloccai – intanto fammi finire il liceo. Poi vediamo che fare» conclusi, mettendo via l’ultimo pacco di pasta e tornando in camera mia.
***
Avvertii un dolce profumo di susinon permeare l’aria, un piacevole incontro tra rosa, mirra e cannella, ancor prima di udire leggeri passi poco fuori dalla porta della mia stanza. Feci l’ultimo sorso dal calice, ripulendomi poi le labbra macchiate dal denso liquido color cremisi, prima di riporlo sul tavolo e alzarmi in piedi, attendendo l’entrata della mia ospite, ormai in procinto di annunciarsi.
Sentii due tocchi accarezzare la porta metallica, un lieve bussare accompagnato da poche parole con voce materno: «Se lo desideri, avrei piacere a parlare con te».
Aprii l’uscio, facendola accomodare.
L’ospite tirò leggermente in su la lunga tunica bianca decorata con ricami dorati che la avvolgeva completamente, prima di sedersi su una semplice sedia, divenuta divina per il semplice fatto di essere utilizzata da lei. Con un deciso movimento del viso fece ricadere la lunga treccia castana dietro la schiena, liberando la spalla e il petto sui quali precedentemente sostava. Accompagnò il tutto da un sereno sorriso, poco prima di proferire parola: «Finalmente ci rivediamo, mi sei mancata Helen».
Inclinai lievemente il capo, rispettosamente.
«È un piacere rivederti Maestra Atena» dissi con tono pacato, felice nel rivederla.
«Come procede la tua sosta?» proseguì la dea della saggezza.
«In modo adeguato» risposi guardandola negli occhi. «La tua famiglia? Se posso domandare» chiesi qualche istante dopo.
«Dispersi da troppo tempo. Molti solo spiriti ormai. Ho la certezza che uno dei miei fratelli risieda in un anziano Mesotes, residente in un pianeta che visitammo molto tempo fa. L’ho individuato mentre cercavo il fabbro. Aiuterà a plasmare menti adeguate e movimentare quelle annichilite, se lo desidererà. Seppur sia convinta che lo farà, ama troppo il sapere per ritrarsene e non agire, e il sapere è movimento – si fermò per un istante – Continuerò la loro ricerca nel tempo a venire, fino a che ne avrò. Tu hai scelto?» chiese con voce seria, seppur emanando un’avvolgente aura di rasserenante gentilezza.
«Sì» asserì laconica, senza tralasciare nessuno scompiglio interiore.
«Stiamo tessendo i fili di qualcosa che può essere definito destino» disse con un filo di voce, quasi impercettibile, prima di iniziare a fissarmi, amorevole.
Non parlai. Sentivo i suoi occhi glauchi scavare nella mia interiorità, sempre più a fondo, plasmandomi. Quella sensazione mi fece capire quanto lo sguardo altrui induca a un mutamento in noi; a un’influenza che ci lega intersoggettivamente, nonostante dubiti che lei ne possa venire toccata quanto me.
Passò qualche secondo, poi riprese.
«Temi di aver sbagliato, o altro ti disturba?».
Come di consueto era riuscita a leggermi, l’unica che riusciva a farlo, percependo i turbamenti che provavo, nonostante fossi sicura di non aver commesso nessun gesto o espressione che potesse averla aiutata, addestrata da millenni di cultura Cheimatos. Non risposi, mi limitai a incrociare il suo sguardo, sostenendolo.
«Ricordati figlia mia» riprese parola la dea, dopo qualche oculato istante di silenzio. «La paura è un’illusione. Finché non ti alzi e ti trasformi nel padrone del tuo essere, e diventi più grande di lei, resterai schiava della paura per tutta la vita. Non importa dove vai o con chi sei, essa sarà sempre con te. Per vincerla devi affrontarla, perché non c’è luogo dove nasconderla».
Feci un cenno con il viso: «Non preoccuparti Maestra, già troppe catene mi tengono asservita, non ci sarà anche la paura».
Mi avvicinai al tavolo, fissando il rosso accesso del liquido che colmava la coppa, uno dei pochi colori che illuminava l’asettica stanza nella quale risiedevo, prima di dover partire nuovamente. Afferrai il calice, accarezzandolo fino allo stelo, per poi farlo oscillare con delicatezza tra le dita, iniziando a macchiare il bordo interno e creando cerchi perfetti, quasi ipnotici. Rimasi per qualche eterno secondo a osservare quel movimento perpetuo, perdendomi in esso.
«So che è difficile mia cara» continuò, accompagnando quelle parole con una carezza sul viso. Si era alzata con una leggerezza tale da non averla percepita, avvolgendomi poi dal suo profumo e dalla sua sicurezza. «Tutto questo ci serve per assecondare il volere dei Golemaici. Essi detengono un ruolo fondamentale, seppur non lo comprendano a pieno, celandosi dietro a credenze e superstizioni – chiarì – Ma non riguarda solo loro, intuisco qualcosa di più, lo Spirito di un Antico. Gli stessi Rook e la loro leggenda potrebbero essere pedina di questo processo».
«Ne sono consapevole Maestra. Un’intuizione che ci ha condotto qui» la interruppi con garbo.
Annuì con un sorriso: «Ogni Antico che si unisce alla nostra causa è un prezioso alleato».
«Indifferentemente dall’involucro che usa» intercalai con voce pacata.
«Non c’è involucro, ma incarnazione e fusione» asserì sicura, sancendo con il suo tono la conclusione di quello scambio.
Rimasi in silenzio, vagliando nella mente tutte le mie influenze sulla vita di chi avevo scelto, ripercorrendo il suo percorso.
«A ogni modo dobbiamo agire, se lo desideri» parlò nuovamente la dea, poco dopo.
Feci un cenno affermativo, prima di macchiarmi le labbra con il calice, sentendo il denso liquido rinvigorirmi.
Sorrise materna, poi iniziò ad avviarsi verso l’uscio, portando con sé tutta la dorata lucentezza e il calore che emanava. Avvertii il suo dolce profumo allontanarsi, quando si assestò improvvisamente: «Ti stai affezionando?» domandò a bruciapelo a un passo dalla porta, mostrandomi le spalle che parevano scolpite nell’avorio.
«Saranno proprio i sentimenti a farmi seguire la strada giusta» risposi, guardando la sua treccia castana ricadere dritta lungo la schiena statuaria.
«Bene» bisbigliò «Se ami qualcosa, combatti per essa».
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