Sorrido e penso a un amico dei miei fratelli, mingherlino e nella testa ricciola e bionda idee in ricamo disordinato. In sella al suo motorino bianco, giunse una mattina di giugno. Dichiarò, in solennità di giuramento, mettendo a posto le sue borse nella stanza degli ospiti (e anzi piegando negli armadi magliette e bermuda), che sarebbe andato via il giorno dopo, che si sarebbe svegliato di buon mattino, per un viaggio all’interno della Sardegna Un viaggio “etnico” disse forse o qualcosa del genere che lasciò noialtri stupefatti e ammirati mio padre e mia madre. Fu una notte nera e di stelle per tutti e anche per l’esploratore vagabondo.
Il sole era alto, il giorno dopo, e il nostro piccolo amico dormiva ancora. Quella mattina, ben fermo dov’era, apprezzò il pane fresco e il prosciutto in spiaggia. La sera, già rosso di sole, lesse per me e per tutti i fratelli le storie orrifiche di zio Tibia. I giorni passarono quieti e non partiva mai. Infatti non partì proprio. Mammuttones, domus de janas, nuraghe dimenticati, come la guida della Sardegna che mio padre ereditò e che è ancora nella vecchia libreria di casa…
A Monte Pitrosu, poche botteghe. C’era la macelleria di Raspitzu, ma era cara e mia madre preferiva non andarci; al bar, che guardava sull’orientale, con su un’isoletta di marciapiede, dove sedevano sempre un crocchio di anziani (ma a me allora parevano tutti vecchi) si entrava, invece, di malavoglia perché gli occhi di tutti si incollavano ai nostri vestiti, ai capelli biondi, all’abbronzatura. E il silenzio calava pesante, come un sipario di fine atto di una commedia mal riuscita, finché all’uscita, esplosi nel sole, già quasi in macchina, non sentivamo zampillare di nuovo il brusio in una lingua che non capivamo ma che somigliava a un respiro di sollievo, nell’espulsione di corpi estranei.
Di Monte Pitrosu era la Domenica che veniva a dare una mano in casa e portava il bucato. Arrivava a piedi, misurando a passi lenti la spiaggia, alla mattina in boccio, quando il vento non aveva ancora increspato il vetro argentato del mare. Domenica, anzi “ladommennicca”, rotonda, morbida e immacolata, trotterellava su per le scale impervie della villa nostra, un passo alla volta, con compunzione di ballerina, saliva per fare le faccende. Portava una gonna lunga, nera, a piegoline di ventaglio, che si facevano tese sui fianchi generosi; la camicetta, bianca, lasciava scoperta una minuscola “vu”, un balconcino di latte. La catenina con su la croce o forse un’immaginetta sacra era l’unico vezzo. In testa un cencio arrotolato, come una serpe addormentata, faceva da guanciale al cesto del bucato profumato, lenzuola, federe, asciugamani, che riportava a noi, orbi di lavatrice.
A Monte Pitrosu, dove aveva vissuto tutta la vita, abitava in una di quelle deliziose casette sarde che sono a un piano solo, colorate in tinte pastello, e tutte rannicchiate a terra per non sentire, d’inverno, il vento tra i capelli. La Dommennicca, per me, era la notte del mattino. Il lutto eterno. La crocchia s’era fatta sale e pepe, ma la veste sempre notte rimaneva. Ogni anno via un fratello, uno zio, il cugino. Sette anni di lutto in più “nell’armuà, come diceva lei – da sommare a quelli in corso. Una condanna al nero che, però, su di lei diventava allegro come le tonache svolazzanti di certi preti, contenti di essere uomini di Dio.
Aveva cominciato da ragazzetta a vestirsi di tenebra la dommennica. Tanti figlioli aveva partorito, sola sola, in cucina. Alcuni erano volati, innocenti, in cielo. Un’estate se ne volò via anche lei. Vestita di nero. Lei i pomodori li chiamava i “tomati” e l’armadio, appunto era l’armuà, alla francese. Se fossi stata allora quella che sono ora, le avrei chiesto altre parole, avrei preso appunti e le avrei scritte quelle sue parole proto-francesi, forse savoiarde, per studiar meglio il suo italiano. Ma non l’ho fatto. Del sardo di allora, che in molti ancora parlavano, mi resta il “bette” bello, che voleva dir bellissimo e usava un prefisso che somigliava al mio nome in diminutivo.
Anche a Roma avevo la mia dommennica e si chiamava lamimma, diminutivo di Domenica e preceduto dall’articolo perché mia madre friulana ce lo aveva insegnato e a me restò per sempre. Lamimma labetta: io e lei, tutte e due nate nel giorno dell’Immacolata Concezione. . Lanimma, mamma del cuore. Per la Mimma insegnare era imparare ed era verbo transitivo. “Te imparo a stirà”, mi diceva ed era come se mettesse me – proprio io, piccola io – al centro dell’azione e lei, spettatrice, dall’alto mi guardasse mentre apprendevo, diciamo così per osmosi da lei che nulla, però, insegnava, io imparavo. Ho imparato.
Mia madre, al venerdì sera, stendeva la pizza con la pasta che, dal mattino, dormiva svenuta in una terrina. La stendeva, certo, ma quella pasta gonfia, morbida di vita, era frutto del lavoro di mani e di gomito della Mimma, che l’aveva fatta di buon ora, lasciandola poi a riposare, coperta da un panno bagnato. Al pomeriggio, la rimestava già gonfia com’era. E passava, poi, alla battitura. Sollevatala per aria la precipitava sul tavolo con un tonfo che era frustata d’amore, Trentatrè volte, come gli anni di Gesù, mi diceva. Precipitava sul tavolo, in una brina di farina, incanto di porporina di fate. Io: tutta quanta assorta, perduta nel rito del pane. Al paese suo, che guardava sul Parco d’Abruzzo, mi diceva, un forno soltanto c’era e passava al mattino una comare, con la tavola in spalla a ritirar le pagnotte da cuocere al foco. Ogni pane, un disegno. Chi una croce, chi un taglio, chi uno squarcio soltanto. Chi un fiore, diceva, “pane di rosa”. La Mimma, inghiottita dal tempo.
Però una sera, pochi anni fa, rividi ladommennica. Tornavo dal lavoro, a Roma, tra lo strombazzar dei clacson, nel viavai ubriaco del centro a un tiro di sasso da piazza San Silvestro. La vidi camminare tra le macchine, alla maniera di un’apparizione: la gonna come un tulipano nero rovesciato, il nodo dei capelli di pece e di neve. In capo, ondeggiante, il cesto del bucato… Svoltò in via del Pozzetto e sparì, inghiottita dal vicolo e dal sogno.
C’era Vaccileddi, poche case e un ufficio postale che fungeva da nostro “fermo posta”. Piccole case tinteggiate in colori pastello, oppure bianche, abbellite da ciuffi di bouganville, lantane, plumbago, e tutte nello stile cittadino di casa Emme a Cala Girgolu. Vaccileddi riposava – e riposa – sotto un gran masso rotondo, appena allungato in forma di uovo, il quale posato da un gigante dispettoso in cima al monte a far ombra alle spalle del paesino, pareva sempre pronto a ruzzolar dabbasso, ma non lo faceva mai. Ogni anno, mi aspettavo di vederlo precipitato a valle oppure rotolato di un metro o due, che ne so. Invece se ne stava alla cova, tra i pennacchi di verde, e dormiva, accanto alla piccola croce nera che sormonta la vetta, il sonno silenzioso della sua protostoria.
robiscafuri
Solo chi ha respirato certa aria profumata e brezza marina selvaggia conosce, come Benedetta, l’incanto di una terra baciata dagli dei. Ma qui non è soltanto di terra e radici e memoria si tratta. Nel racconto dell’autrice c’è la memoria cristallina come il mare color smeraldo della Tavolara, ci sono i lunghi pomeriggi assolati sferzati dal vento di maestrale, c’è la magia di un cielo profondo come l’universo. Ci sono, infine, gli occhi innocenti di una bambina e una ragazza e una donna che nella magia dell’universo vive e a essa non vuole rinunciare. La Sardegna onirica di Benedetta è la Sardegna migliore, quella dei nostri sonni, delle nostre innumerevoli inquietudini. Un libro da non perdere.
vitantonio bruno (proprietario verificato)
Benedetta De Vito è un scrittrice da sempre, anche da quando non lo sapeva e sulla carta d’identità era scritto: giornalista. Già nel suo lavoro la parola non era un solo uno strumento di lavoro ma l’oggetto di un culto, la sua vera religione: la Letteratura. Non vedo l’ora di leggere Cuoresardo. Vito Bruno
quirino nicola amici (proprietario verificato)
So chi scrive. Conosco il suo rapporto, profondo, intenso, magico con la memoria. So quanto quella Sardegna di un tempo le sia cara, quella Sardegna che forse non c’è più ma su cui è nata e sta crescendo una Sardegna nuova, più orgogliosa e consapevole, che per qualcuno è stata anche un luogo dell’anima.