Guardo il calendario.
Siamo a fine aprile: incredibile che siano passati tre mesi.
Che dire? Sono stati tre mesi lunghissimi, di grande sfida e di sconforto. Tre mesi, dal giorno in cui la mia vita è cambiata radicalmente.
Ma posso dire di avercela fatta: ora respiro a pieni polmoni.
Dal mio balcone, affacciato su una zona residenziale signorile, alla periferia della città, entrano timidi raggi mattutini. È un sole primaverile trattenuto, frenato, che inizia a sbocciare, pian piano.
Come i boccioli di rosa che spuntano dai vasi della mia vicina. Piantati con tanto amore e dedizione, a giudicare dall’accuratezza con cui ha scelto per loro un angolo del suo terrazzino. Un posto speciale, ben visibile dalla strada e dal mio, di balcone.
C’è profumo di vita nuova, di erba tagliata, di asfalto bagnato, frutto dello scroscio di pioggia appena terminato.
La mia vicina di balcone, così la chiamo sbrigativamente da sempre, è al telefono.
Non ricordo quale sia il suo nome. Erika? No, Eleonora. Forse Rosanna?
Non so nemmeno se me lo abbia mai detto o se io glielo abbia mai domandato.
Sono davvero una frana nel memorizzare tutto ciò che riguardi la sfera altrui: nomi, età, eccetera.
Semplicemente, sono sempre stata distratta e ho sempre avuto scarso interesse per le relazioni sociali in generale. Ho sempre pensato che non avrebbero portato a nulla di buono e che le persone si sarebbero volute impicciare dei miei affari solo per poi poterne parlare alle mie spalle con qualche loro confidente. Magari elencando tutti i miei difetti e le mie debolezze. Che io, per tale ragione, mi sono sempre impegnata, con estremo stoicismo, a non lasciar trasparire. Mostrare le mie fragilità non faceva per me: forse perché, in primis, non le accettavo io.
Ho sempre percepito sguardi maligni dietro di me, nonché giudizi inquisitori: che fossero veritieri o frutto della mia perversa immaginazione, questo proprio non lo saprei dire.
Perché in cuor mio ritenevo che tutto ciò che faceva parte della mia persona potesse essere usato contro di me e che io potessi diventare un capro espiatorio, sul quale sfogare le invidie e le frustrazioni altrui.
Mi ero creata uno scudo, una corazza d’acciaio, che lasciasse inaccessibile agli altri la vera me. Che per anni era stata oppressa, repressa e sostituita da una parte di me finta, perfetta, quasi irreale, intangibile.
Vivo in questo piccolo ma distinto appartamento da cinque anni ormai, e a malapena riconosco i visi dei miei vicini. Non sono mai stata nemmeno a una riunione condominiale.
Essere gentile o empatica non è nella mia natura. O meglio, pensavo e fingevo che non facesse per me.
Nonostante ci fossero state moltissime occasioni per fare amicizie o avere relazioni serie, io le avevo rifuggite. Probabilmente il mio agire è sempre stato interpretato come una mancanza di sensibilità, come un’incapacità di provare sentimenti. Come fossi un essere algido, perennemente anestetizzato.
Anche con Damiano.
Ora, però, sono stanca di avere rimpianti. O rimorsi.
Difficile, tuttavia, spiegare alle persone che ho fatto soffrire che, in realtà, non volevo essere io quella a provare dolore. Era solamente un modo per tutelare il mio animo estremamente fragile.
Temevo di poter percepire, nuovamente, quel dolore che squarcia l’anima e che frantuma il corpo in mille pezzi: il dolore del lutto, della perdita, dell’abbandono. Un dolore così forte e invivibile da essere talmente insostenibile e da venire, inevitabilmente, rimosso dalla mente. E con esso il piacere, la gioia, la spensieratezza.
Quindi, scappavo. Era ciò che mi riusciva meglio.
Provo a respirare, pian piano.
Ripenso a come fosse stata triste, vuota e apatica la mia vita, prima di quel momento.
Sì, perché, fortunatamente, in quel tardo pomeriggio di gennaio, è scoppiata e si è ribellata. Perché voleva e doveva essere vissuta. Anche se io, in quel momento, pensavo esattamente il contrario: cioè, che la mia vita fosse giunta al termine.
Solo ora riesco a capire che anche la mia, di vita, nonostante sia sopravvissuta a una grave perdita, meritava allora e merita tuttora dignità. Essa vale la pena di essere vissuta, essendo vita in quanto tale.
La mia vicina è una donna sulla quarantina, sposata e madre di una figlia bellissima.
Io non ho figli e non ne ho mai voluti, ma ho sempre erroneamente avuto la convinzione che chi li avesse, proprio perché derivante da una scelta personale, non potesse esserne infelice e, di conseguenza, lamentarsene.
Incredibile come io sia sempre stata così fredda e categorica: o bianco o nero. Zero sfumature.
Cercavo sempre di scappare dai vincoli o dai legami, di qualsiasi genere.
E ora, pare strano pensare come potessi essere la stessa persona che sono ora, prima che quel giorno modificasse radicalmente la mia vita. Incredibile come un evento sia in grado di demarcare un confine netto tra un prima e un dopo.
Prima, appunto, tenevo tutti a distanza: una distanza tale da non permettere a nessuno di accedere al mio pensiero, al mio intimo, dove aleggiavano insieme, tra mille altre fobie e ossessioni, sofferenza e paura. Ero convinta, mio malgrado, che quei legami, in un giorno o nell’arco di un’ora, si sarebbero potuti spezzare, senza poi tornare mai più indietro. E io non avrei più potuto sopportare il dolore e la sofferenza atroce di perdere qualcuno.
Non un’altra volta.
Nemmeno l’amicizia poteva essere un rapporto speciale o positivo.
Per me, categorica e ossessiva quale ero, il mondo si divideva in due grandi macroaree: una utile, in cui incasellavo situazioni che potessero arrecarmi soddisfazione personale, e una che definivo tossica, composta da ciò che potesse danneggiarmi.
E in quest’ultimo strano e contorto schema mentale, avevo inserito per tanto tempo anche i rapporti umani.
Presumo che la mia vicina stia discutendo al telefono col marito circa una questione di voti a scuola, o forse di compiti. Conversazioni in sottofondo, quasi impercettibili dalla mia finestra, che emanano, però, sana preoccupazione, apprensione. Insomma, che profumano di madre. Una madre che sembra essere attenta, presente, ma sofferente, credo. Forse perché sola, con troppe responsabilità e poca voglia di vivere.
Mi avvicino.
Di certo, come dicevo, ha una grande passione per le piante: il suo balcone è fine ed elegante, c’è grande cura, a differenza del mio.
Ora riesco a intravedere anche lei.
Si direbbe non dedichi la stessa attenzione a se stessa: indossa, infatti, una felpa sgualcita e leggings malandati; ha i capelli agganciati con una molletta, impreziosita con degli strass. Sarà della figlia.
Non teme di essere giudicata per il suo aspetto disordinato. Forse semplicemente non le interessa o forse per lei non è importante; sembra essere assorta prevalentemente dai problemi e dalle preoccupazioni del quotidiano.
Non l’avevo mai guardata così: non avevo mai percepito tutta la sua sofferenza, la sua stanchezza. Non ci avevo proprio mai pensato che potesse sentirsi così. Tutta colpa della mia scarsa empatia, nonché della mia incapacità di mettermi nei panni dell’altro. Mi raccontavo che non fosse importante, che non ne avessi bisogno.
Ciò che avevo visto in lei era solo il suo ruolo in famiglia, ovvero il suo essere madre. Punto.
Le avevo affibbiato un’etichetta stereotipata, generalizzata, superficiale, senza provare mai a guardarla dentro per davvero. Senza cercare di immaginare come stesse, là sul suo balcone, immersa nei suoi pensieri.
Spesso la sentivo, mentre sistemava le sue piantine. In quanto moglie e madre, avevo dato per scontato che la sua vita fosse meravigliosa, completa. Non ero mai voluta andare oltre o, forse, non mi ero mai posta il problema. Vivevo per me stessa, e successivamente ho iniziato a vivere solo in balia delle mie allucinazioni.
Fortunatamente, qualcosa si è mosso dentro di me e io sto cambiando.
Me ne rendo conto, lo percepisco.
Che dire del suo sguardo: è uno sguardo quasi apatico, che vede le cose attorno, senza però guardarle davvero.
Lo conosco perfettamente, perché l’ho avuto anch’io e, molto probabilmente, chi mi vedesse ora dall’esterno lo riconoscerebbe su di me anche in questo momento.
È lo sguardo tipico di chi non vuole vedere perché non può farlo. La cui mente è annebbiata da cattivi pensieri e la realtà appare sfuocata, mediata da un giudizio fittizio, non veritiero. Tutto è preda di una visione alterata, che capta pericoli ovunque, di sensi opachi, quasi ovattati, che non sono in grado di sentire davvero. Non ci sono odori, né profumi, né sensazioni piacevoli. Non c’è nulla. Esiste solo la paura. Ed è soprattutto la realtà a spaventare, perché può rappresentare una minaccia al fragile e delicato equilibrio interno, che da un momento all’altro, per un nonnulla, può rompersi, spezzarsi e far scoppiare quella finta bolla di sicurezza e di protezione che ci si è costruiti. Che è una bolla, appunto. Una gabbia dorata.
Lei, tuttavia, ha uno sfogo, una passione. Probabilmente vi si aggrappa, con tutte le forze che ha in corpo.
Oltre a osservarla distrattamente, l’ho incrociata più volte anche sulle scale: l’ho vista impegnata a portare pesanti borse della spesa, a parlare al telefono, ad accompagnare la figlia. L’ho sentita parlare con lei e alzare la voce per farsi sentire, mancando però di vera convinzione.
“Buongiorno” e “buonasera” sono state le uniche parole che ci siamo scambiate.
Strano che me ne renda conto solo ora.
Danila Onorati
Mi è piaciuto tanto, è un libro molto interessante perché tratta di malattie di cui si parla poco. È molto avvincente e intrigante, viene voglia di continuare a leggerlo. Molto consigliato!
Danila Onorati
Mi è piaciuto tanto, è un libro molto interessante perché tratta di malattie di cui si parla poco. È molto avvincente e intrigante, viene voglia di continuare a leggerlo. Lo consiglio vivamente!
Stefano Rigon (proprietario verificato)
Libro consigliatissimo, lettura scorrevole e argomento molto interessante. Coinvolgente ed emozionante. Tanti complimenti alla scrittrice!
Fabiana Zenorini
Ho letto il libro tutto d’un fiato e mi ha coinvolta emotivamente. Scritto bene, è scorrevole ed emozionante. Racconta la storia di una giovane donna che ha subito un trauma e piano piano si risolleva, riprendendo in mano la sua vita. Super consigliato!
Massimo Dalla Riva (proprietario verificato)
Romanzo introspettivo, tutto al femminile, che racconta una storia di rinascita interiore della protagonista da un trauma. Lettura piacevole , coinvolgente ed emozionante. Lo consiglio vivamente.
Stefania D’Angeli (proprietario verificato)
Quasi una biografia, questo romanzo di Francesca, in cui racconta di tre donne, le cui vite si intrecciano proprio grazie allo sguardo nuovo che Ludovica, la protagonista, ha nei confronti delle persone che la circondano. Alice, Ludovica e Monica: in ognuna, la nostra Francesca mette un po’ di sé e del suo trascorso: stracciata da malattie che spesso vengono considerate “invisibili”, come l’endometriosi e la vulvodinia, questa giovane autrice fronteggia altre malattie croniche, tra cui la fibromialgia. Leggendo le bozze non editate non si può non ritrovare la sofferenza che Francesca cerca di buttar fuori per sensibilizzare e spiegare il suo calvario, tra ansia, attacchi di panico, fibromialgia ed endometriosi, Perché scrivere è sempre stata una terapia, per lei come per moltissime altre persone, ma in questo caso diventa una fune a cui attaccarsi con le unghie e con i denti per non impazzire dal dolore. “Fuori dal mio balcone” nasce anche dalla volontà di sensibilizzare su temi spesso trascurati, quali la salute fisica e soprattutto mentale, e di riflettere sulla necessità di sapersi fermare, di fidarsi e di poter chiedere aiuto.
Una lettura che vi invito davvero a fare, per aprire un occhio su ciò che troppo spesso viene taciuto e per capire tante cose che ai più restano incomprensibili.