distesa di lapidi erose dai secoli. La pioggia insistente lava
penne traslucide e occhi di fuoco. Una notte degna di Edgar
Allan Poe, così dovrebbe essere questa notte. Invece è una
ogni tanto da un passaggio di nuvole mosse dal vento in quota.
Fiori freschi, ghiaietta bianca sui tumuli. Lapidi passate a cera.
Un cimitero che sembra un giardino condominiale. Altro
che notte di Walpurgis.
Niente epica in questo paese di culidipiombo.
scheletri di guerrieri, elmi, spade. Vichinghi. Valchirie.
Secondo me ce l’avevano muscolosa».
una pisciata.
Il Panzer non ha visto molte passere dal vivo, neppure
ariane. Si è trattato per lo più di fugaci scorci di pelose fighe
colombiane, pagate ben cento euro in un bilocale pulcioso
vicino alla stazione Termini. Il resto della sua educazione
sessuale viene dai siti più sfigati dell’Internet, quelli dove
non paghi l’entrata, o dai giornaletti che teneva sotto la
branda a Pisa, dove lo avevano cacciato dai parà, la brigata
paracadutisti, prima ancora che avesse fatto un lancio.
Chissenefrega, lo stemmino con le ali e il paracadute lo
porta comunque sul bomber, anche ora che sta pisciando
con perizia sulla tomba dell’ebrea.
Poco distante Franz Dececchi, amico fraterno di Panzer,
bestemmia e fatica con la pala dentro una buca di circa un
metro.
«Ma vaffanculo, Panzer. Vieni qui a darmi una mano. Sto
scavando da mezz’ora e ho trovato solo questo». Un teschio
senza mandibola inferiore vola fuori dalla buca, colpendo
Panzer sulla schiena.
Luca Manfrò detto Teschio, in piedi su un sepolcro di
pietra con una Marlboro in bocca e una mano sul culo della
sua ragazza, osserva la squadra al lavoro. L’idea di scavare
al cimitero è tutta sua. Intrippato col satanismo, Teschio
si è letto un paio di libretti sul tema, li ha mescolati con
reminiscenze di fumetti porno-horror e videocassette di
filmacci americani anni Ottanta per confezionare una sua
personale idea di messa nera, una cerimonia sacra con ossa
e croci e sangue e coltelli. Bisogna pur motivare la truppa,
le cazzate fasciste ormai non scuotono più di tanto i suoi
guerrieri. Per distogliere i ragazzi da Resident Evil c’è bisogno
di un ingrediente, qualcosa di più – come dire? – mistico.
Qualsiasi cosa significhi.
Aveva pensato al sacrificio di una capra o di un agnello, ma
il prezzo dell’abbacchio è troppo alto e poi pensa che casino
trascinare una bestia urlante e puzzolente dentro il vecchio
box dove passa le giornate con i suoi nibelunghi. Meglio
quattro vecchie ossa e un CD a palla dei Rammstein, e chissà
di che cazzo parlano nei testi, ma l’atmosfera è quella giusta.
La sua ragazza, Tamara “Eva” Ranetta, con la chiappa
oramai insensibile, pensa ai cazzi suoi e in particolare a
quello dell’istruttore della palestra Skorpyo con cui ha avuto
un fugace ma intenso rapporto sessuale qualche ora prima.
La luna esce in quel momento dalle nuvole e illumina il
cimitero di una luce bianca e fredda.
«Caz-zo!» sillaba Teschio sottovoce, stringe gli occhi
per vedere meglio ed estraendo, nel contempo, la mano dai
pantacollant di Eva senza che lei nemmeno noti la differenza.
Teschio non crede ai suoi occhi: un barbone, un vero,
autentico, stronzo barbone. Seduto su una tomba con la testa
china, incassata nelle spalle, i lunghi e disordinati capelli che
piovono sul pastrano lungo fino alle ginocchia.
Sembra dormire con le mani in tasca, immobile.
Il colpo di genio folgora Teschio come una scossa elettrica.
Sacrificio umano!
Altro che capra, altro che ossa.
Fa un fischio ai suoi, allunga il braccio e indica il bersaglio
con l’indice e il medio che stringono la Marlboro.
Panzer e Franz salgono sul sepolcro per guardare meglio.
Eva, disturbata nei suoi pensieri da quell’intrusione, scende
con un saltino e, seduta su uno scalino, si accende una paglia.
«E se elevassimo una pira in onore di Odino?» dice Teschio
ai due indicando il barbone.
«Una che?» chiede Franz con l’espressione confusa.
«Una pira, deficiente. Un sacro rogo purificatore che
suggelli il nostro patto tra guerrieri».
«Ah, tipo Giovanna D’Arco? Quel film dove bruciano
quella stronza coi capelli corti e l’armatura».
«Tipo quello» conviene Teschio.
Panzer ghigna, salta giù, si avvia verso l’uscita del cimitero
con l’aria di chi ha paura che ci si diverta senza di lui.
Franz dà un’occhiata in giro. Solo tombe. Osserva il
barbone. Chiede: «Come lo facciamo? Dove?».
«Qui» risponde Teschio, irritato da tutte quelle domande.
Un po’ di iniziativa, cazzo. «Gli diamo fuoco. Poi lo
buttiamo nel buco che hai scavato e ricopriamo tutto. Che
te ne pare, Eva?».
La ragazza fa cerchi di fumo con la bocca, non risponde.
Panzer torna dopo qualche minuto con una tanica di benzina
che è andato a prendere in macchina.
Teschio tira fuori uno zippo e lo lancia a Panzer, che lo
prende al volo. Poi si avvia baldanzoso con la tanica verso il barbone.
Si ferma a un metro dalla vittima, svita il tappo della tanica
con lo zippo tra i denti, si gira verso gli amici ad ammiccare.
Quando si volta di nuovo verso il barbone lo zippo gli
cade di bocca. L’uomo ha sollevato la testa e lo guarda con
tre occhi neri. Il terzo occhio è la canna di un Uzi puntato
su di lui. Panzer stringe istintivamente la tanica al petto e fa
due passi indietro cercando di urlare, ma la voce non esce.
Una breve raffica di mitraglietta centra in pieno la tanica
che esplode, avvolgendo Panzer con alte fiamme arancioni.
Panzer urla.
Il barbone si alza in piedi, il suo spolverino lurido sventola
come un’ala di pipistrello, l’Uzi stretto in pugno. Quella
creatura da incubo si gira lentamente verso i tre, illuminata
da Panzer trasformato in torcia umana che grida disperatamente
e corre verso i suoi amici immobili, a bocca spalancata,
a guardare l’inferno.
Poi Franz urla: «La pistola!». Teschio si scuote, cerca
l’arma, sa di averla portata, pensa porcamerdadovecazzoè,
ricorda che è nel giubbotto, in macchina, si tuffa tra le tombe
travolgendo Eva. Teschio le urla: «Via via via!».
Franz, che non si separa mai dalla sua Glock, la estrae
dai pantaloni e la punta verso il barbone. Ma il barbone è
coperto dallo spaventapasseri in fiamme che corre tra le
tombe emettendo suoni per nulla umani. Franz gli spara
tre colpi in corpo. Panzer crolla su una composizione di
crisantemi, incendiando anche quella.
Il barbone è ancora fermo, con l’Uzi in mano. Franz
indietreggia gridando e sparando, ma inciampa sul bordo
di una tomba e cade di schiena nel buio.
La luna è sparita dietro un’ennesima nube di passaggio.
Il barbone avanza con calma tra le lapidi, si ferma di fronte
al tumulo dove è caduto Franz, getta appena un’occhiata alla
punta arrugginita della croce in ferro battuto che sbuca di
venti centimetri dal petto del ragazzo con gli occhi sbarrati
e la bava rossa sulla bocca. Una gamba si muove a piccoli
scatti. Il corpo inarcato a qualche spanna da terra, sostenuto
solo dalla croce che l’ha trapassato.
Il barbone solleva il piede destro, appoggia la suola dell’anfibio
sul torace del ragazzo.
Una delle mani aggrappate alla punta insanguinata della
croce si alza ad artigliargli i pantaloni. Lui spinge il piede
in basso.
Teschio ed Eva fuggono tra le tombe in due direzioni
diverse. Teschio corre tra le lapidi come un pazzo, scavalca
muretti, aggira cappelle, senza sapere dove andare, in cerca
di una salvezza impossibile.
La luna è ancora coperta dalle nuvole ma Teschio, con
il cuore impazzito, vede come in un miraggio l’uscita del
cimitero e si lancia di corsa verso il cancello. Corre ansimando
tra angeli e madri piangenti di marmo. Corre come non ha mai corso.
Davanti a lui si muove una delle statue che affollano il
cimitero. È Cristo che allarga le braccia per accoglierlo. Non
un Cristo misericordioso, però. In una delle mani impugna
una mitraglietta, e Teschio sente le gambe diventargli di piombo.
Mormora qualcosa, reminiscenze del bambino che un
tempo è stato, del chierichetto che serviva messa milioni di
anni prima: «Gesù».
«Non sono io, sai. Gli assomiglio solamente» dice una voce fredda.
Panzer sente un gran colpo al petto, come il calcio di un
mulo. Il barbone ha sparato a colpo singolo. L’impatto lo
solleva da terra e lo getta a braccia aperte sopra una tomba
scavata di fresco. Le tavole che coprono lo scavo si spezzano,
il corpo precipita nella fossa.
Il barbone scende dal piedistallo di marmo e cammina
lentamente. Sul piazzale c’è solo l’auto di Teschio, un gippone
Toyota. Accanto alla portiera aperta Eva, sudata e tremante,
fruga nel giubbotto di Teschio. Poi si gira verso il barbone
impugnando una pistola.
Ma lui, continuando a camminare col braccio armato
appoggiato sul fianco, guarda la ragazza e mormora: «Non farlo. Vattene».
Eva spara, mancando di molto il bersaglio. Cerca di mirare ancora.
Il barbone, con un’espressione rassegnata, alza l’Uzi e
lascia partire una breve raffica.
La maglietta della ragazza ribolle di qualcosa che viene
dall’interno. Spruzzi vermigli si agitano come rettili. Eva cade
all’indietro e rimane a tossire sangue sul sedile della Toyota.
L’uomo fa sparire l’arma sotto al pastrano con un gesto
veloce e disinvolto. Poi pesca in tasca una sigaretta e se l’accende.
INDIO.
La saracinesca si alza gemendo e lasciando cadere piccole
croste di ruggine.
L’uomo ha tratti sudamericani, strizza gli occhi alla luce
del mattino e srotola una canna dell’acqua sul marciapiede.
Un furgoncino Ape, parcheggiato davanti al negozio,
perde olio e dignità goccia dopo goccia.
L’uomo inizia a lavare il marciapiede. L’acqua sporca si
raccoglie in rivoletti nel canaletto di scolo e forma una pozza
in corrispondenza del tombino intasato. Lui fissa pensieroso
gli arcobaleni oleosi che luccicano dentro la pozza.
Una sigaretta fumata a metà cade nell’acqua.
L’acqua continua a scorrere. L’uomo alza lo sguardo.
Fissa un barbone fermo davanti a lui con una logora borsa
in mano. Dice: «Chris». Il barbone gli sorride: «Indio!».
Indio resta sorpreso e impalato davanti al nuovo venuto.
Chris guarda la mano di Indio che regge la canna, l’acqua continua a scorrere.
Indio segue il suo sguardo, si scuote, lascia cadere la canna,
entra nel negozio e chiude l’acqua, si asciuga le mani con
uno straccio. Tira fuori un pacchetto di MS, ne accende una
e fa cenno di offrire a Chris. Dice: «Cazzo!». Chris sorride e prende la sigaretta.
Senza dirsi altro entrano nel negozio.
Indio libera una poltrona di finta pelle, tutta screpolata
e ingombra di vecchie Domeniche del Corriere, poi mette su
il caffè su un fornelletto a gas in fondo alla stanza.
Chris si svacca sulla poltrona e si guarda in giro.
Indio, armeggiando con la caffettiera, chiede: «Quando sei tornato?».
«Da un po’» risponde Chris.
«Perché?».
«Boh, non so, guardarmi in giro, vedere come stanno le cose…».
La bocca di Indio si piega in un’espressione amara e
sarcastica: «Stanno di merda le cose, Chris».
Chris tira una lunga boccata. «Sembra proprio di sì.
Come sta tua madre?» chiede.
Indio giocherella con un cucchiaino e una latta piena di
zucchero: «Morta. Morta sei anni fa».
Chris annuisce. Poi, guardando fuori dalla vetrina chiede:
«Hai visto Dori?».
La caffettiera inizia a borbottare. Indio si gira e spegne
il fuoco. Poi, come a giustificarsi, si gira verso Chris e dice:
«Il caffè».
Chris si alza e accende il piccolo televisore di fronte alla poltrona.
Indio versa il caffè.
Sullo schermo immagini sgranate di corpi coperti da
lenzuola, tombe, poliziotti. Una voce che recita: “sembra
che le tre vittime siano da ricondurre alla variegata galassia
dell’ultradestra, che negli ultimi mesi ha…”.
«Tre un cazzo, erano quattro!» osserva Chris a voce alta.
Indio si blocca col cucchiaino a mezz’aria e dice: «Figlio di puttana! Sei stato tu?».
Chris lo guarda, sorride e alzando due dita dice: «Due cucchiai per me, Indio».
LENZI.
Il tenente di polizia Guido Mortara è concentrato sul ricordo
del mojito della sera prima. Il segreto del suo mojito è la
quantità degli ingredienti. Guido pensa che i mojito che si
bevono nei bar provocano solo frustrazione perché durano
poco e contengono troppo ghiaccio e poco alcol. Quindi lui
abbonda. E fa dei gran mojito.
Ne vorrebbe uno proprio adesso. Anche se non ha mai
toccato alcol prima dell’ora di pranzo in tutta la sua vita,
ora vorrebbe davvero uno dei suoi mojito, per togliersi di
bocca il saporaccio del caffè del bar di piazza del Verano.
Per stordirsi un po’, e sopportare meglio il ricordo di quel
sangue schizzato dappertutto.
Il tenente Mortara odia le scene del delitto. Odia camminare
in punta di piedi tra brandelli di carne, pozze di sangue,
puzza di morto e di merda, con la paranoia di inquinare le
prove e di macchiarsi scarpe e vestiti. E, più ancora delle
scene del delitto, odia i giornalisti che infestano le scene del delitto.
Col tempo è diventato bravissimo a trovare la posizione
giusta in quelle situazioni di merda. Lontana abbastanza
dalla macelleria e dalle domande dei gazzettieri, ma non
così defilata da farlo risultare assente – metti caso che un
superiore passi di là proprio in quel momento.
Insomma, è proprio da una di queste sue perfette postazioni
che il tenente Mortara avvista il commissario Lenzi.
E questo gli fa dire a voce alta un bel “ma porca puttana!”.
Il commissario Lenzi è un funzionario a un passo dalla
pensione. In Questura si dice che sia stato un pezzo grosso
dell’antiterrorismo negli anni Settanta. Ora è solo un anziano
rompicoglioni a cui vengono affidati piccoli incarichi,
indagini bancarie e controlli vari, uno di quelli che odiano
l’informatica e i metodi nuovi, che la mena a tutti i colleghi
sul “fiuto” e sull’“istinto”. Un rompicazzo, insomma, sempre
a impicciarsi nei casi di tutti, a dire la sua, ossessionato
soprattutto dalla pista politica, come se gli anni di piombo
non fossero mai finiti. Lenzi zoppica un po’, si dice per una
ferita in servizio.
E Lenzi, porca puttana, adesso sta zoppicando tra le
tombe della scena del delitto del tenente Mortara.
«Cazzo ci fai qui, Lenzi?» chiede il tenente avvicinandosi.
«Salve Mortara. Niente… facevo colazione in un bar qui
vicino. Ho visto le macchine, i giornalisti, e sono entrato.
Cos’è successo?».
«Tre morti, stessa arma, che tra l’altro non si trova. Anche
le vittime erano armate. Sembra un rendez-vous di droga finito male».
«Chi erano?» chiede Lenzi indicando le macchie di sangue per terra.
«Teste rasate, teppisti da stadio, probabilmente piccoli
spacciatori di borgata».
Lenzi guarda le svastiche sulle lapidi e mormora: «E quelle?».
Mortara sbuffa sapendo già dove il vecchio vuole andare a parare.
«Cazzate. Se guardi più in là ci sono anche dei 666 e dei
pentacoli. Tutto il repertorio della subcultura da periferia.
C’è pure un Viva la Lazio».
L’anziano commissario è fermo davanti alla lapide dove
stava seduto Chris la notte prima.
Mortara insiste: «Niente di nuovo, Lenzi».
Ma l’altro non sembra badargli. Fissa i bossoli per terra,
evidenziati da piccoli cartoncini colorati, poi il suo sguardo
risale alle parole incise sulla pietra, Luca Mari 13-5-1960, 5-10-
1981. Immediatamente gli occhi del poliziotto corrono alla
tomba vicina. Daniele “Tupa” Cattaneo 25-9-1959, 5-10-1981.
Lenzi sente un brivido sulla schiena, stringe i denti e
mormora: «No, niente di nuovo» e se ne va.
AMICI.
Chris e Indio sono alle prese col terzo caffè. Indio ha
anche messo in tavola dei biscotti Ringo e delle noci.
«Non pensi che qualcuno potrebbe collegarti con Luca e
Daniele? C’è ancora una condanna su di te, e pesante, anche»
dice Indio con la bocca piena.
Chris scrolla le spalle: «Ma va, chi se li ricorda ormai,
Luca e Daniele. Son passati più di vent’anni. E chi mi riconoscerebbe?
Sono un barbone, ho l’identità che voglio e
nessun indirizzo. Io non esisto».
Indio scuote la testa dubbioso: «Non so, Chris, mi sembra
una fesseria. Una sparatoria e tre morti non sono il modo
migliore per passare inosservato».
«Quattro morti» puntualizza Chris. «E comunque ho
dovuto difendermi. Quelli erano nazisti che mi volevano
bruciare. In pratica sono stato costretto».
Indio lo guarda, ironico, interrompendo platealmente
la masticazione del biscotto.
Chris si mette a ridere: «Ok, lo ammetto, è sempre una
bella sensazione ammazzare nazisti. Il mondo sembra più
pulito, dopo».
Indio si alza e ripone il pacchetto dei biscotti in un armadietto,
poi chiede: «Come mai giri armato?».
«Abitudine, Indio. Sai cosa ho fatto in tutti questi anni, no?».
Indio allarga le mani: «Ipotesi perlopiù. Ti davano in
Sudamerica, qualcuno in Cecoslovacchia».
«Messico, poi in Nicaragua. Una specie di piccola brigata
internazionale. Io, due tedeschi e qualche francese, uno spagnolo
e un olandese. Davamo la caccia ai contras. Cecchini.»
Indio sorride amaro: «Hai trovato la tua rivoluzione?».
Chris tira su col naso rumorosamente: «Ho solo ammazzato
un mucchio di stronzi per conto di altri stronzi, Poi son
finito in Africa. Poi in Bosnia. Lì ho detto basta. Ho vissuto
in un’isola greca per qualche anno. Facevo ritratti ai turisti,
quadretti con le casette bianche. E poi ho deciso di tornare».
«A far cosa, Chris? Non mi hai risposto» chiede Indio.
Chris lo guarda con un’espressione di sfida e risponde:
«Vuoi proprio saperlo, Indio? A finire un lavoro. Un lavoro
interrotto il 5 ottobre del 1981».
5 OTTOBRE 1981.
Quando si dice “anni di piombo” si immagina sempre
che il tempo allora fosse sempre grigio scuro. Quell’iconografia
da documentario operaista milanese, gente con
i cappotti che prende il tram la mattina presto, nebbia,
condomini tristi e Fiat 128 stinte.
Invece in quegli anni i ragazzi portavano vestiti colorati,
avevano i capelli lunghi e si facevano le canne ascoltando
musica bellissima. E c’era spesso il sole.
C’era il sole anche quel mattino di ottobre in cui Chris,
Luca, Daniele e una bellissima ragazza chiamata Dori si
incontrarono a ponte Milvio con una borsa piena di pistole
e un’Alfa Romeo rubata.
Chris saltò giù dal muretto e si avviò verso l’auto da cui
stavano scendendo i compagni.
«Dov’è Indio?» chiese.
«Già al posto di scambio. Stanotte ha pensato alla macchina
e alle targhe» rispose Dori.
«Ottimo. Si va. Pronti?».
«Pronti» dissero insieme Luca e Daniele.
«Sì» aveva già detto Dori, fredda.
L’Alfa Romeo partì morbida. Chris osservava Dori, le
sue dita sul pomello del cambio. Lei se ne accorse, cominciò
a giocherellarci con i polpastrelli. Chris ebbe una mezza
erezione. Dori gli piaceva da sempre, da quando l’aveva
incontrata a Venezia con un coltello in mano. Era scattato
qualcosa, da allora non l’aveva più dimenticata. L’aveva
ritrovata a Roma, lo stesso autunno. Lei era entrata nel
gruppo di Chris, portandosi dietro un piccolo arsenale di
armi razziate durante un assalto a un’armeria.
Erano cominciate le azioni. Prima macchine bruciate,
beccando quelle di secondini, poliziotti, fascistelli di quartiere.
Poi attentati con la benzina a centraline Sip, tralicci
dell’Enel. Senza un piano preciso, con obiettivi improvvisati,
scelti in base a voci, articoli letti sui giornali del movimento,
a vendette personali. La politica c’entrava poco in quei mesi
pazzeschi, anche se sembrava essere dappertutto. Erano
mossi da un’euforica disperazione, dalla voglia di fuggire
a un destino già scritto. Non si rassegnavano a un mondo
comandato da quelle grigie teste di cazzo che si vedevano al
telegiornale. Poi erano arrivati alle rapine agli uffici postali, a
qualche supermercato. Rapinavano per comprare altre armi,
ma anche per andare in vacanza, venti giorni ad Amsterdam,
un mese in Grecia. E proprio in Grecia, a Lindos, Chris e
Dori avevano fatto l’amore per la prima volta, su un grande
letto in cima alla terrazza di una casa bianca. Con la musica
dei Pink Floyd che veniva da un portatile Grundig. E lì era
cominciato qualcosa, non volevano sapere cosa, perché i
tempi erano così veloci e turbolenti che non c’era spazio
per progetti personali.
Simone Giusti
Romanzo dalla copertina fantastica. La storia è magistrale. Ottima scrittura, rapida e scarna ma così empatica da farti sentire dentro la storia. E poi un finale da film con un gran messaggio strisciante fin dall’inizio che esplode nel finale, proprio come devono fare i romanzi migliori. Lo straconsiglio 🙂