Andreas Meier si gode lo spettacolo, gli occhi chiarissimi risaltano sul viso nero di fuliggine. Dei quattro giovani in tenuta grigio-verde è il solo a non coprirsi naso e bocca con un fazzoletto, respira avidamente l’aria calda e spessa che si propaga dall’incendio. Ed è il solo con l’uniforme perfettamente in ordine. Gli altri hanno maniche arrotolate e bottoni slacciati. Un’aquila ad ali chiuse con una svastica tra gli artigli brilla sulla fibbia dei loro cinturoni, contornata dalla scritta “Gott mit uns”. Un’altra aquila, sempre appollaiata a una croce uncinata, ma questa volta di stoffa e con le ali aperte è cucita sopra il taschino destro delle giubbe. I quattro osservano, a debita distanza, le nuvole di fumo acre che esalano dalle porte e dalle finestre del palazzo, mentre all’interno le fiamme consumano travi, mobili, tendaggi. Riducono in cenere libri e dipinti preziosi che durante il frettoloso saccheggio i soldati hanno deliberatamente ignorato, accontentandosi di oggetti facili da trasportare: un candeliere e una tabacchiera d’argento, un orologio da taschino.
Nelle cinque o sei case precedenti hanno appiccato il fuoco e sono passati oltre, ma questa magione signorile che brucia li affascina. Non saprebbero spiegarne il motivo. Un motivo che forse va cercato nel loro sangue, ariano finché si vuole, ma pur sempre sangue campagnolo, tuttalpiù piccolo borghese, assetato di atavica rivalsa. Solo grazie al Partito hanno conosciuto la propria intrinseca nobiltà. E adesso, armati sino ai denti, cavalieri teutonici redivivi, offrono il proprio contributo alla grandezza del Terzo Reich.
Quando il sergente ha ordinato di scaricare dal camion le taniche di benzina e ha indicato su una mappa approssimativa il quartiere che avrebbero dovuto incendiare, Andreas ha subito compreso che quella era una buona occasione per liberare sacre energie distruttrici represse da troppo tempo. Dopo gli scontri durissimi, ma a suo modo di vedere gloriosi, che li hanno tenuti impegnati per mesi sulla linea Gustav e ad Anzio, trova degradante il nuovo incarico assegnato alla divisione: la caccia ai banditi. Non mette in dubbio la necessità di contrastare i ribelli, tuttavia rincorrere degli straccioni che sanno solo rubare, nascondersi e svignarsela, lo fa sentire lontano dal suo ideale di paladino della Germania e del Führer. Nondimeno concorda sulla necessità di punire con durezza chiunque spalleggi quei sovversivi. Disgraziatamente in questa città fantasma non c’è nessuno da castigare, sono scappati tutti nei boschi alla vista degli autocarri carichi di militari, combustibile ed esplosivo che risalivano la valle. Persino le bestie si sono portati via. Si può solo fare in modo che al ritorno non ritrovino nulla. Terra bruciata.
Mentre il rogo continua a brillare nelle iridi azzurre, odono alcune esplosioni e il fragore dei crolli. Qualche squadra dispone di tritolo per devastare le tane buie di quel popolo di traditori. Andreas avrebbe voluto essere con i camerati della sua compagnia che il giorno prima, nel paese sottostante, hanno arso un edificio in cui avevano rinchiuso una dozzina di persone. Immerso in truci fantasie, eccitate da grida strazianti e carne bruciata, Andreas ignora che sta per uscire di scena. Probabilmente presume di essere un eroe, ma qui conta meno di un’infima comparsa. Non seguiremo oltre i suoi passi arroganti sui selciati del nostro paese, né quelli dei suoi commilitoni. La vicenda che ci interessa è un’altra e s’interseca con quella dei vandali nazisti solo in un punto preciso. Il punto in cui il solo documento che ne desse diretta testimonianza è andato perduto.
Da uno degli scaffali che i militari hanno rovesciato durante la razzia si sono sparse sul pavimento decine di volumi, il lascito di un vecchio medico agli antenati dell’ingegnere triorese Antonio Capponi, avvenuto più di cent’anni prima. In mezzo ai libri si trova anche un manoscritto voluminoso. La cordicella che teneva uniti i fogli si è rotta e la maggior parte di essi, ricoperti da una grafia fitta e disordinata, svolazzano e si estinguono tra i gas infuocati. Miracolosamente le prime pagine sono quasi intatte, forse faremo in tempo a leggerle.
Prima che […]
[…] sono trascorsi […]
[…] questo è il […]
[…] sommità giallastre e versanti verde scuro disseminati di rocche sbrecciate, formano un semicerchio che ingloba rilievi minori coperti da foreste o incisi da un’infinità di laboriose terrazze su cui crescono frumento, orzo, legumi e ampie vigne. Adagiata su un’altura, quasi al centro dell’arco montuoso, Triora domina severa la parte bassa della Valle Argentina, meglio nota come Fiumara di Taggia. Trecento metri più in basso, sulla sponda sinistra del corso d'acqua che in epoche preumane ha inciso paziente il suo letto di roccia, si trova la villa di Molini. Colà, da quando se ne ha memoria, vengono macinate le spighe di grano e le olive raccolte nel contado. Lungo il pendio che collega l’altura su cui sorge il paese alla cima calva di Monte Trono invecchia il fortilizio in cui alloggiavano i soldati francesi. Qui vicino si ergevano lugubri forche e la portentosa mandragola affonda le velenose radici.
Nel cuore dell’abitato è incastonata una chiesa superba, dedicata alla Vergine Assunta in Cielo. Mirabile la facciata in ardesia e marmo bianco. La piazza che concede un po’ di respiro alla parte anteriore del tempio è parzialmente riparata da portici e vi si affacciano un oratorio e alcuni palazzi eleganti. Sui lati rimanenti le case degli uomini si aggrappano alla casa di Dio come anime contrite in cerca d’indulgenza e da lì si propagano in ogni direzione, addossandosi le une alle altre, escrescenze tumorali di pietra e ardesia. Le argina e le protegge dai pericoli esterni una solida cinta muraria i cui accessi vengono sbarrati allo scoccare dell’Ave Maria. Il paese è ben difeso, ha sopportato assedi e preso parte a tanti conflitti. Nel corso della sua lunga storia ha vissuto momenti di magnificenza e declino, di egemonia e sottomissione. Nelle campagne assolate, oltre a una dimora gentilizia presso la fontana della Noce e a qualche piccola costruzione per uso agricolo, spiccano molti edifici religiosi che testimoniano la peculiare devozione della gente del luogo e la sua aspirazione a sentirsi in pace con l’Onnipotente.
Ciononostante sembra che in passato certe donne dedite alle arti magiche e a commerci con il Maligno frequentassero un minuscolo sobborgo, ora in rovina, ubicato sull’orlo della scarpata dirimpetto alle ville di Corte e Andagna. Gli anziani fanno riferimento alla località con un appellativo sinistro, sempre pronunciato sottovoce, oggetto di fantasiose e poco rassicuranti interpretazioni: Cabotina. Un duro intervento repressivo, eseguito da inquisitori inflessibili, estirpò la congrega di fattucchiere che trovarono la morte o l’esilio. Così i pii trioraschi tornarono a dormire sonni tranquilli e a menare la solita esistenza ingrata. Di vita agevole, infatti, neanche a parlarne, quella è sempre stata privilegio esclusivo dei padroni della terra, gente dura e scaltra che neppure la recente onda rivoluzionaria è riuscita a impensierire più di tanto. Di quegli avvenimenti spaventosi, lontani più di duecento anni, ormai si ricorda poco e si parla ancora meno, in quest’epoca così ben governata dalla Ragione. Possono riaffiorare, a volte, nei racconti che le comari tirano in ballo al lavatoio quando sono a corto di pettegolezzi, oppure dopo una bevuta pesante all’osteria.
In paese, come sempre e come dappertutto, la maggior parte della gente bada alla famiglia, al lavoro, ai propri poveri piaceri, e ringrazia il cielo ogni santo giorno in cui non tocchi volgere il pensiero a malanni, disgrazie e guerre. Se non altro, parliamo di un periodo di pace, almeno in questa parte di mondo. Triora insieme al resto della Repubblica Ligure era entrata da qualche anno a far parte dell’impero napoleonico, accogliendone con moderato entusiasmo le promesse di efficienza e prosperità.
Ben presto tasse e dazi si moltiplicarono generando scontento per quel benessere che non solo tardava a venire, ma si allontanava sempre di più. Nemmeno portò fortuna il decreto imperiale che nel marzo 1810 -volendone riconoscere l’importanza politica ed economica- aveva conferito al Paese il titolo di “Ville”, rendendolo, almeno sulla carta, una Città.
A peggiorare le cose contribuì la prolungata carenza di piogge che in autunno mandò in malora le castagne e, dopo aver guastato irreparabilmente il raccolto dell’estate precedente, rese infruttuosa la mietitura tra giugno e luglio di quell’anno Milleottocentododici. Le patate, che avrebbero potuto rappresentare la salvezza, nell’Italia nord occidentale erano ancora poco diffuse e, dalle nostre parti, ritenute poco salubri. La carestia affliggeva tutto l’entroterra, in particolare la vicina Valle Nervia dove si contarono parecchi morti d’inedia. Il costo degli alimenti era proibitivo, per i braccianti non c’era lavoro e buona parte del popolo passava il tempo in cerca di erbe commestibili che solo pochi avrebbero potuto concedersi il lusso di insaporire con olio e sale. Chi possedeva qualche oggetto di ferro o di rame tentava di spuntare un prezzo ragionevole agli avidi trafficanti di metallo che aleggiavano come uccelli rapaci sulle valli affamate. Qualcuno diede la colpa di tutte quelle disgrazie alla grande cometa che da alcuni mesi rendeva il cielo notturno incognito e ancor più minaccioso.
Nel cantone triorese la Congregazione di Carità, fondata nel 1807 su impulso di Aimé Jean François Chassepot de Chapelaine, barone dell’impero, sottoprefetto di Sanremo, si prese cura dei più poveri e, nutrendoli con zuppe di grano turco e castagne secche, riuscì a scongiurare il peggio. Ma il cielo continuava a mantenersi limpido in modo opprimente e sotto il sole estivo tutto continuava a inaridire, compresa la speranza.
[…] ritardo colpevole, […] meno noti. […] Eventi di cui sono stato testimone e a cui ho preso parte. I fatti di quell’estate su cui la censura dei potenti ha voluto stendere un velo di complice silenzio […] finora ho taciuto perché […]
[…] meritano di essere ricordate alcune delle persone che […]
[…] tenente Mor […]
Non ho potuto fare luce su molti dei […]
[…] di donne bellis […]
[…] ama […] la giovane Luna […]
Appena in tempo. I fogli hanno cessato di esistere, inghiottiti da una vampa arancione. Se questo fosse un film, il cerchio visibile che aveva isolato le pagine dall’inferno circostante si restringerebbe sempre di più fino a lasciarci di fronte a uno schermo perfettamente nero. Chiusura a iride.
Un incidente sconosciuto, microscopica porzione di un dramma più grande all’interno di una tragedia di proporzioni mondiali. Così è andato perduto l’unico scritto che accennasse ai fatti del 1812. Un documento di incerta attribuzione, che probabilmente nessuno aveva mai letto. Senza il suo ausilio sarà difficile ricostruire gli avvenimenti.
Difficile. Non impossibile. Segnatamente tra queste montagne, dove ciò che è stato sussiste in modi misteriosi e nulla può dirsi smarrito per sempre.
Solleciteremo rocce, torrenti, stagni e radure, e immancabilmente gli alberi più antichi. Interrogheremo gli animali e le entità capricciose che a volte ne assumono le sembianze.
Ascolteremo i sussurri degli spiriti che ancora popolano la Valle.
Il resto ce lo racconterà il Genio del luogo che trapela pigramente dalla malta sabbiosa dei carruggi di Triora, città di pietra e di sogno.
Stefano De Giovanni (proprietario verificato)
Un libro dalla scrittura limpida e aulica, impreziosita da minuziosi attributi e aggettivi come tante piccole gemme preziose. I tanti dettagli descrittivi, degni solo di un grande osservatore, trasportano nella storia completamente, sentendosi legati ai personaggi e alla storia, coinvolti nelle loro vicissitudini e in quel pizzico di suspense dovuto al gradito elemento superstizioso. Non vedo l’ora di avere tra le mani il cartaceo, spero prima della data prevista.
Ginevra Bellini (proprietario verificato)
Triora, il famoso borgo delle streghe, raccontata (finalmente) in una nuova prospettiva, in un’epoca forse da pochi conosciuta, intessuta da una trama intrigante e appassionante. Scorre una lettura tra il reale e l’immaginario perdendosi tra il borgo antico e le nostre ricche valli.
Marco Trucco (proprietario verificato)
Un viaggio nel tempo nel borgo più ricco di storia dell’ alta valle Argentina , immersi nel suo mistero e circondati da una natura evocativa di un passato inconfessabile. La trama , avvincente, spinge ad una lettura appassionata. Una passione sollecitata dall’ entusiasmo dell’ autore che emerge da pagine scritte con linguaggio attento e rigoroso. Da non perdere!
ANDREA KLEINMANN (proprietario verificato)
Finalmente una storia al contempo avvincente e strettamente legata al nostro territorio. La dovizia di riferimenti geografici storici e culturali sono un valore aggiunto ad un romanzo che da subito intriga e ti catapulta in momenti storici così lontani tra loro ma legati con sapienza da una affascinante trama.