Cosa definisce un artista? Talento, disciplina, dedizione… o forse follia?
Mario Sciortini è un artista. Un tenore. Una leggenda del palcoscenico che per quarant’anni ha conquistato le platee più esigenti del mondo. Ma dietro la voce potente e i riflettori, c’è un uomo insicuro, vanitoso, fragile. E profondamente rancoroso.
È il giorno del suo compleanno e qualcosa non torna. Un manifesto, un nome sbagliato, un’amara scoperta. E nel retropalco della Scala, tra volti noti e ombre inattese, inizia un’indagine personale, una resa dei conti, una confessione lunga una notte, a conclusione di una giornata iniziata male e che rischia di finire anche peggio.
Perché alla fine tutto torna. E ci sono incontri che possono cambiare una vita.
1. Tutto nel mondo è burla!
«Maledetti, che scherzo terribile mi avete fatto! Ma non crediate che non me ne fossi accorto, che ci fossi cascato. Suvvia, era palese, ovvio, non sono mica un ingenuo! Certo, era uno scherzo ben congegnato, ma anche parecchio crudele, ammettetelo, non ci siete mica andati leggeri! Vabbè, confesso che pure io ho reagito male, almeno all’inizio, ma non me la sono mica presa… non più di tanto, almeno. E comunque, avrei voluto vedere voi, al mio posto! Perché è facile ridere e scherzare, finché si sta dalla parte giusta, quella di chi lo scherzo lo fa. Quando invece lo si subisce, ridere diventa un’impresa, soprattutto se si è certi che ti stiano facendo un torto, invece che uno scherzo!»
Era un fiume in piena: aveva pronunciato quelle parole tutte d’un fiato, quasi le avesse trattenute dentro di sé fino a quel momento e sentisse l’improvviso e irrefrenabile impulso di lasciarle andare.
«Si calmi, signor Mario,» fece l’infermiere con tono conciliante «guardi che le torna su la pressione, non deve agitarsi così tanto.»
Lui lo guardò stranito, come se si accorgesse solo in quell’istante di ciò che gli stava accadendo intorno.
Gli sembrava di essersi appena risvegliato da un lungo sonno, per giunta tormentato da sogni bruttissimi.
Ma come sempre fanno i sogni che al risveglio, dispettosi, sfuggenti e incuranti del nostro desiderio di trattenerli, evaporano dai nostri ricordi come rugiada al primo sole, altrettanto fecero anche quelle sgradevoli visioni che, mentre Mario si riaffacciava ai propri sensi, svanivano rapidamente dalla sua mente, confondendosi in una sorta di nebbia indistinta, tanto che lui stesso faceva sempre maggior fatica persino a ricordare per quale motivo avesse pronunciato quelle prime rabbiose parole.
Si guardò allora attorno con maggiore attenzione, mettendo a fuoco il medico che riponeva gli strumenti e l’infermiere che premuroso ancora lo reggeva per un braccio, quasi avesse paura di vederlo cadere a terra da un momento all’altro; allargando il campo visivo notò poi l’andirivieni di macchinisti, tecnici, assistenti di sala ancora in divisa e i tanti sconosciuti che entravano e uscivano da quel magazzino nel retropalco. Un posto che conosceva bene e in un certo senso lo rassicurava facendolo sentire meglio, una stanza che era normalmente ingombra di attrezzeria, fari, rotoli di cavi, leggii, sedie impilate, ma che per l’occasione era stata frettolosamente adibita a sala emergenze, liberando spazio per mettere giù un po’ di quelle sedie e far entrare una barella che però giaceva fortunatamente inutilizzata accanto alla porta.
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Ogni tanto coristi e orchestrali, ancora in abito di scena, si affacciavano tentando di curiosare all’interno, ma venivano subito allontanati dagli assistenti di sala schierati davanti alla porta e faticosamente intenti a dirigere quel frenetico viavai.
In piedi in un angolo, con l’aria piuttosto tesa e preoccupata, c’erano il Sovrintendente assieme a Luigi, il suo grande amico Luigi (Ma lo è ancora? si sorprese a pensare Mario, però ancora una volta non gli riuscì di ricordare il perché di quell’idea tanto sgradevole).
Ma ad attrarre maggiormente la sua attenzione, sebbene sembrasse invece intento a non farsi notare (o forse era proprio per quello?) fu un uomo dall’aspetto giovanile – non doveva essere molto più che quarantenne – vestito con un elegante abito blu. Poteva sembrare l’ennesimo sconosciuto tra gli sconosciuti e per molti versi pareva effettivamente uguale ai tanti altri che si aggiravano lì dentro in quel momento. Ma in effetti, a guardarlo bene, non lo era per nulla.
Non aveva un motivo razionale per pensarlo. Era una sensazione, un prurito sottopelle, quasi la manifestazione di un sesto senso: quell’uomo gli appariva estraneo e distante da tutta la situazione in un modo che non avrebbe saputo spiegare. Come fosse un’isola soleggiata in mezzo al mare in burrasca, se ne stava seduto proprio davanti a lui, incurante di tutta la gente che si aggirava lì intorno, circondato da un’aura di apparente imperturbabilità mentre lo osservava con un misto di curiosità e attenzione e sembrava si stesse gustando uno spettacolo.
Mario avrebbe voluto ricordare a quel molesto sconosciuto che lo spettacolo, per quella sera, era evidentemente già terminato, ma non riuscendo più a ricordare esattamente cosa fosse successo preferì soprassedere. Distolse lo sguardo e si rivolse nuovamente all’infermiere, sciogliendosi con ferma gentilezza dalla sua presa: «Sto meglio, ora» mentì. In realtà sentiva ancora un forte ronzio nelle orecchie, oltre a percepire un vago senso di nausea e vertigine. Soprattutto, osservando lo stato del proprio abbigliamento – la cravatta malamente allentata e penzolante sul davanti della camicia, a sua volta sbottonata e mezza sfilata dai pantaloni, l’elegante giacca gettata su una sedia lì vicino – era abbastanza certo di aver perso i sensi, ma non ricordava bene il come o il perché. In ogni caso, preferiva evitare ricoveri e ulteriori accertamenti: non gli erano mai piaciuti gli ospedali e cercava di entrarvi il meno possibile.
«La ringrazio,» disse ancora all’infermiere che continuava a tenerlo d’occhio, ora forse più incuriosito che preoccupato «sono certo di non avere bisogno d’altro.» Lo rassicurò ancora con lo sguardo mentre con un cortese gesto della mano lo congedava.
«Allora… noi andiamo» disse questi, ancora titubante, come se volesse assicurarsi per un’ultima volta che il suo paziente riuscisse sul serio a rimanere autonomamente in piedi sulle proprie gambe. Lui gli rivolse ancora un rassicurante sorriso e un cenno di assenso col capo e solo allora l’infermiere si voltò, raggiunse il medico che era già sulla porta e insieme uscirono dalla stanza, spingendo fuori la barella.
Appena i due furono usciti, sembrò che a Mario avessero tolto un guinzaglio.
Prese subito quasi forsennatamente a sistemarsi: rassettò la camicia, abbottonandola di nuovo fino al colletto, strinse accuratamente il nodo della cravatta, sistemò i pantaloni, si passò una mano tra i capelli, recuperò la giacca dallo schienale della sedia dov’era stata gettata e ricominciò a parlare a ruota libera, camminando per la stanza, gesticolando animatamente, come per liberarsi da un fardello troppo a lungo tenuto sulle spalle che lo avesse soffocato limitandogli i movimenti: «Ah, finalmente! Mi sentivo uno straccione, conciato in quel modo! Ma cosa gli è preso? Ridurmi in quelle condizioni un così bell’abito, ma chi gliel’ha permesso…?».
Nonostante i capelli – ancora folti anche se ormai piuttosto ingrigiti – e qualche ruga di espressione intorno agli occhi, era un uomo dall’aspetto abbastanza giovanile, di statura non alta, ma dal portamento sicuro ed elegante. Certo, in quel momento appariva fin troppo nervoso e agitato per sembrare anche elegante, ma bisogna ammettere che da un certo punto di vista avesse pure ragione: è bello il gioco, finché dura poco, recita la saggezza popolare. E per lui il gioco – di cui, nonostante i suoi proclami, era rimasto, dal bell’inizio e fino ad allora, completamente ignaro – stava ormai andando avanti già da parecchio; e va detto pure che la parte toccatagli era effettivamente stata tutt’altro che piacevole.
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