«Maledetti, che scherzo terribile mi avete fatto! Ma non pensiate che non me ne fossi accorto, che ci fossi cascato. Suvvia, era palese, ovvio, non sono mica un ingenuo! Certo, era uno scherzo ben congegnato, ma anche parecchio crudele, ammettetelo, non ci siete mica andati leggeri! Va beh, confesso che pure io ho reagito male, almeno all’inizio, ma non me la sono mica presa… non più di tanto, almeno. E comunque, avrei voluto vedere voi, al mio posto! Perché è facile ridere e scherzare, finché si sta dalla parte giusta, quella di chi lo scherzo lo fa. Quando invece lo si subisce, ridere diventa un’impresa, soprattutto quando si è certi che ti stiano facendo un torto, invece che uno scherzo!»
Era un fiume in piena: aveva pronunciato quelle parole tutte d’un fiato, quasi le avesse trattenute dentro di sé fino a quel momento e sentisse l’improvviso e irrefrenabile impulso a lasciarle andare.
«Si calmi, signor Mario», fece l’infermiere con tono conciliante, «guardi che le torna su la pressione, non deve agitarsi così tanto»
Lui lo guardò stranito, come se si accorgesse solo in quell’istante di ciò che gli stava accadendo intorno.
Gli sembrava di essersi appena risvegliato da un lungo sonno, per giunta tormentato da sogni bruttissimi.
Ma come sempre fanno i sogni che al risveglio, dispettosi, sfuggenti e incuranti del nostro desiderio di trattenerli, evaporano dai nostri ricordi come rugiada al primo sole, altrettanto fecero anche quelle sgradevoli visioni che, mentre Mario si riaffacciava ai propri sensi, svanivano rapidamente dalla sua mente, confondendosi in una sorta di nebbia indistinta, tanto che lui stesso faceva sempre maggior fatica persino a ricordare per quale motivo avesse pronunciato quelle prime rabbiose parole.
Si guardò allora attorno con maggiore attenzione, mettendo a fuoco il medico che riponeva gli strumenti e l’infermiere che premuroso ancora lo reggeva per un braccio, quasi avesse paura di vederlo cadere a terra da un momento all’altro; allargando il campo visivo notò poi l’andirivieni di macchinisti, tecnici, assistenti di sala ancora in divisa e i tanti sconosciuti che entravano e uscivano da quel magazzino nel retropalco. Un posto che conosceva bene e in un certo senso lo rassicurava facendolo sentire meglio, una stanza che era normalmente ingombra di attrezzeria, fari, rotoli di cavi, leggii, sedie impilate, ma che per l’occasione era stata frettolosamente adibita a sala emergenze, liberando spazio per mettere giù un po’ di quelle sedie e far entrare una barella che però giaceva fortunatamente inutilizzata accanto alla porta.
Ogni tanto coristi e orchestrali, ancora in abito di scena, si affacciavano tentando di curiosare all’interno, ma venivano subito allontanati dagli assistenti di sala schierati davanti alla porta e faticosamente intenti a dirigere quel frenetico viavai.
In piedi in un angolo, con l’aria piuttosto tesa e preoccupata, c’erano il Sovrintendente assieme a Luigi, il suo grande amico Luigi («Ma lo è ancora?» si sorprese a pensare Mario, però ancora una volta non gli riuscì di ricordare il perché di quel pensiero tanto sgradevole).
Ma ad attrarre maggiormente la sua attenzione, sebbene sembrasse invece intento a non farsi notare (o forse era proprio per quello?) fu un uomo dall’aspetto giovanile – non doveva essere molto più che quarantenne – vestito con un elegante abito blu. Poteva sembrare l’ennesimo sconosciuto tra gli sconosciuti e per molti versi pareva effettivamente uguale ai tanti altri che si aggiravano lì dentro in quel momento. Ma in effetti, a guardarlo bene, non lo era per nulla.
Non aveva un motivo razionale per pensarlo. Era una sensazione, un prurito sottopelle, quasi la manifestazione di un sesto senso: quell’uomo gli appariva estraneo e distante da tutta la situazione in un modo che non avrebbe saputo spiegare. Come fosse un’isola soleggiata in mezzo al mare in burrasca, se ne stava seduto lì davanti a lui, incurante di tutta la gente che si aggirava lì intorno, circondato da un’aura di apparente imperturbabilità mentre lo osservava con un misto di curiosità e attenzione e sembrava si stesse gustando uno spettacolo.
Mario avrebbe voluto ricordare a quel molesto sconosciuto che lo spettacolo, per quella sera, era evidentemente già terminato, ma non riuscendo più a ricordare esattamente cosa fosse successo preferì soprassedere. Distolse lo sguardo e si rivolse nuovamente all’infermiere, sciogliendosi con ferma gentilezza dalla sua presa: «Sto meglio, ora», mentì. In realtà sentiva ancora un forte ronzio nelle orecchie, oltre a percepire un vago senso di nausea e vertigine. Soprattutto, osservando lo stato del proprio abbigliamento – la cravatta malamente allentata e penzolante sul davanti della camicia, a sua volta sbottonata e mezza sfilata dai pantaloni, l’elegante giacca buttata su una sedia lì vicino – era abbastanza certo di aver perso i sensi, ma non ricordava bene il come o il perché. In ogni caso, preferiva evitare ricoveri e ulteriori accertamenti: non gli erano mai piaciuti gli ospedali e cercava di entrarvi il meno possibile.
«La ringrazio», disse ancora all’infermiere che continuava a tenerlo d’occhio, ora forse più incuriosito che preoccupato, «sono certo di non avere bisogno d’altro», lo rassicurò ancora con lo sguardo mentre con un cortese gesto della mano lo congedava.
«Allora… noi andiamo», disse questi, ancora titubante, come se volesse assicurarsi per un’ultima volta che il suo paziente riuscisse sul serio a rimanere autonomamente in piedi sulle proprie gambe. Lui gli rivolse ancora un rassicurante sorriso e un cenno di assenso col capo e solo allora l’infermiere si voltò, raggiunse il medico che era già sulla porta e insieme uscirono dalla stanza, spingendo fuori la barella.
Appena i due furono usciti sembrò che a Mario avessero tolto un guinzaglio.
Prese subito quasi forsennatamente a sistemarsi: rassettò la camicia, abbottonandola di nuovo fino al colletto, strinse accuratamente il nodo della cravatta, sistemò i pantaloni, si passò una mano tra i capelli, recuperò la giacca dallo schienale della sedia dov’era stata gettata e ricominciò a parlare a ruota libera, camminando per la stanza, gesticolando animatamente, come per liberarsi da un fardello troppo a lungo tenuto sulle spalle che lo avesse soffocato limitandogli i movimenti: «Ah, finalmente! Mi sentivo uno straccione, conciato in quel modo! Ma cosa gli è preso? Ridurmi in quelle condizioni un così bell’abito, ma chi gliel’ha permesso…?»
Nonostante i capelli – ancora folti anche se ormai piuttosto ingrigiti – e qualche ruga di espressione intorno agli occhi, era un uomo dall’aspetto abbastanza giovanile, di statura non alta, ma dal portamento sicuro ed elegante. Certo, in quel momento appariva fin troppo nervoso e agitato per sembrare anche elegante, ma bisogna ammettere che da un certo punto di vista avesse pure ragione: è bello il gioco, finché dura poco, recita la saggezza popolare. E per lui il gioco – di cui, nonostante i suoi proclami, era rimasto, dal bell’inizio e fino ad allora, completamente ignaro – stava ormai andando avanti già da parecchio; e va detto pure che la parte toccatagli era effettivamente stata tutt’altro che piacevole.
«Ma non vorrebbe raccontarci le cose dal principio?», si intromise l’uomo in blu, «così che anche noi cerchiamo di farci un’idea più precisa?»
Mario si alterò nuovamente: «Noi chi? Chi sareste, voi? E poi, cos’altro vorreste sapere da me? Come mi chiamo, forse? Cosa faccio nella vita? Vogliamo continuare con la farsa, avete per caso ancora qualcosa da aggiungere allo scherzo? E va bene, anche se ormai il gioco è scoperto, continuiamo a giocare, via!»
Era decisamente irritato, pur cercando di nascondere dietro a un sorriso tirato il proprio risentimento.
Poi, vedendo che nessuno reagiva o aggiungeva altro, fece scorrere ancora una volta lo sguardo sui presenti e iniziò a parlare: «Mi chiamo Mario Sciortini e sono un tenore», disse, interrompendosi subito per prendere un bel respiro, come se dovesse iniziare a cantare un’aria d’opera.
Si mise ben fermo sulle gambe, guardando fieramente davanti a sé e riprese con voce ben impostata: «Ma che dico? Io sono IL tenore: il più famoso e celebrato tenore italiano degli ultimi quarant’anni! Ho girato il mondo cantando i miei cavalli di battaglia. Il Trovatore verdiano, principalmente: la mia Pira è una delle arie più acclamate. Pensate che ad ogni recita mi obbligano a furor di popolo a concedere il bis! Ma non solo», continuò infervorandosi un po’: «Rigoletto, Traviata, Madama Butterfly, Otello, Tosca, tutte le opere più belle e famose che vi possano venire in mente io le ho cantate. Tutte!»
Fece una pausa come se si attendesse un applauso.
Che difatti non arrivò: non era il suo solito pubblico, quello.
«A proposito, lei conosce l’opera?» si fermò con un dito a mezz’aria, a interrogare l’uomo seduto che lo guardò di rimando, un po’ spiazzato da quella domanda inaspettata e rispose tentennante: «Sì, un po’…»
«Già, un po’…», lo scimmiottò Mario, visibilmente deluso: «In effetti, se deve addirittura chiedermi chi io sia, è evidente che l’opera non le interessi affatto. Ma va bene, eh, va bene! De gustibus disputandum non est» chiosò, simulando comprensione.
Ma subito si accalorò nuovamente: «Vede, io ho inciso decine di dischi, e cantato praticamente ovunque, da Roma a New York, da Berlino a Tokyo. Insomma, malgrado la sua palese ignoranza non le permetta di riconoscermi, io non sono uno qualunque: io sono un personaggio famoso, una star, come si usa dire»
Nella stanza risuonò un ridanciano «Evviva la modestia!», seguito da un coro di risatine sommesse, subito stroncate dallo sguardo furente che Mario dardeggiò sui presenti. Ma persino in questo frangente l’uomo in blu rimase pressoché impassibile. Anzi, con tono bonario e quasi accondiscendente, lo riprese: «Va bene, la ringrazio per avermi illuminato, ma vede… non è questo che volevo sapere. Io vorrei che lei mi raccontasse un po’ di fatti. Fatti più… recenti, per essere precisi»
«Fatti?» Mario sbottò in una risatina soffocata: «Guardi che casca male: io non sono certo di ricordare molto di quello che è successo qui dentro…»
«Allora mi racconti quello che si ricorda», lo incalzò quello, «Parta da più lontano. Magari non così lontano come stava facendo poco fa», aggiunse con un sorrisetto ironico, «vada indietro di qualche tempo. Giorni? Settimane? Veda lei: cominci da dove i ricordi le si fanno più chiari e in questo modo, raccontando le cose dall’inizio forse le si schiariranno le idee e potrebbe finire per ricordare anche tutto il resto»
Poi, sporgendosi in avanti dalla sua sedia lo esortò: «Mi racconti – dal suo punto di vista, ovviamente – come sono andate le cose» e appoggiatosi nuovamente allo schienale lo guardò negli occhi, gli fece un cenno con la mano aperta per invitarlo a parlare e con aria affabile aggiunse: «La ascolto»
Mario era perplesso. A pelle quel tipo gli piaceva poco, anzi: se doveva essere sincero con sé stesso quell’uomo non gli piaceva proprio per nulla, ma decise di stare ugualmente al gioco, per quanto potesse riuscirgli.
Si sentiva confuso: ricordava ormai vagamente di aver subito uno scherzo o almeno qualcosa del genere. Ma a ben vedere, quella era forse l’unica cosa di cui poteva essere certo: ne aveva parlato lui stesso pochi minuti prima e nessuno l’aveva smentito.
Però, se cercava di mettere a fuoco gli avvenimenti di quella giornata, scopriva di ricordarne veramente poco o nulla e pure quel poco, negli ultimi minuti si era ulteriormente confuso e annebbiato. Forse a causa della tensione nervosa che sentiva addosso o forse era stato quello svenimento… ma c’era stato veramente?
Non era più certo di nulla.
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