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Diario di tredici mesi

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Consegna prevista Gennaio 2025
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“Diario di tredici mesi” racconta un anno abbondante della vita di Ross, un giovane trentacinquenne immerso nella quotidianità di relazioni, azioni, incertezze, contraddizioni e comportamenti che sono tipici di chi vive l’attimo, perdendo la visione d’insieme delle cose mentre si confronta con esperienze, scelte e modelli sempre in divenire.
Ross si innamora facilmente, anche delle donne da cui dovrebbe tenersi a debita distanza e trasforma queste infatuazioni in ossessioni che lo tormentano oltre il necessario perché l’educazione sentimentale per lui e forse per tutta la sua generazione passa attraverso l’educazione sessuale che non é detto che porti alla felicità e la molla esistenziale è il successo personale che diventa discriminante nelle scelte di relazione e di vita.

Perché ho scritto questo libro?

Ho sempre scritto racconti brevi ma mai, prima d’ora, mi ero misurato con la complessità di un romanzo. Anche in questo caso tutto nasce da un racconto breve, che avevo intitolato “Dicembre” e che mi aveva lasciato una domanda: chissà cosa succede a gennaio? Un po’ alla volta i personaggi che abitano questo libro hanno tirato fuori una storia che parla di un uomo incapace di distinguere tra amore e ossessione e che arriva in luoghi lontanissimi dalle premesse del racconto da cui tutto è partito.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Dicembre

Claudia non sopporta dicembre.

Tanto per incominciare ci sono troppe feste per un solo mese, poi tutta quelle luminarie e tutta quella gente in giro con le borse piene di pacchetti. E fa sempre troppo freddo per i suoi gusti e le giornate si accorciano troppo che ci son giorni che incomincia a far sera alle due del pomeriggio e così si esagera.

Per non parlare dei negozi aperti di domenica.

“Sono un crimine contro l’umanità. Tutta quella gente obbligata a lavorare la domenica perché altra gente possa prendersela comoda per fare gli acquisti di Natale. Come se le commesse e le cassiere non avessero diritto all’ozio, allo struscio e a comprare regali di Natale.”

Provo a spiegarle che se anche i negozi la domenica fossero chiusi, le commesse e le cassiere avrebbero lo stesso difficoltà a comprare i regali di Natale, ma nemmeno mi ascolta, ormai è lanciata nella sua donchisciottesca battaglia contro il lavoro domenicale a dicembre.

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“Pensa al figlio piccolo del calzolaio – mi dice – che la domenica vorrebbe andare al parco a giocare, ma il papà gli risponde “no tesoro, non si può perché c’è in giro un sacco di gente che anziché usare il sabato per fare compere e la domenica per risposare fa il contrario. E io non mi riposo il sabato e nemmeno la domenica”. Poi non lamentiamoci se da grande questo bambino si drogherà.”

Cerco di farle notare che il calzolaio ormai è una specie estinta (ne sopravvivono pochi esemplari e sono patrimonio dell’UNESCO) e che in ogni caso la domenica tengono chiuso anche a dicembre, ma questo le da solo la possibilità di scagliarsi contro l’UNESCO e tutti i suoi patrimoni per ragioni che non sono sicuro di aver compreso.

Siamo in un locale dove si può bere della buona birra e mangiare panini giganteschi. È così che so questa cosa di dicembre: condividendo una birra al pub.

Siamo amici da qualche anno e abbiamo trovato un terreno comune sul quale andare d’accordo. Un terreno molto vasto, fatto di libri, film e serie TV nel quale ci muoviamo agevolmente e che ci fa sentire adulti con una cultura pop, qualsiasi cosa significhi avere una cultura pop. E poi Claudia è ironica, divertente e sa farmi ridere.

Così di tanto in tanto usciamo insieme per una serata secondo lo schema consolidato che parte dal film al multisala per concludersi in birreria (ovviamente Claudia detesta anche i multisala, ma ha dovuto capitolare per forza di cose).

Mi piacciono queste serate.

Questa volta siamo andati in un cinema d’essay a vedere un film di Tim Burton che ci eravamo persi quando era uscito, quindi finita la requisitoria contro dicembre e tutti i suoi crimini, Claudia ha iniziato a demolire il film.

“Ma dai… è Harry Potter che incontra gli X-Men, il matrimonio segreto tra la Rowling e Stan Lee”

Mi accomodo meglio sulla sedia e mi preparo alla sua “recensione”

“C’è il ragazzetto bellino-ma-sfigato che scopre di avere dei poteri, c’è il nonno che è come dire Silente, c’è la casa dove si nascondono i ragazzi con i super poteri e c’è anche il professor Xavier in versione pari opportunità. E come somma massima di tutte le cose già viste, i ragazzi vivono da decenni in un allegro giorno della marmotta! Mancava solo che spuntasse fuori Bill Murray! Ma che film è?”

“Un film fantasy per farti passare due ore senza pensare a niente?”

“Si, però potevano anche essere un po’ più originali.”

A me il film non è piaciuto tantissimo, diciamo che gli do la sufficienza ma niente più. Però questo è il nostro gioco, per cui le do corda.

“Beh, lei che fuma la pipa non è male.”

“Già… ha anche un bel potere… può fermare il tempo e trasformarsi in uccello.”

Dice “uccello” con un’inflessione nella voce che allude a volgarità a sfondo sessuale, ma qualcosa nel tono della voce è cambiato.

“Dev’essere bello poter fermare il tempo su un giorno perfetto e poi aprire le ali e volare via. Potresti vedere le cose dall’alto e sbattertene le palle di tutto.”

Pausa.

“A volte mi piacerebbe sai?”

Pausa.

“Ormai a parte lavorare non faccio altro. E soprattutto non faccio sesso. Fai un po’ te….”

Mentre mi dice che la sua vita si riassume tutta in lavorare e non fare sesso, io sto bevendo un sorso di birra e la guardo da sopra il bordo del bicchiere, per cui va a finire che per un po’ ci guardiamo negli occhi. So benissimo che non mi sta proponendo di risolvere quel particolare aspetto della sua vita e non tanto per la solita e ritrita questione della “regola dell’amico” (che francamente fa un po’ troppo anni novanta e che comunque è stata sdoganata nel nuovo millennio dai trombamici), ma semplicemente perché l’idea non ci ha mai nemmeno sfiorati.

Comunque la sua ammissione sulla mancanza di sesso un po’ di imbarazzo me lo mette lo stesso per cui finisco per distogliere lo sguardo troppo in fretta e appoggiare il bicchiere con una attenzione eccessiva. Probabilmente arrossisco anche un po’. Per fortuna mi salva un bengalese che si avvicina al tavolo con il suo mazzo di rose.

Lei non può vederlo perché arriva alle sue spalle, ma io si e lo faccio avvicinare mentre con una mano vado a prendere il portafogli (il che, per inciso, comporta dei movimenti poco eleganti per cui sembra che mi stia grattando il sedere). Vorrei comprare una rosa e dargli cinque euro, ma va a finire che della mia banconota da venti se ne tiene la metà e mette sul tavolo un numero imprecisato di rose mentre si lancia in una complicata spiegazione circa la misura a cui bisogna tagliare il gambo per farle durare più a lungo.

Se ne va dopo quelli che sembrano secoli e noi rimaniamo li a cercare di riprendere il filo del discorso che stavamo facendo.

Claudia giocherella un po’ con le rose e poi attacca un discorso che le ho già sentito fare altre volte. Si domanda come abbia fatto a prendere la sua vita e combinare tutto il casino che ha combinato, perché è vero che ha studiato tanto e che ha trovato il lavoro che desiderava. Solo che al lavoro raramente le fanno fare cose che le piacciano davvero e i colleghi sono si delle belle persone, intelligenti e divertenti, ma sono praticamente tutti sposati o fidanzati e hanno una vita loro a cui lei non partecipa. Ed è vero che economicamente non se la passa male, ma del resto… si ferma di botto.

“Vai avanti – provo ad incoraggiarla – ti sto ascoltando.”

“In realtà le cose non sono proprio così. Visto che al lavoro mi fanno fare cose che non sempre mi piacciono ho pensato di mettermi in proprio.”

“Una bella idea.”

“Se potesse funzionare sarebbe fantastica. In realtà mi sono comprata un sacco di attrezzatura professionale. Sai: macchina fotografica, workstation, luci… Ci vogliono molti soldi e ho chiesto un prestito ad una finanziaria. Adesso tra affitto, spese e rata del prestito, arrivare a fine mese è un’impresa. In compenso per mettermi in proprio dovrei prima licenziarmi, ma se mi licenzio poi non ho abbastanza lavoro per pagare tutte le spese.”

“Un bel casino.

“Già… è una cosa che mi sta stressando tantissimo e quando torno a casa la sera sono talmente stanca che ho quasi rinunciato a cucinare e in pratica se ceno è grazie a Deliveroo o al kebabbaro sotto casa.”

Claudia continua a parlare e quello che mi colpisce non è solo quello che dice, ma anche il tono piatto che sta usando

Le ho sempre sentito raccontare le sue disavventure con ironia e leggerezza, ma questa sera no.

Bisognerebbe essere incredibilmente stupidi per non accorgersi che ha dei rospi da sputare.

E bisognerebbe essere incredibilmente stupidi per non capire che in questo momento lei vuole solo essere ascoltata.

Invece a me, stupidamente, entra in testa l’immagine di rospi che escono dalla sua bocca e mi fisso a pensare se sia più sensato immaginare uno sciame di rospi piccoli come api che colano quasi fossero un liquido dalla sua bocca, lungo il tavolino e poi fino a terra, oppure se è meglio un solo rospo ma enorme, tipo un labrador, accucciato sonnolento e un po’ minaccioso sul tavolino tra noi due.

Lascio che queste immagini mi riempiano la testa, perché in realtà questa confessione non me l’aspettavo e mi sta mettendo a disagio.

Sono abituato a pensare a Claudia come ad un’amica divertente, incasinata tanto quanto lo siamo tutti noi a metà strada tra i trenta i quaranta ed è la mia amica per andare a vedere un film. Siamo quel tipo di amici che si raccontano le loro cose ma solo fino ad un certo punto.

Così devo fare uno sforzo per concentrarmi e quando riesco a togliermi i rospi da davanti gli occhi lei sta ancora parlando, ma ho perso il filo del discorso e mi rendo conto che adesso è il momento in cui dovrei dirle qualcosa, ma sono confuso, balbetto e non trovo le parole.

Questo la fa ridere e allora penso che se può servire a farla star meglio sono disposto a balbettare parole confuse per tutta la serata. Anche per tutta la settimana se serve, ma è lei che mi ferma.

“Sai cosa non ho mai sopportato di te?”

(Il mio lavoro? Il mio modo di vestire? I miei gusti musicali? C’è n’è a vagonate di cose che non sopporta di me e ci abbiamo sempre scherzato sopra.)

“Il fatto che a volte sei capace di estraniarti con la testa e pensare ad altro, anche se chi ti parla è li di fronte a te.”

(Merda, mi ha beccato)

”Ho visto che con la testa eri altrove un momento fa. Mentre ti parlavo ho visto che ti eri perso da qualche parte. Stavi scappando perché da me non ti aspettavi questo, noi non abbiamo quel tipo di rapporto.”

“Scusami. Non volevo.”

“Però sono curiosa. Dov’eri scappato?”

Le dico del rospo (perché alla fine ho deciso per il rospo-labrador) e del fatto che in effetti no, non mi aspettavo tutte quelle cose. E che mi sento una merda per essermi distratto.

“Facciamo finta che non ti ho mai detto niente, va bene?”

“Che cos’hai, una di quelle pistole dei Men in Black per cancellarmi la memoria?”

“Erano penne, tonto. E comunque no, non ce l’ho.”

Muove le mani a mezz’aria come per accarezzare un immaginario, gigantesco rospo.

“Gli diamo un nome o lo facciamo in padella? Se lo dobbiamo cucinare allora voglio Cracco.”

“Lo vuoi perché è bravo o perché è figo?”

“Figo lui? Ma dai… con quell’aria da finto bohemienne…”

Claudia sta sorridendo per la sua battuta sul rospo e su Cracco con l’aria da finto bohemienne e mentre la osservo accarezzare il rospo immaginario, mi rendo conto che se siamo amici non è per i film e i libri, ma perché un bel po’ ci assomigliamo. Claudia, con la sua autoironia, mi ha sempre raccontato il lato comico delle sue disavventure lavorative e sentimentali, ma alla fine lei è la mia versione al femminile: siamo quelli che ancora non hanno trovato “l’anima gemella” non perché lo abbiamo scelto, ma perché è andata così e se ci chiedessero di spiegare perché è andata come è andata, non saremmo in grado di farlo.

Prendiamo me, per esempio: due anni di convivenza e poi lei decide di andarsene con un altro. Una cosa che mi ha stordito a tal punto che dopo altri due anni non sono ancora riuscito ad avere un’altra relazione degna di questo nome. Oppure Claudia: una donna talmente bella che ti verrebbe da pensare che il suo fidanzato è uno che lavora ai piani alti di qualche multinazionale. Invece no, perché l’ultimo uomo con cui è stata passava tutto il tempo a criticarla per ogni cosa. Alla fine, quando ha capito quanto questo la facesse stare male, se n’è andata, solo che andandosene ha lasciato indietro tante cose di se, tra cui la sua fiducia nel genere maschile.

Le nostre storie raccontano solo che oggi siamo single, ma non spiegano perché Claudia, con tutta la sua intelligenza e la sua forza, abbia permesso ad un uomo di trattarla male per anni.

Non spiegano perché io sia stato lasciato.

O forse la spiegazione è li sotto i nostri occhi e siamo noi che non vogliamo vederla, perché ad andare a curiosare nelle zone grigie delle nostre relazioni, c’è il rischio di imbattersi in verità scomode.

Quali verità?

Vai a saperlo…

Allungo una mano sopra il tavolo per prendere la sua e in quella stretta vorrei metterci tante cose, francamente troppe per un sola stretta di mano.

E allora mi viene una gran voglia di alzarmi e abbracciarla in mezzo al pub. E non uno di quegli abbracci formali con il culo in fuori per toccarsi il meno possibile: un abbraccio di quelli veri, intensi.

Cinematografici.

E che la gente ci guardi e pensi quello che gli pare.

Non faccio niente di tutto questo: con l’altra mano giocherello un po’ con il sottobicchiere di cartone fino a quando non è lei a parlare.

“Facciamo quelli che vanno?”

Ci alziamo dal tavolino, l’aiuto ad infilarsi il giaccone come faccio sempre e come sempre aspetto che mi preceda lungo il locale, perché secondo me è così che deve fare un perfetto gentiluomo. Così la vedo raccogliere le rose ed il rospo immaginario e attraversare il locale come se avesse in braccio un bambino di tre anni mentre lo culla e gli canta una ninna nanna. Quelli seduti ai tavoli ci guardano un po’ perplessi ma io faccio il vago. Davanti alla cassa mi dice che ha le mani impegnate e se posso prenderle il portafoglio dalla borsetta per pagare, io continuo a fare il vago e pago il conto per tutti e due. La pantomima continua anche fuori dal locale perché lei apre la portiera posteriore della mia macchina, adagia con cura il rospo immaginario e gli allaccia la cintura di sicurezza. Poi finalmente sale in macchina con un sorriso soddisfatto e appena esco da parcheggio si mette a ridere.

“Hai visto come ci guardavano tutti?”

“Si, beh… questo è un locale dove tornerò solo tra qualche anno e solo dopo essermi fatto una plastica facciale.”

“Era ora che ti decidessi a cambiarti i connotati.”

“Perché sono brutto?”

“Quelli belli sono fatti diversamente.”

E continua a ridere, fino a quando anche io non mi metto a ridere con lei.

Il tragitto dalla birreria a casa sua è breve, troppo per riprendere il discorso che stavamo facendo e quando arriviamo abbiamo ancora la ridarella.

Prima di scendere mi da un bacio sulla guancia, piccolo, leggero. Appena accennato.

“Grazie per la stretta di mano al pub, mi serviva.”

Poi scende, riprende il rospo immaginario dal sedile posteriore e si infila nel portone del palazzo, inghiottita in un attimo dalla semioscurità dell’androne.

Più tardi, sdraiato nel mio letto, sento ancora quel piccolo bacio bruciarmi sulla guancia. Lo sento mentre fingo di non sentirlo, lo sento quando vado a cercare il fresco del cuscino, lo sento mentre penso che dopo tutto è solo dicembre, Claudia questo mese proprio non lo sopporta e, forse, a cinque giorni da Natale, nemmeno io sopporto troppo questo periodo.

Naturalmente Natale lo passo a casa di mia madre come tutti gli anni e, come tutti gli anni, verso le quattro del pomeriggio arriva mia sorella, con cognato e nipoti.

Di buono c’è che i miei nipoti adorano la nonna e ignorano lo zio, così posso passare il resto della giornata ad ignorare la famiglia mentre faccio finta di far conversazione con mio cognato (che è logorroico, per cui tutto quello che veramente faccio e annuire di tanto in tanto mentre lui parla di tutto quello che gli viene in mente).

Capodanno invece lo passo nella tavernetta di Marco e Laura. Eravamo compagni di classe al liceo e loro due si sono messi insieme a metà del primo anno. A parte i normali tira e molla dei primi tempi, da allora non si sono mai lasciati e adesso sono entrambi medici nello stesso ospedale e come facciano a non venirsi a noia a vicenda è un mistero per tutti noi che li frequentiamo dai “gloriosi” anni dello scientifico.

Sono anche gli unici del nostro gruppo ad essersi sposati e ad aver comprato una casa abbastanza grande da contenere tutta la numerosa progenie che avevano pianificato. In attesa di dare alla luce almeno il primogenito hanno organizzato una festa nello stile “tutti portano qualcosa poi si divide le spese”, io dichiaro che porterò un po’ di alcolici e la mattina del trentuno vado al supermercato a comprarne un bel po’.

Nella tavernetta ci sono alcune persone che conosco da una vita: Marco e Laura, naturalmente, ma anche Gianni, che il liceo non lo ha mai finito e adesso è un arrabbiatissimo dipendente di un supermercato, reparto macelleria e c’è Pigi, che il liceo non lo ha mai fatto ma è amico da sempre di Gianni e quindi è stato, a suo tempo, arruolato nella compagnia. Ovviamente ci sono Anna e Margherita, le rispettive compagne di Gianni e Pigi e c’è Giorgio, un’adolescenza passata a cercare di capire la perifrastica passiva mentre si ingozzava di merendine fino a quando non ha scoperto la palestra ed il body building. Adesso fa il personal trainer in una palestra e di latino non ricorda niente. Giorgio è seduto in poltrona da solo, perché anche se non è più un adolescente in sovrappeso il suo insuccesso con le donne è leggenda: è probabilmente l’unico personal trainer al mondo che non batte chiodo.

Eccolo qua il mio gruppo di amici: siamo sopravvissuti all’adolescenza e al liceo, siamo sempre rimasti insieme e sinceramente non trovo un solo motivo per cui non debba essere così per sempre.

Tra le persone che non conosco noto una ragazza minuta, biondina e pallida che sembra intimidita dal posto in cui si trova così decido di usare questo come pretesto per attaccare bottone. Quando, dopo un po’ di convenevoli, mi allontano per prendere qualcosa da bere per tutti e due mi si avvicina una ragazza fasciata in un tubino nero e con un’espressione furbetta dipinta sul volto.

“Guarda che stai perdendo il tuo tempo. La vedi quella la nell’angolo? – e mi indica una ragazzona occhialuta che deve aver litigato di brutto con il suo parrucchiere – sappi che sono molto amiche.”

Il senso della frase mi diventa chiaro a mezzanotte, quando la biondina pallida e la ragazzona occhialuta si scambiano gli auguri di buon anno con molto più trasporto di quanto mi sarei aspettato.

La ragazza del tubino nero è la prima a raggiungermi.

“Te l’ho detto che stavi perdendo tempo… a proposito io sono Angela.”

“Piacere Ross.”

“Un nome inglese?”

“Non proprio, è più qualcosa di cattolico. Cosa fai nella vita?”

“L’infermiera nello stesso reparto di Laura. Tu invece?”

“Produco e distribuisco film porno.”

“Davvero? E dire che hai la faccia di uno che lavora alle risorse umane.”

“E che faccia hanno quelli che lavorano alle risorse umane?”

“Più o meno la tua.”

E così incominciamo a chiacchierare. Scopro che sapeva che lavoro faccio perché lo aveva chiesto a Laura e questo particolare, unito al fatto che trova esilarante ogni sciocchezza che esce dalla mia bocca, mi fa sperare che per me il nuovo anno potrebbe iniziare con il botto.

Invece, qualche ora più tardi seduti nella mia macchina, ci dedichiamo ad una sessione limonatoria da adolescenti. Se avessi potuto pretendere di più non lo saprò mai, perché io non ho fatto niente per avere di più e lei non ha mostrato nessuna disponibilità a farmi andare oltre.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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F. M. Pinciroli
Lavoro nel sociale da oltre trent’anni (quindi da sempre) e mi occupo di persone in difficoltà, in questo periodo anziani. Scrivo per hobby e sono appassionato di film, serie TV e libri.
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