1 . CHIACCHIERARE COL NEMICO
FRANCIA, 1918
Gli alti larici si inchinavano davanti allo stretto
sentiero, pendevano minacciosi, ma bellissimi. Due
piccole figure camminavano nella boscaglia, con le
menti concentrate su un miscuglio troppo ingarbugliato
«Alcott, io torno al campo» disse il primo soldato,
sistemandosi l’elmetto sulla testa.
«Tu incamminati. Ti raggiungo tra poco.»
Alcott vide il suo commilitone mandargli un’occhiataccia,
ma se ne infischiò. Con la punta del fucile
gli fece cenno di andare. L’altro inglese sbuffò e s’incamminò,
senza farsi troppi problemi a lasciarlo lì. Se
al pazzo non dava fastidio rimanere solo in territorio
ostile, che facesse!
Riflettendoci su, però, forse non era poi così da
pazzi il desiderio di Atlas di trascorrere qualche altro
minuto in quel posto. Anziché una ronda, sembrava
quasi una passeggiata, così lontano dalle trincee, dalla
guerra a cui era avvezzo quel giovane soldatino, Atlas Alcott.
Lì non doveva annaspare nella melma che
sembrava cercare di risucchiargli le gambe. Il fango
era solo fango, non era un tutt’uno con i brandelli di
uomini che s’impantanavano nella terra e scivolavano
sempre più in fondo. Lì non rischiavi d’inciampare su
un cadavere semisepolto, per ritrovarti con la faccia
contro un quasi-morto, ormai già inghiottito dal fango,
ma che ancora si animava delle sue ultime convulsioni,
dei suoi ultimi gemiti. Lì l’aria non puzzava di
sangue, di putrido, di carne. Atlas ormai sentiva sempre
quegli odori nelle narici, ma si rendeva conto che
lì dovevano essere solo nella sua testa, sapeva che in
realtà doveva star respirando aria pulita, fresca. Anche lì
il cielo era grigio, gli alberi e l’erba erano grigi, come se la
polvere delle loro pallottole e dei loro
esplosivi e la cenere dei loro corpi avessero tinto perfino
quell’angolo di natura. Ma Atlas sapeva che probabilmente
anche il grigio era solo nella sua testa. Ed
era tutto bellissimo comunque.
Forse più del panorama, persino più del profumo,
apprezzava il silenzio di quel bosco. Non era il silenzio
artificiale di uomini ammutoliti dalla stanchezza e
dalla paura, non era un silenzio scandito dagli urli dei
feriti nelle trincee, dai gemiti dei moribondi lasciati
nella terra di nessuno perché ormai era questione di
minuti, ore, per loro. Era un silenzio naturale, ritma-
to dal bisbigliare del vento contro le foglie, scandito
dal cinguettio di una miriade di uccellini chiassosi.
Gli uccelli… gli uccelli sì che erano più intelligenti di
loro. Nella terra di nessuno non si sentiva un solo cinguettio.
Le urla e le esplosioni rendevano tutti sordi,
questo è vero. Ma se anche ogni gemito, ogni esplosione
e scoppio di pistola si fosse ammutolito per verificare,
non si sarebbe sentito nemmeno un cinguettio.
Gli uccellini erano più astuti di loro. Avevano capito
da subito di dover stare lontani da quel mattatoio, che
era meglio lasciare quegli animali primitivi alla loro
feroce disputa.
L’inglese si sentiva come un’insignificante piccola sagoma
rispetto al bosco che lo sovrastava, eppure stava godendo
di quella camminata in solitudine.
Per un po’, almeno. Certo, Atlas era armato e ormai
era sicuro che lì di tedeschi non ce ne fossero. Però
il suo corpo cominciava a essere teso, l’impugnatura
sul fucile si stava facendo sempre più stretta, i suoi
occhi scuri, seminascosti dall’elmetto, guizzavano al
primo insignificante rumore, anche a quelli che erano
solo nella sua testa. Non ci volle molto perché il giovane
uomo, sebbene controvoglia, decidesse di fare
dietro front per raggiungere il suo battaglione. Ma in
quel momento lo vide, o meglio lo sentì. L’improvviso
crack di legno calpestato. Il suo corpo si voltò in direzione
del suono in uno scatto.
Un tedesco. Il suo elmetto dall’inconfondibile
aspetto a secchio di carbone. Era immobile come un
animale a caccia, ben nascosto dalla boscaglia. E Atlas
era la sua preda. La figura sembrava apparsa dal
nulla, ma sicuramente aveva osservato l’inglese per
un bel po’. Atlas era veramente una preda, una di quelle
che morivano senza nemmeno accorgersi di essere
in un’ennesima battaglia e a cui nessuno avrebbe fatto
troppo caso.
Di lui non sarebbe rimasto che una lettera con su
scritto disperso.
Panico.
Il panico lo colpì dritto in faccia, come una secchiata
d’acqua gelida. Era a tal punto inzuppato in
quello smarrimento, che quasi non si rese conto del
rapido gesto con cui il tedesco caricò la pistola e la
puntò verso di lui, finché non gli sparò.
La pallottola sfiorò l’orecchio di Atlas. Mancò per
un pelo la sua testa. Ma questo non impedì al battito
del suo cuore di bloccarsi per qualche attimo.
Appena si rese conto di essere vivo, il soldato
inglese cominciò a correre. E l’inseguimento ebbe
inizio.
Atlas correva, pregando di non inciampare nelle
irregolarità del terreno. Sparava alla cieca dietro di
sé, concentrandosi sulla fuga, mentre il tedesco rispondeva
prontamente al fuoco. Sentiva il bagnato
del sangue colargli lungo l’orecchio. Ma era l’ultimo
dei suoi pensieri. Ciò che invece lo disorientava era
quell’assillante fischio che sentiva, che gli faceva percepire
ogni altro rumore in modo distante. A stento
capiva cosa stesse accadendo… Il tedesco dietro di lui,
il suo cuore sul punto di esplodere, i suoi polmoni sul
punto di cedere e lui che correva per la sua vita, verso
Dio solo sa dove.
Uscirono dal sentiero. Si inoltrarono nel bosco,
dove spesso per qualche istante l’inglese perdeva di
vista il tedesco, per poi sentire il proprio cuore che si
contraeva quando vedeva riaffiorare il nemico. Nessuno
aveva ancora colpito nessuno, eppure gli spari
non cessavano mai.
Poi Atlas non lo vide più. Continuò a sparare dietro di
sé e inizialmente sentì la risposta provenire
dall’arma invisibile dell’altro, senza vedere neanche
il luccichio delle pallottole. Ma dopo poco ci fu silenzio.
L’inglese si fermò, si appiattì contro il tronco di
un albero, il respiro affannoso, il petto che si alzava
e abbassava incontrollato. Conati di vomito salivano
ustionanti per la sua gola e minacciavano di fuoriuscirne.
In qualche maniera li inghiottì dolorosamente, rispingendoli giù,
perché non aveva né la forza né
il tempo per vomitare fuori il suo terrore. Passò un
minuto o più.
L’ho seminato?
Venne quasi colpito da uno sparo.
No.
Si strinse di più dietro il tronco dell’albero. Non
ci furono più colpi. Chiedendosi se in realtà il nemico
non avesse capito dov’era e se lo sparo di prima fosse
stato così vicino solo per caso, sporse leggermente
la testa per cercarlo con la coda dell’occhio. Potrebbe
sembrare strano, ma fu quasi sollevato nel vedere la
figura del tedesco riaffiorare dalla boscaglia. Il pensiero
di averlo seminato era troppo simile a un miracolo per
essere vero, tanto da far sentire Atlas ancora
più minacciato. Ma poi comprese il motivo per cui
il tedesco aveva smesso di sparare, vide cosa teneva
nella mano libera. Cambiò idea immediatamente.
Era una granata.
A quel punto non c’era via di fuga. Atlas poteva
correre quanto voleva, ma era troppo tardi. La bomba
a mano era stata lanciata.
Non c’era nessun modo per lui di scampare alla
morte. Aveva sperato tanto di tornare in Inghilterra
un giorno e non c’era modo di morire più idiota e inutile
del cadere in guerra. Per lui non aveva senso morire in
guerra. Non aveva senso la guerra.
In ogni caso, Atlas Alcott non sarebbe mai più tornato
in Inghilterra.
L’esplosione fu potente. O almeno sembrò potente, vista
la fossa che creò nel terreno.
Ci volle un bel po’ di tempo perché il tedesco riprendesse
i sensi. Peter aprì gli occhi. Li mosse a guardarsi attorno.
In qualche maniera era stato coinvolto
nell’esplosione e ora si trovava… Dove si trovava? Il
suo corpo era steso su un terreno coperto di rocce, che
premevano e graffiavano la sua pelle dolorosamente, e
di polvere, che ancora si librava nell’aria, ben visibile
agli occhi e fastidiosa per il naso. Tossì violentemente
sentendola invadergli la gola. Intorno a lui c’erano pareti
simili a quelle delle trincee che conosceva tanto
bene, ma con spunzoni di radici e piante. Queste erano
pareti naturali, non scavate dalla forza dei soldati,
né certamente da quella di un esplosivo.
Era in una fossa? Un buco nella terra? Non lo sapeva.
Era confuso. La sua testa doleva e così anche il
suo corpo, pesante e debole. Le sue orecchie percepivano i
rumori in maniera ovattata. Perfino la sua vista era annebbiata.
Cominciò a muoversi un poco per
assicurarsi che ogni arto fosse ancora funzionante e
ben attaccato al corpo. Ci volle qualche secondo perché si
sentisse in grado di alzare davanti agli occhi le
sue mani graffiate, per controllare che ci fossero ancora
tutte le dita. Grazie a Dio, c’erano. Poi allungò
un braccio in cerca della sua pistola… che invece non
c’era.
«Cercavi questa?»
Peter impallidì. Una voce chiara che parlava inglese.
Guardò in alto, verso il suo nemico.
Atlas era stato il primo a riprendere i sensi. Aveva
raccolto la sua arma e quella del tedesco. Ora teneva
una delle due puntata alla testa del suo avversario.
Guardò il volto del nemico anonimo con cui aveva lottato fino a poco prima.
Maledizione. Era un ragazzino.
«La tua pistola si è scassata nell’esplosione.»
Atlas gettò a terra l’ormai inutile arma in un gesto
improvviso che fece scuotere il corpo del tedesco
in un quasi impercettibile tremore di istintiva paura;
una paura di cui non appariva tuttavia sul suo volto
neppure l’ombra, abilmente mascherata da quei giovani lineamenti.
L’inglese non era invece altrettanto bravo nell’arte della
dissimulazione. Forse la sua faccia ancora
non mostrava traccia di paura, ma la preoccupazione…
quella era ben visibile tra le rughe che gli corrugavano la
fronte e aggrottavano le sopracciglia. Era
bloccato lì. Con un nemico. Aveva perso il fucile e ora
non gli rimaneva altro che la sua rivoltella a tenerlo
in vita. Sentì un brivido di rabbia e disperazione scuoterlo,
quando si ritrovò di nuovo a guardare la scialba espressione
del tedesco rimanere sicura sulla sua
faccia.
Atlas non era un ragazzo rancoroso. Era una persona
naturalmente calma e comprensiva, ma la guerra
e ora questo disastro… e vedeva il volto di quel tedesco
che lo guardava senza apparente paura, come se si fosse
arreso e nonostante ciò sapesse benissimo di aver
vinto, il bastardo. Perché il timore che non toccava il
suo viso scorreva invece nelle vene del suo antagonista.
Era una provocazione. Era un insulto… era troppo.
Probabilmente quel ragazzino non capiva nemmeno
una parola di inglese, quindi a che serviva parlargli?
Sarebbe stato tanto più facile sparargli un colpo in testa.
Meglio ancora, spararlo a entrambi, farla finita con
quella pietosa situazione, con quella pietosa vita, pietosa
guerra, pietoso mondo, pietoso tutto. Ma… Atlas
sapeva di non poterlo fare, per diverse ragioni.
Il tedesco abbassò lo sguardo e per Atlas i suoi
pensieri divennero ancora più illeggibili. Si passò una
mano sul viso sporco e graffiato e decise di darsi una
calmata, di tornare un po’ in sé. Più facile a dirsi che a
farsi. Dopo aver affrontato la guerra, immaginava che
non sarebbe mai tornato del tutto il sé di prima. E lo
stesso valeva per ogni altro soldato inglese. E in effetti,
pensandoci… anche per ogni altro soldato coinvolto
in quella guerra. Probabilmente anche per quel crucco davanti a lui.
Lo osservò per qualche istante mentre rimaneva a
testa bassa, apparentemente molto appassionato nello
studiare il terreno con lo sguardo.
«Sei armato. Io no.»
Atlas fu colto di sorpresa dalla voce del tedesco.
Le poche parole gli uscirono dalla bocca in una quasi
perfetta pronuncia inglese.
Il ragazzino sollevò finalmente lo sguardo. I suoi
sorprendenti occhi grigi, cerchiati di nero dalla stanchezza,
guardarono fisso Atlas, facendolo irrigidire in
una sensazione di immotivato terrore. La sua espressione
d’acciaio continuava a mascherare perfettamente i suoi
pensieri. Ma dopo un attimo il volto di
Peter perse il proprio controllo, l’odio si fece chiaro
sui suoi lineamenti e Atlas percepì l’angoscia nella
sua voce e nel suo respiro tremante, quando il tedesco
gli urlò addosso.
«Allora, cosa aspetti?! Facciamola finita! SPARAMI! AVANTI, SPARAMI!»
Atlas si sentì perso. L’urlo riecheggiò ancora più
terribile nella sua testa.
La realizzazione lo colpì come un sasso in piena
fronte. Era spaventoso pensarci. Per questo non ci si
era mai soffermato prima d’ora, come qualunque altro
soldato, del resto. Si trattava di un meccanismo di difesa.
Come avrebbero potuto continuare a combattere,
continuare ad ammazzare, dopo essersi fermati un
attimo a riflettere su quanto il nemico fosse stranamente
simile a loro, su quanto fosse umano e vivo? Ma
guardando quei giovani occhi spaventati… be’, il suo
meccanismo di difesa s’inceppò. Non valeva la pena
continuare a negarlo a se stesso. I due stavano condividendo
la stessa folle paura. La colossale distanza,
la barriera che divideva lui da quel tedesco – come
da qualsiasi altro soldato nemico che avesse ucciso
in quell’anno e mezzo in trincea – gli crollò addosso.
Anzi, non c’era niente che potesse crollargli addosso.
Quella barriera semplicemente non era mai esistita.
Quegli occhi… Non era un animale, non era un semplice corpo
inanimato… era una persona. Era un ragazzino. Era poco più
di un bambino, intrappolato in una
divisa da macellaio.
Era esattamente come lui. Atlas lo capiva. Era
terribile vedere invece l’ignoranza dell’altro rispetto
a questa verità, che resisteva nonostante il loro contatto visivo.
«No.»
Le sopracciglia del tedesco si curvarono in un’espressione
interrogativa e ancora più angosciata.
«Non mi servi a nulla da morto» continuò Atlas.
L’inglese lo osservò con sguardo deciso, ma Peter sembrò
rifiutarsi di stabilire un contatto visivo. Il
tedesco si guardò attorno, per nessuno scopo reale, e
si alzò. Camminò verso le pareti della fossa, constatando
rapidamente che non era molto profonda, ma
era impossibile arrampicarsi per via della quasi totale
assenza di sporgenze salde. Si sentiva addosso lo
sguardo di Atlas e la traiettoria della canna della sua
rivoltella. Entrambi avrebbero potuto bruciargli un
buco nella schiena. Trovò un angolino dove sedersi e
dopo poco Atlas lo imitò, la sua Webley Revolver sempre
puntata sul tedesco.
La macchia di cielo visibile dalla fossa si era fatta
scura. I rumori della notte avevano preso il controllo
e il silenzio tra i due soldati rimaneva immutato da
quelle che sembravano – e probabilmente erano – ore.
Peter aveva avuto tutto il tempo per studiare il
suo nemico con la coda dell’occhio: occhi scuri, capelli
corvini, guance e naso ricoperti di lentiggini. A
dire il vero aveva un volto dall’aspetto simpatico, che
ispirava fiducia. Occhi calmi, una faccia che si poteva
immaginare sorridesse spesso. Ma il tedesco non riusciva
proprio a farsela andare a genio, quella faccia.
Era un ragazzo alto. O era in guerra da poco, oppure
aveva una gran fortuna, perché nonostante la magrezza
– probabilmente nelle trincee inglesi le provviste
scarseggiavano proprio come nelle loro – il suo fisico
era rimasto abbastanza forte. Non aveva quell’aspetto da
insetto secco che hanno la maggioranza dei tipi
così alti. Inutile dirlo, se avesse provato ad affrontarlo
in un corpo a corpo, Peter non avrebbe avuto molte
possibilità. L’opzione era da scartare.
Ignaro degli occhi che lo spiavano, Atlas sentì il
suo stomaco, ancora sottosopra, lamentarsi. Fu felice
di ricordarsi del tozzo di pane nel suo zaino. Era sul
punto di addentarlo quando si rese conto che, come
lui era affamato, lo era sicuramente anche il tedesco.
Se non avesse mangiato, sarebbe stato lo stesso che
sparargli un colpo in testa. Il tutto sarebbe solo accaduto più lentamente.
«Tieni.»
Peter si girò a guardarlo non appena sentì la sua
voce. Per tutto quel tempo era rimasto rannicchiato
con la testa appoggiata alla parete, dove Atlas non poteva
vederla. Ma adesso l’inglese poteva vedere bene
gli occhi grigi del tedesco, che stavano letteralmente divorando
il pezzo di pane che gli veniva offerto.
E vedeva anche benissimo come il disprezzo instillato dalla
guerra nei confronti degli avversari stesse
avendo la meglio perfino sul naturale istinto di sopravvivenza.
«Avanti, prendilo.»
Atlas provava compassione per il ragazzino, ma
cercava di mantenere un’espressione severa. Imitava
la faccia d’acciaio del tedesco, immaginando però che
l’imitazione non stesse venendo un granché bene sulla sua
faccia dai lineamenti bonari. Cercava di tenere
le distanze, così da essere capace di fare ciò che andava
fatto quando fosse arrivato il momento. Ma non
ci riusciva. Era un essere troppo umano per riuscirci.
Entrambi lo erano. Quello era il problema.
Quando il tedesco si alzò e si fermò immobile
davanti a lui, decidendo come agire, Atlas guardò di
nuovo il suo volto così giovane… Quanti anni poteva
avere? Pochi, di sicuro. Eppure il suo viso era maturo
e segnato, come il suo sguardo. Aveva visto la guerra,
aveva visto tutto quello che aveva visto Atlas, solo
dalla parte opposta della terra di nessuno. Poteva fare
tanta differenza la prospettiva?
Il ragazzino era basso, magro, ma con un fisico
ancora forte. Il destino di un soldato era quello di ritrovarsi
in breve tempo con un corpo denutrito, attaccato dalle
malattie, dal freddo, dalla stanchezza. Quel
ragazzo, nonostante tutto, sembrava ancora in salu-
te… be’, salute è dire troppo. Perlomeno, come lui, il
tedesco sembrava robusto abbastanza da essere ancora
in grado di combattere. I loro giovani corpi stavano
resistendo più a lungo del previsto.
Peter si decise ad allungare la mano per prendere
il pezzo di pane da quella dell’inglese.
«Grazie.»
Atlas guardò sorpreso il tedesco che continuava a
eludere il contatto visivo. Mangiarono in silenzio.
«Hai dell’acqua?» chiese a un certo punto il tedesco.
Adesso pretende troppo. «No.»
«Tieni allora.» Peter prese una fiaschetta da una
tasca interna dell’uniforme grigia e la porse all’altro
soldato. Ad Atlas venne naturale sorridere, ma si
trattenne quando vide il volto dietro la mano che gli offriva l’acqua.
«Parli bene la mia lingua, Jerry.» Atlas ebbe l’impressione
che ci fosse finalmente la possibilità di
rompere quel silenzio.
«Non mi chiamo Jerry» fu l’irritata risposta del
ragazzino.
Jerry, Fritz, crucco… erano tutti nomignoli con
cui gli inglesi erano soliti chiamare i soldati tedeschi.
Atlas si maledisse per esserselo fatto scappare.
«Il mio nome è Peter. Peter Wolf» continuò comunque
il tedesco che, per fortuna, era meno permaloso di quanto
Atlas avesse temuto. «La mia governante era inglese.
Mi ha insegnato la sua lingua.»
L’ombra di un ghigno tese le sue labbra. «Immagino
che tu invece non sappia una sola parola di tedesco.»
Prendere in giro un inglese era sempre divertente,
anche e soprattutto in una situazione del genere.
«No,» rispose Atlas un po’ offeso «ma magari in
compenso riesco a tirarci fuori da qui. Passami il mio
zaino.» Era estremamente fastidioso come l’ostilità
del tedesco riuscisse a intaccare anche lui.
Prima di allora non aveva osato mettersi a studiare
un modo per uscire da lì, perché preferiva tenere
costantemente sotto tiro il suo “ostaggio”, anche se non
sarebbe mai stato in grado di sparargli. L’inglese s’infilò
la rivoltella nella cintura dell’uniforme per cercare
nello zaino una qualsiasi cosa che potesse farli uscire.
Non aveva una fune, ma un modo doveva pur esserci.
In quel momento, Peter vide la sua occasione.
L’arma dell’inglese era infilata nella sua cintura,
vicinissima al ragazzino. Così vicina che Peter non avrebbe
dovuto far altro che allungare la mano per ribaltare
l’intera situazione.
Quell’idea non ebbe bisogno di ronzare nella sua
testa che per pochi istanti. Prese la sua decisione: in
un rapido gesto sfilò ad Atlas la rivoltella dalla cintura e
in un attimo la canna della Webley Revolver fu
puntata sulla tempia del suo proprietario.
«Non muovere un muscolo, inglese.»
«Anche io ho un nome. Mi chiamo Atlas Alcott.»
«Chiudi quella cazzo di bocca!» Perché all’improvviso
l’inglese era così audace?
«Non puoi uccidermi.»
«Cosa te lo fa pensare?» La voce di Peter lo tradiva,
faceva trasparire la sua tensione.
«La mia pistola è scarica.»
Atlas si girò di scatto verso Peter, che fu costretto
a indietreggiare di qualche passo. Per poco non perse
l’equilibrio.
«Was verdammt…?!» borbottò Peter.
Osservò attentamente la pistola. Guardò nel tamburo.
Era vero, era scarica.
Atlas aveva bluffato per tutto il tempo. Peter non
era mai stato veramente prigioniero. Sentì il disprezzo
salirgli alla testa, infettandola come una malattia.
«Lo capisci? Non puoi spararmi e io non posso
sparare a te.» I due erano faccia a faccia, Peter gli si
era avvicinato e lo sfidava con un’espressione che ad
Atlas faceva venire in mente il digrignare dei denti di
una fiera. «Se ci tieni tanto a uccidermi, dovrai trovare un altro modo.»
Atlas voleva fargli capire che, finché erano bloccati lì, non avevano il dovere di odiarsi. Potevano fingere di non essere nemici, perché tanto non sarebbe
servito a nulla. Finché non trovavano una via d’uscita
o – peggio – non venivano trovati da altri soldati, erano solo due ragazzini che stavano condividendo una
disastrosa situazione.
Ma Peter non capiva.
«Hai ragione,» sussurrò con voce appena udibile
«mi tocca trovare un altro modo.»
«Cos-?»
Un pugno, tanto violento quanto improvviso, colpì Atlas in piena faccia, scaraventandolo a terra.
L’inglese si portò la mano al naso grondante di
sangue. Il ragazzino era molto più forte di quanto la
sua taglia suggerisse…
Atlas vide Peter, in piedi come un pugile, pronto a
sferrargli un altro colpo. Per quanto il tedesco potesse
essere forte, se avessero fatto a pugni, Atlas avrebbe
vinto: era molto più alto e grosso. Ma Atlas non voleva
fare a pugni. Non voleva più lottare. Rimase a terra, ancora stordito, ma più che altro esausto, privo di
ogni volontà di rimettersi in piedi. Prima che Peter
potesse attaccarlo ancora, protese un braccio verso di
lui per difendersi.
«FERMATI! Non capisci? Tutto questo non ha
senso! Puoi colpirmi quanto vuoi, puoi anche uccidermi, se
vuoi! Ma il risultato sarà sempre lo stesso! SIAMO FOTTUTI COMUNQUE!
Possiamo ammazzarci
tra di noi come cani o possiamo collaborare!» Le urla
gli raschiavano la gola come artigli, ma era troppo disperato
perché gliene importasse. «Cosa ti ho fatto io
più di chiunque altro?! Più di un qualsiasi tedesco?!»
Peter s’immobilizzò. Lo fissò dritto in faccia. Per
l’ennesima volta, Atlas non era capace di comprendere
minimamente le sue intenzioni.
Wolf guardò il ragazzo più grande negli occhi. Accettò
un contatto visivo, anzi, lo cercò.
L’inglese stava crollando. Non poteva negarlo a se
stesso. Agli angoli dei suoi occhi scuri si erano formate
delle lacrime. Era come un muro che cedeva sotto
l’accumulo di stress di quegli anni di guerra. Tutto gli
stava crollando addosso.
E poi vide proprio ciò che i suoi occhi avevano bisogno di vedere.
Il tedesco gli offrì la mano per aiutarlo a rialzarsi. Atlas sentì gran parte della tensione
lasciare le sue spalle e avvertì l’urgenza di sorridere.
Un sorriso che trattenne per rispettare l’atteggiamento del tedesco,
ma che traspariva chiaro sui suoi lineamenti.
«Allora?»
«Allora che?»
«Come siamo finiti in questo casino?»
Forse l’inglese lo aveva capito. Peter sapeva solo
che in nessun modo la sua granata avrebbe potuto formare quella fossa nel terreno.
«Mmhh… Pozzi naturali o grotte, credo.»
L’espressione di Peter suggerì all’inglese che doveva spiegarsi meglio.
«Si vede che in questa zona ci sono delle cavità
sotterranee. Quando hai lanciato la granata, l’esplosione ha distrutto
lo strato di terreno sotto il quale
c’era già questa fossa.»
«Quindi questo buco non è stato causato dall’esplosione?»
«No, è sempre stato qui ed è stato aperto dall’esplosione.»
Peter borbottò a denti stretti quella che doveva
essere una parolaccia in tedesco.
«Se l’avessi saputo non avrei mai lanciato la bomba a mano»
bofonchiò muovendosi un poco per cercare di rendere più
confortevole l’angolino in cui sedeva
accanto all’inglese. Ormai era notte fonda e le loro
uniformi cominciavano a essere troppo leggere per
combattere il freddo. Quindi, anche se assai controvoglia,
i due tentavano di stringersi il più vicino possibile, in cerca di calore.
Atlas si stava tamponando il naso ancora un po’
sanguinante con un fazzoletto di stoffa. Un brivido gli
percorse la schiena mentre si guardava intorno. Per
dimenticare quanto fosse angusta quella buca in cui
si ritrovava, cercava di tenere gli occhi fissi sull’unica
macchia di cielo – completamente scura – che li collegava al resto del mondo.
«Soffri di claustrofobia?» chiese Peter con noncuranza.
«No… Forse. Non lo so.»
Peter aveva notato il modo in cui lo sguardo
dell’inglese era riluttante a guardare ciò che aveva di
fronte, e soprattutto aveva notato lo sbuffo infastidito
e tremolante – che a dire la verità aveva cominciato a
irritarlo non poco – che Atlas emetteva ogni volta che
non riusciva a togliersi dalla vista la fossa.
«Lo prenderò come un sì.»
«No, non soffro di claustrofobia. È questo posto
che è claustrofobico! E… gli spazi stretti mi danno
un po’ fastidio…» Atlas sentì il bisogno di difendersi,
dopo aver visto sul volto di Peter l’ombra di un sorrisetto divertito.
«Come mai?»
«Immagino sia legato a una cosa che è successa
quando ero bambino.»
Peter aspettò che Atlas cominciasse a raccontare,
ma questo invece stette zitto.
«Be’? Allora? Cos’è successo?» lo incitò il tedesco
scocciato, senza mostrare minimamente l’interesse
che avrebbe dovuto accompagnare quella domanda.
«Cos’è? Hai voglia di fare conversazione ora?»
Atlas lo guardò incuriosito e, in realtà, contento d’intrattenere
una pacifica conversazione col suo
nemico.
«Racconta e basta, inglese. Sempre meglio del silenzio» borbottò
Wolf, come se avesse già dato e detto
abbastanza.
In realtà a Peter piaceva il silenzio… però era curioso, forse.
O forse non voleva sentirsi solo? Oh be’, in
ogni caso gettò fuori dalla sua testa quelle riflessioni
tanto velocemente quanto erano arrivate.
Con un sorrisetto compiaciuto non molto mascherato,
Atlas si spostò un po’ per mettersi più comodo contro lo
zaino, mentre raccoglieva le idee per
raccontare quella storiella della sua infanzia.
«Quando avevo sei o sette anni, un pomeriggio
stavo giocando con un mio compagno. Il tipo era
piuttosto antipatico e non faceva altro che spintonarmi e
farmi lo sgambetto… A un certo punto, per
colpa sua, sono caduto in un pozzetto. Niente di pericoloso,
non era troppo profondo. Mi sono fatto solo
qualche graffio. Comunque, ho cominciato a urlare
al bambino di aiutarmi a uscire, perché da solo era
impossibile. Ma il simpaticone ha deciso di farmi
uno scherzo. Se n’è andato e così sono rimasto lì fino
a sera tarda. Sono rimasto in quel buco buio e stretto
per cinque ore prima che si decidesse a dire a qualcuno dov’ero finito.»
«Ma che stronzo!»
Atlas osservò l’espressione di Peter passare dalla
totale rigidità a una reale e profonda indignazione,
come una lampadina che si accende più lentamente
dopo che hai spinto l’interruttore. E l’inglese non ce la
fece. Scoppiò a ridere, pensando a quanto fosse insensato
sentire quell’affermazione pronunciata da uno
che aveva tentato di ucciderlo solo qualche ora prima.
Peter inizialmente non capì, ma dopo aver realizzato il
motivo dell’improvvisa risata, non fu capace di
trattenersi. Si piegò in due dalle risate pure lui. Era
tutto troppo assurdo per non riderci sopra.
Micol V.Osti (proprietario verificato)
Cari lettori, voglio ringraziare Marco Tempestini (autore di “Le Chiavi di Platone”) con tutto il cuore per le sue bellissime parole relative al mio romanzo e per tutto il suo sostegno e la sua gentilezza:
“A scrivere bene s’impara? certo che sì. Lo scorrere fluente delle parole e la loro profonda leggerezza sono spesso frutto di fatiche e di sudori passati a districare con la mani quello che ci arriva alla mente confuso e disordinato… ma quando ci troviamo davanti ad autrici poco più che maggiorenni che scrivono come scrittori maturi e affermati allora dobbiamo per forza pensare che lo scrivere bene è anche un dono… un dono che ovviamente va coltivato e amato come una pianta che ci vive dentro e ha bisogno di acqua di sole di musica e di parole… un esempio è la scrittura di Micol Osti … “I disertori, in bocca al lupo” in prevendita su bookabook … prendete nota di questo nome…tra qualche anno ne sentirete parlare…”
Grazie infinite Marco!!!
asaffio (proprietario verificato)
Ho iniziato a leggere le pagine di preview su Bookabook, e non potevo fermarmi. Ho ordinato il libro e ho scaricato la versione preliminare messa a disposizione dall’autore. Ho iniziato a leggerla, e non potevo fermarmi. Un romanzo avvincente, dagli sviluppi imprevedibili, e scritto con grande freschezza. Non vedo l’ora di avere la versione finale! Raccomandatissimo!
Aura Hernández
Interessante romanzo! Ho la curiosità di sapere come continua la storia 😱💚
Pola Sierra
Non vedo l’ora di sapere come prosegue la storia !! . L’inizio e veramente di una narrativa bellisima . Invito tutti che non lo hanno letto di aprire la prima pagine lasciarsi sorprendersi !!
nmezzadri155 (proprietario verificato)
L’inizio del tuo romanzo è veramente promettente, Micol!! Non vedo l’ora di averlo in mano📖😊