Naturalmente T.W. non è il mio vero nome, ma è utilizzando queste due consonanti che la gente parla di me. È divertente questa faccenda, le persone mi citano nei loro discorsi come se sapessero di chi stanno parlando, ma nessuno sa chi sono. Mi chiamo T.W. ed è bene che sappiate che sono uno che perde tempo in inutili elucubrazioni in un momento come questo. Perché possiate farvi un’idea, adesso ho bisogno di pensare che sentirò l’aria profumare di fresco, non appena sarò fuori di qui. C’è una puzza insopportabile. Solo per via dell’odore giudico senza pietà. Mi sto chiedendo come facciano: chi abita qui non avrà colpe, se potesse sceglierebbe senz’altro di meglio, ma sarò così indelicato da sostenere che vivere fra questo lerciume è come avere la residenza in una latrina. Mi fanno pena, ma a esser sinceri anche un po’ schifo. Sono arrivato in cima. Il nono e ultimo piano è sporco, come gli altri del resto. Dove dovrebbe esserci l’ascensore c’è ancora una volta un buco rettangolare nella parete che a ogni piano è stato sigillato con delle assi inchiodate alla meno peggio, in barba al buon senso e a qualche decina di leggi sulla sicurezza. Ho il respiro affannato per la corsa. Mi tengo allenato, vi sfido però a salire nove piani di scale respirando odore di muffa e sudore. Ho il voltastomaco e la tensione non coadiuva l’apparato digerente, che a conti fatti è il secondo cervello. Il mio intestino è un tantino suscettibile all’emotività. In poche parole: non sto passando un buon momento.
La lampadina a incandescenza è avvitata nel portalampada, penzola dal soffitto appesa ai fili elettrici che la alimentano. La luce che emana è appena sufficiente a rischiarare il profilo delle porte laccate che sigillano gli appartamenti. Devono aver acquistato la più merdosa in commercio. Non posso comunque lamentarmi, più della metà degli altri piani era al buio, questo qui dev’essere l’attico, dove abitano quelli benestanti. Puah! Spilorci! Dopo la facile ironia piego le labbra in un sorriso tra il divertito e il remissivo, arrendevole ai miei difetti. Il nervosismo è come un amo appuntito, pesca dentro di me, dove abbocca dell’inutile sarcasmo.Tra una distrazione e l’altra faccio un fischio alla concentrazione per riportarla su quel che vedo. In fondo al corridoio, la finestra è spalancata, sotto di essa un termoconvettore è acceso, la ventola spinge al massimo ronzando forte. Butta fuori aria calda e umida che non fa che peggiorare la situazione. Se riscaldi qualcosa che puzza, be’… non credo di dover dare spiegazioni.
In compenso la città è caritatevole e regala un po’ della sua luce a questi pezzenti, e a me. Volto la testa di scatto, mi è sembrato di scorgere un’ombra in movimento, forse è l’apprensione che si diverte a torturarmi. Per ritrovare l’autocontrollo guardo fuori dalla finestra e penso, penso un’altra volta. In realtà non smetto mai di pensare, è evidente quanto detestabile, arriverete presto a non sopportarlo. Molte volte non ho la minima idea di come dare ordine a immagini e voci che mi scorrono nel cervello. Non sono sempre così, sarebbe un casino se lo fossi. Sono lucido e attento quando serve: mi è capitato di essere freddo, cinico, distaccato e talvolta feroce, ma mai come mi sento ora. Oggi è diverso, non ho nessuna speranza di agire in maniera consona, ci sono dentro un po’ troppo in questa faccenda. Mi difendo perdendomi fra le luci delle auto che transitano decine di metri più in basso e finisco per pensare alla gente, alle anime e alle loro storie. Passerei del tempo a osservare dall’alto la zona. Vedo i fiocchi di neve scendere lievi, ondeggiano come soffici piume bianche di un cuscino esploso. Mi diletterei volentieri nel mio gioco preferito, ma questa non è l’occasione adatta. Proprio non lo è.
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