C’è vita. E finché c’è respiro, niente si sa. Nulla si può fermamente dire di conoscere. Nemmeno la scienza in questo ci può aiutare. Nemmeno lei ci può salvare dal non sapere tanto caro ai filosofi greci.
Perché come è noto, la scienza non è altro che un insieme di scoperte, munendosi di conoscenza attraverso una continua esperienza, di tentativi, di passi.
E la Terra è piatta. E lo è fino a quando qualcuno non scopre che la Terra, anziché piatta, non è altro che una palla tonda che vortica in giri infiniti. Quindi ad oggi la terra è tonda.
Dopo?
Nell’esistenza, il reale motore che spinge ancora, dopo anni, la Terra nel suo roteare non è altro che questo: un insieme di anime vaganti che cercano di cancellare le cose nascoste e pensare solo a ciò che qualche brillante mente ha tirato fuori dal cilindro, senza preoccuparsi di considerare la lunghezza e la concreta profondità di quel cilindro. Cosa c’è oltre il coniglio bianco levato via da quel lungo cappello nero con un nastro lucido attorno? Fiori?
E dopo?
Senza quel soffio di vento gettato fuori da bocche forti e audaci, tanto da lasciar cadere il loro bacio che poteva durare una vita intera, niente si muoverebbe nel mondo che conosciamo, l’energia non sarebbe più prodotta, la musica composta, il teatro non prenderebbe vita animandosi, il cinema non racconterebbe stralci di vita vissuta o ancora da vivere, la danza non farebbe ballare, e forse solo così, lasciando le mani avvolgersi in un buio ignoto senza stelle, quel loro bacio, quelle loro bocche, incontrerebbero il per sempre, quello vero, quello che nella vita è solo un insieme di due belle, temute e desiderate parole, quello che vive nell’eternità, che getta via, nel cestino pieno di scartoffie inutili, l’oblio.
Prima parte
Fabio
If I told her that I loved you,
You’d maybe think there’s something wrong,
I’m not a man of too many faces.
The mask I wear is one.
1. GIUGNO
«Com’è che è iniziato tutto, tu te lo ricordi?»
Siamo a Roma.
Una pagina Instagram aperta. Foto che vengono postate. Gente che visualizza e commenta.
Segui.
Non segui.
Incomincia a seguire.
Leva quel segui.
Ricomincia a seguire.
Ha iniziato a seguirti.
Viene da pensare, ci deve tenere tanto al mio “segui” in risposta al suo.
Così, dopo giorni, incomincio a interrogarmi sul da farsi. Se seguirla anche io.
Instagram, che mondo ignoto.
Un acquario di persone vive che si vestono con abiti cuciti con il filo della rete e che prendono sembianze virtuali, con didascalia sotto il nome completo e una foto profilo che dovrebbe indicarne l’intera persona.
Tutto si basa su quella foto lì. Su quel profilo.
Si ha a disposizione una decina scarsa di secondi per capire chi è quella persona incastonata in quel cerchietto virtuale e se ci può piacere o meno, interessare o no.
Dieci secondi scarsi.
E una scelta. Una soltanto.
Segui.
Non seguire.
Si può stringere amicizia su un social, o limitarsi solo a essere mera comparsa che di tanto in tanto appare a sbirciare dall’oblò virtuale la vita dell’altro o dell’altra. Si può poi scegliere di interagire, anche solo ogni tanto, o di non farlo per niente.
Dipende tutto però da quella decisione iniziale, quella che fa partire il gioco, o terminare la partita sul nascere, senza sapere se ci saranno vinti o vincitori.
Segui.
Segui anche tu.
Questa ragazza deve essere proprio strana, mi dico.
Sono giorni che mi invia la richiesta, poi forse indecisa ci ripensa, la toglie, e giorni dopo rieccola là.
Segui anche tu.
I miei dieci secondi sono stati distribuiti, ampliati e spalmati nei giorni seguenti, crescendo fino a trasformarsi in minuti e ore nell’attesa che prendessi una decisione.
Non ignoravo.
Ma nemmeno ho incominciato a seguirla a mia volta.
All’inizio mi divertiva.
La pensavo un’inguaribile indecisa, o una pazza volenterosa.
Le due prospettive mi incominciavano ad affascinare.
Prima un po’.
Poi, solo un po’.
Dopo, parecchio.
Siamo in giugno.
Una stagione che risveglia i pigri e indolenzisce la noia dell’inverno.
Un momento di tregua dal gelo, dalle coperte sul divano pronte a essere dimenticate, uno stop alle serate passate a tenere fra le mani ghiacciate una tazza di tè bollente, magari quello alla vaniglia che riaggiusta un po’ l’umore, a vedere film su film, a osservare vite che non ci appartengono e immaginare di caderci dentro, magari per sbaglio, magari per sfortuna, o magari per opera di un disegno più grande che non ci riguarda minimamente.
Una stagione dal sapore gioioso, di miele, di bevande che da calde si fanno fresche, prosciugate a sorsi da cannucce colorate, masticando verdura da intingere in una miscela d’olio, aceto balsamico e un pizzico di sale.
Di aria che ti fa venire voglia di prendertela addosso e respirarla a pieni polmoni fuori dall’aridità che una casa può darti, se rinchiuso per troppo tempo.
A fare lunghe passeggiate.
A perdersi tra le canzoni ascoltate durante una rigenerante pedalata.
A smettere di chiudersi nelle palestre.
A scegliere i costumi belli da indossare a breve per tuffarsi in mare.
Entrare nell’ordine delle idee che è tempo di ricomprare una crema solare, che quella dell’anno passato o è finita o è scaduta.
Una stagione che non ha più voglia di sbadigliare e così, per riflesso, non lo fai neppure tu.
Vivo bene.
Sono felice.
Sono un uomo che si accetta e che negli anni ha imparato a volersi bene.
Sono sincero. Da sempre. Da una vita.
Amo.
Follemente. Da ancor prima.
Ho una passione e ci vivo ogni giorno dentro.
Sono sicuro.
Tollerabile e affidabile.
Mi occupo delle mie cose. Solitamente sono le persone che più mi impegnano e alle quali rivolgo le mie totali forze, riservandone un po’ per giocare nel mio lavoro.
Continuo, dentro, a essere gioioso. A essere curioso. A non averne mai abbastanza della conoscenza. Alla ricerca continua di cose che non so. Che mi stupiscano, ma che non mi modifichino.
Non ho mai deciso di ammazzare il bambino che ero, l’ho solo convinto a starsene dentro di me anziché scorrazzare fuori, ma lo libero quando c’è bisogno di lui.
Per giocare con i miei figli, ad esempio. Per parlare la loro lingua. Per non stancarmi mai di stare ore su ore dentro una casetta di plastica a cucinare cibo trasparente, o a saltare su navi aliene e conquistare pianeti che non hanno ancora forma.
Sto bene.
Sto bene.
È mattina.
Sono steso a letto.
Apro gli occhi, sbattendo lentamente le ciglia un po’ appiccicate tra loro nei sogni della notte trascorsa, dove incubi me le hanno un po’ ingarbugliate, e ora, con il sole che preme per uccidere la notte, cerco di sbrogliarle e di trovare la voglia di strisciare in cucina, prima che la casa si risvegli, e preparare il caffè a mia moglie e le frittelle per Arturo e Giovannino.
Oggi niente scuola.
E la domenica mi concedo più tempo per incominciare a dare il via alla giornata.
Intanto sono riuscito a separare le ciglia e le sbatto con frequenza che punta alla normalità.
Ho sbadigliato. Una o due volte.
E lentamente, per non svegliare Amanda, mi sono stiracchiato.
Ora sono pronto ad alzarmi.
Ma per gradi.
Scosto le coperte.
Mi metto seduto con le gambe verso il basso e i piedi che saggiano la temperatura del pavimento.
Mi prendo qualche minuto per stare in questa posizione.
Io la chiamo “la posizione del quasi risveglio”.
Un tempo dilatato tra l’essere e il diventare.
L’essere nuovamente conoscente e vigile dopo ore perse e regalate al sonno, e il diventare l’uomo di tutti i giorni, indossando l’abito quotidiano di sognatore, amante e padre.
Ancora qualche minuto.
Devo abbottonare l’ultimo bottone.
E poi, ci sono. Sono pronto ad alzarmi.
Giuro.
La cucina è chiara. Bagnata appena dal sole che, curioso, si intrufola anche tra queste persiane, oltre a quelle della camera da letto, alle quali già ha fatto visita costringendomi a svegliarmi abbandonando la comodità di un letto fortunatamente pieno da anni.
Accendo la macchinetta del caffè a cialde.
Dal frigo prendo la bottiglia in cui ho versato il mio succo di melograno. Preparato con le mie mani.
Sono diventato difficile con gli anni nei confronti delle arance, così non ne ho spremute più, nemmeno una, ma per non abbandonare per sempre il piacere che un bicchiere pieno zeppo di vitamine appena sveglio ti può infondere in tutto il corpo, rinforzandolo, ho scovato il meraviglioso frutto rosso. Il melograno.
Dalla credenza afferro il mio bicchiere. Solo mio. Lungo e spesso. Molto capiente.
Ci verso il mio succo di melograno e in un sorso, con gli occhi fuori dalla finestra a osservare la città macchiata dal continuo avanti e indietro delle macchine, me lo bevo.
La macchinetta nel frattempo è pronta a rilasciare la sua immancabile bevanda. Non so come potremmo essere ancora vivi senza il caffè di prima mattina. Non lo so proprio. Posso immaginare tutto, ma è escluso che la mia mente concepisca un mondo privato dal caffè al mattino. Non ci riesco proprio.
No, non ci riesco.
I bambini si sono svegliati e io sono più assonnato di quando mi sono alzato.
Nella vita, di mestiere, scrivo poesie.
Non faccio altro tutto il giorno.
Vivere della mia passione mi rende l’uomo sicuro che oggi mi sento di essere.
La vita è intrisa in ogni dove di poesia, è la cosa più poetica che possa mai esistere. Già sul suo nascere lo è. E ancor prima lo diventa.
Ho uno pseudonimo.
Mi chiamo Romano.
E mi chiamano tutti Il Romano. Molti addirittura abbreviano in Roman, dimenticandosi la O. Non ho ancora capito se per sbaglio o proprio di proposito.
Credo che stia per Romantico. E viste le mie origini indiscusse romane, credo sia molto appropriato.
Poi insegno.
Letteratura al liceo.
Mi dà un gran daffare, ma mi piace e mi rende sempre vivo e coraggioso perché maneggiare le menti giovani, fresche e modellabili dei ragazzi è delicato e richiede un gran cuore.
Mia moglie Amanda invece è una ballerina.
Non ama la danza classica.
La detesta.
Meglio dire che ha dovuto, nell’età nella quale si diventa donne, imparare a odiarla.
I miei figli sono la cosa più preziosa che ho.
Segui.
Non seguire.
Non passo il mio tempo sui social.
Non mi piace scambiarmi messaggi con persone che non conosco.
Non cerco cose al di fuori.
Ho tutto quello che voglio a un passo.
La mia famiglia.
Le mie poesie e i miei ragazzi.
Sono un tipo, in questo, tutto sommato semplice.
Mi piace ascoltare la musica. Ma non ho mai veramente tentato di imparare a replicarla. Con uno strumento qualunque. Il pianoforte, per esempio. O la chitarra.
Alle medie suonavo, come la maggior parte della classe, il flauto. Non ero tanto male.
Muovevo le dita tra i fori di quel tubicino e leggevo le note contrassegnate da dei numeretti che ci scrivevo a matita io per andare più veloce nella lettura.
La mia passione è sempre stata l’ora di italiano.
Da bambino, e da ragazzo. Così mi sono laureato e ho iniziato a insegnare.
Volevo infondere la stessa passione che i miei maestri, prima, mi avevano trasmesso.
Un libro cambia la vita.
Una pagina non letta è un pezzo di vita in meno da vivere.
Questa ragazza deve veramente tenerci tanto al mio segui in risposta al suo, mi dico, guardando la sua apparizione di quest’oggi.
È un profilo che ti porta a farti delle domande. A essere curioso e, senza accorgertene, già affascinato.
Gli occhi.
Sto bene.
Sono al bar con mia moglie e i nostri figli.
Loro stanno facendo le bolle con la schiuma del cappuccino e ridono per i baffi bianchi che si ritrovano addosso.
E ridono ancora. Per poi ridere ancora di più.
Amanda, un po’ distratta, legge le notizie dal quotidiano. Faccia leggermente contrariata. Accigliata lievemente. E gamba accavallata sull’altra.
Qualcosa di brutto, sicuro, avrà trovato scritto lì dentro.
Personalmente mi rifiuto di leggere il giornale da parecchio tempo.
E per il telegiornale, stessa identica sorte.
Non mi piace sorbirmi la violenza così gratuita che ci bombarda nelle ore migliori della nostra giornata.
A colazione, quando di norma si decide di leggere il giornale.
E a pranzo e a cena, quando si tiene acceso il televisore sul telegiornale.
Non capisco perché le notizie debbano necessariamente pioverci addosso durante gli orari dei pasti.
Non mi piace.
E mi leva di colpo l’appetito.
Così via i giornali, basta TV.
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