La Sezione Aurea che m’è poster al soffitto è illuminata da spade di luce che prorompono precise e affilate da fessure d’imprecise chiusure. Sul collo la mia cicatrice, regina tutta mia, solletica come raramente, così la sfioro e si quieta mentre i cavi delle cuffie sono quasi a strozzare e dev’essere stata una di quelle notti di tumulto. Mi slego, libero lo stereo dallo stand by, mi tiro su ad alzare la serranda ed è un micro profondo piacere notare a fianco della mia forma ancora stesa sul materasso quel rettangolo rivestito di morbido velluto rosa che a ogni vederlotoccarlo mi distrae nel pensiero del come nominarlo; taccuino che mi è diario d’adolescente, amico invisibile, catino da vomito, scrigno per brandelli d’anima, un contemplare crepe di specchio in istanti che m’appaiono utili lasciar lì, pur sapendoli all’oblio: battezzato SEPSIS in nome dell’infezione d’intorno, a onore di quella dentro, sognando di poterlo raccontare un giorno a qualcuno.
Ricordo d’averlo macchiato ieri sera, ma non con quale dissennata mente, e va bene così, perché ancora devo imparare a non mortificarmi in vernissage, in birrerie arredate Shabby Chic e luppoli artigianali, dove coetanei mostrano creatività per sottolinearsi all’altro sesso come profondità da esplorare, mentre qualche scaricatore patologico di file musicali s’autocelebra toccando tasti illuminati, sonorizzando serate che gli organizzatori definiscono “la situazione” dopo aver sparato montagne d’inviti socialdeadwork; un miscuglio di casual da boutique tra scheletri compressi in sneakers limited edition e barbe da copertina, tra pantaloni a palazzo e nail art e suole rosse da sangue altrui calpestato in Louboutin: una lobotomia collettiva per beatitudine infima di cangianti diversivi a voler dimenticare che tutti si vive senza dote di disperato talento e tutto da perdere, senza solida indifferenza e sfrontata incuranza per se stessi istigante al nutrirsi solo a Pringles, Pepsi, M&M’s, Oreo, Chicken McNuggets, Bounty, Gatorade Cool Blue.
Uno sguardo al Facebook, confessionale mattutino, pochi amici e di carne, una scelta salvifica e no time to lose – inaccettabile la trasformazione del primitivo in balia degli elementi nel contemporaneo in balia dei commenti. Ex compagni d’infanzia, di liceo, d’università, poi qualche ultimo da concerti e concorsi pubblici. Scorro e, tra gatti e autoscatti smile e video musicali, sono lieto e ringrazio non so cosa; pare un altro giorno in cui non aggiornare la lista dei caduti. Temo il giorno in cui i miei amici contatti saranno più a pagine commemorative d’incidenti drogati, mestieri sacrificali e autospegnimenti: generazioni lasciate perdere, a perdere, come i vuoti, forse per nostra colpa ma anche d’altri carnefici.
Apro anche Instagram e subito lo chiudo, mi capita spesso, un fare d’automa, poi realizzo che non è il momento, lì nessun seguace, seguo solo io; qualche band e qualche diva del porno.
Un tocco alla radiosveglia e mi stendo ancora in cerca d’altri attimi palpiti d’innocenza, ma arriva d’audio l’orrore antibuongiorno, informazione con la voce che racconta di annegati, sbarcati, e deliri di folli folletti eletti in preda a parresia; occorre tempo breve ma pesante per ingoiare la nausea che non molla al sopraggiungere di slogan d’acque e capelli e telefoni; Vitasnella propone Tu al meglio, Rocchetta insinua Puliti dentro, belli fuori, poi uno shampoo suggerisce una versione migliore di te stesso, e altri a chiederti di telefonare garantendo che pagherai dopo… che m’ha sempre suonato come un «La pagherai!».
In tempi di nessuna garanzia, è sporca di vigliaccheria la furiosa ricerca di miglioramenti e futuri brillanti, che lame di ruggine ci hanno già tagliato la testa, mentre si galleggia in spa da accumulare come esperienze da recensire in rete che irretisce: che se fossi Dio prosciugherei Mediterraneo perché Africa possa giungere a passeggio, ordinerei al mondo vegetale uno stop alla conversione d’anidride in ossigeno, cementificherei la lingua ai mentitori, gli occhi e le dita ai pubblicitari corrotti.
A ricordarmi speranze semplici a forma di colloquio e curriculum che attendono in mattinata, è una scritta a matita sul frigo, non sono in ritardo ma d’abitudine è colazione con ingozzata d’acqua e un pugno di Corn Flakes e altra ingozzata d’acqua, amara, che a diciotto centesimi a bottiglia va bene. Dal rubinetto, acqua grigiastra e fredda per un risciacquo destante, setole dure e pastamenta sui denti, un po’ d’aria spray sputata profumata ed ecco che il passato scompare e l’ozono impreca.
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Auricolari lati cervello, mp3 in tasca contiene suoni da sopravvivenza urbana e poi c’è il gusto del caso, play random e all’ammutolire clacson e motori ci pensano Föllakzoid.
In metropolitana la scena a cadenza settimanale del tizio che scappa inseguito da altri, anche stavolta tifo fuggitivo e per l’occasione la sua t-shirt Emergency potrebbe spiegare diverse cose.
In superficie, come ogni giorno, ogni via è schivare immondizia, coprirsi bocca e naso con cappuccio della felpa, a ripetere a ripetere a ripetere, a testa basta i rifiuti scorrono a videogame; bottiglie di birra e scatole di medicinali e packaging di schermi sottili regnano e stilizzano marciapiedi frantumati, saranno fossili d’epoca d’alcol e dispositivi psichici. Tragitto odierno è all’ufficio per impieghi da corpi lowcost; tutti pronti per l’organico indifferenziato che spera almeno d’esser promosso a plastica, e la sensazione che ancora sia tutto accettabile, che saranno tempi da rimpiangere, questi, in cui, come nel deserto Namaqualand, ogni vivente è talpa per salvarsi dall’invivibile: troppo veloce l’intimo alternarsi tra deserti e oasi per potersi affidare al concetto à la page di resilienza, che istiga e vorrebbe umani fortissimi nel violentarsi a mutare secondo i traumi anziché mettere il mondo in forma impotente a causare traumi.
Dei presenti, tre sono della mia sottospecie, della mia generazione, gli altri quattro post50. Un mio simile ha volto tra sciarpa e berretto, che gli si vedono solo gli occhi scorrere un La società dello spettacolo a brandelli; per tutti gli altri è smartphone appendice e cervicali reclinate a controllo di furenti polpastrelli. Nessuno qui crede più all’agghindarsi per l’occasione e siamo tutti così mesti nell’abbiglio che potremmo formare una band grunge. Alle pareti bianche ingiallite stanno manifesti con persone a recitare sorrisi al lavoro, soverchiate da slogan rassicuranti e d’esortazione al crederci: happiness in slavery.
Attendo turno di fare quel che devo fare e allora una rivista abbandonata in molteplici copie m’invita a distrarmi, accetto senza aspettative e sfoglio ignorando la povera ragazza bella a sguardo ammiccante in copertina: il dentro patinato è uragano di annunci promozionali, siti web con video tutorial per il make-up, centri sauna, corsi di Pilates, corsi d’autodifesa, corsi di seduzione, corsi di mindfulness, corsi di gestione emotiva, docce cromoterapeutiche, musica mantrica, corsi di Yoga, corsi di social media marketing, corsi d’autostima, corsi di crescita personale, infusi depurativi, piscine bollenti, massaggi al rabarbaro e miele, massaggi a pietre calde e digitopressione; epoca di massaggi e messaggi, di barbarie e sciacalli, di ricerca d’elevazione d’anima e spirito introvabili perché inesistenti, e non si sa più cosa fare per svignarsela, come fare per sentire o non sentire qualcosa. Marketing dappertutto, maledetto, violenza permanente carezza avvolgente, guerriglia ai cervelli già in brodo tramite gli occhi, da ogni anfratto architettonico e pannello e muro che si fa vuoto urbano a sgocciolare civiltà fin alla fogna che ci si ostina chiamare personalità; propaganda che esalta il fottere l’altro a sciabolate di campagne réclame coordinate, ingegnerizzate al microscopio, senza alcuna remora, e stiamo come batteri disperati strillanti a fronte d’onde di doxiciclina fecondata a sterminarci.
Sarò il prossimo e cedo alla smania del volermi lavare le mani, che mi è raramente compulsivo: questa volta è stato il toccare quella rivista a stuzzicarmi.
Nel loculo metro quadro che sulla porta indica ottimisticamente “Toilette” con foglio di carta appiccicato a scotch trasparente, c’è un lavandino e nessuno specchio, più un dispenser disabitato da sapone liquido che sta aggrappato al muro in modo più precario di chi si trova a usarlo, ma l’acqua c’è e anche calda ed è già piacere da Ventesimo secolo, un piacere che scompare a favore di un godimento invasivo di fronte alla scritta poco consunta che a pennarello decora la porzione di ceramica tra i due rubinetti:
LA COCAINA È NAZISTA
&
TU CHE LA PIPPI SEI NEL LAGER!
Cervello soddisfatto dal concetto, mi trovo a immaginare le fattezze dell’autore che in stile writer s’è siglato GpT: un moto di stima nei suoi confronti mi accarezza nel comprendere il senso della scelta dello spazio nel luogo, un affetto mi scalda nel saperlo piccolo genio alle prese con l’odio di tutti, ma al riparo nel batuffolo scomodo della sua coraggiosa ragione.
È stato il 73esimo dalla laurea e ormai è un gusto consueto e bizzarro, le pratiche pop del BondageDominazioneDisciplinaSadismoMasochismo sono giochi irrilevanti, dei Vanilla, a confronto all’umiliazione di spirito fino al carnale che si può sperimentare a questi colloqui, e non mi solleva notare ancora una volta che del selezionatore non ricordo i connotati, ma solo la cravatta dozzinale e quel giochicchiare nevrotico con la sua penna marchiata agenzia tra un appunto e un altro sulla mia scheda profilo che già ne conosco il sunto – alto intelletto e basso reddito –; tra me e lui un inseguirsi di compassioni.
Lorenzo Magnani (proprietario verificato)
Di Giusva ho letto praticamente tutto… e dai video-reading ho già capito che ancora una volta si occupa, senza ipocrisie e con coraggio, degli inferi più subdoli delle nuove generazioni; da sempre contro le sottoculture e a favore della controcultura più spietata e provocatoria! Non vedo l’ora di leggerlo interamente