Alcuni metri più avanti gli autisti degli autobus stentano a far ripartire i loro bestioni nel mezzo di quel caos vorticoso di roboanti automobili che fanno bella mostra dei rispettivi motori, rigorosamente in seconda fila e con le quattro frecce inserite.
Antonio si ferma un attimo, a breve distanza da tutto ciò, e fissa l’immensità del cielo. Rondini e gabbiani, merli e piccioni dominano l’azzurro, c’è chi danza leggero nell’aria e chi invece sbatte le ali più goffamente, ma tutti paiono irridere dall’alto gli umani, bloccati nel traffico convulso. Sembra che anche il tempo si sia fermato e all’improvviso si sente libero come quegli uccelli che si stagliano lungo la linea dell’orizzonte.
A lungo aveva ripetuto a se stesso ciò che da sempre sentiva in cuor suo: prima o poi sarebbe arrivato il momento di lasciare definitivamente il lavoro. Ora, però, tutto d’un tratto, si accorge di come giungere al fatidico traguardo sia ben differente da come aveva immaginato. Non prova ansia, non sente alcuna fretta interiore; non ha più scadenze ufficiali né orari da rispettare e, in fin dei conti, ha deciso di congedarsi anche per questo motivo.
È convinto che la vita sia una sola e che ognuno debba essere l’attore principale della propria esistenza, per questo adesso vuole godere, per qualche minuto almeno, dell’ebrezza che in molti considererebbero mera follia di un soggetto balzano. Desidera essere libero… di commettere errori, di mangiarsi le mani, di giocare le proprie carte e anche di tornare indietro, senza rimpianti per ciò che poteva essere e che non è stato.
Sebbene siano passati ormai tanti anni, all’improvviso gli torna il ricordo della mezz’ora successiva al suo esame di maturità, mentre era seduto su una panchina in mezzo al parco, all’ombra di un imponente gelso spogliato delle sue more. Ripensa a quel gustoso senso di liberazione per la fine degli studi, delle ansie e delle valutazioni e a quella domanda che si affacciava per la prima volta nella mente di un ragazzino spaurito che, del mondo, ancora non conosceva quasi nulla: «E ora, cosa faccio della mia vita?».
Oggi si ritrova con la barba incolta di tre giorni e molti meno capelli, indossa una giacca di velluto che sta per essere riposta nell’armadio, visto che la primavera sta ormai bussando alle porte, una maglia a maniche corte di colore rosso, scarpe sportive numero quarantanove, che vent’anni prima avrebbe fatto molta fatica a trovare in un negozio, dei jeans che potrebbero forse anche assomigliare a quelli che vestiva da maturando e l’immancabile fazzoletto di stoffa a righe nella tasca posteriore. Sorride fra sé e sé, illudendosi di non essere cambiato così tanto e, se certamente lui non è riuscito a migliorare il mondo come avrebbe voluto, magari può custodire la segreta speranza di non essersi fatto travolgere totalmente.
Nel quartiere ora regna la quiete più inerte, i veicoli strombazzanti sono già un ricordo lontano. Immerso nel silenzio, Antonio percepisce che, da qualche parte, per lui c’è una nuova storia, tutta da scoprire e da scrivere.
Se fosse ancora un giovane studente correrebbe ad acquistare un quaderno bianco, curioso di scoprire in che modo si sarebbe poi riempito e colorato, giorno dopo giorno.
Senza fretta si riavvia per tornare al suo appartamento, che dista dieci minuti a piedi dall’ufficio. Entra nel piccolo giardino, sale le scale del condominio fino al terzo piano e apre la porta. Incredibile a dirsi, si accorge per la prima volta di alcuni dettagli che gli erano sempre sfuggiti: una piastrella rotta, il portone esterno che richiede una nuova tinteggiatura, il vaso di gerani con una crepa, un quadretto al muro con un sole sorridente che irradia uno splendido paesaggio ma che si è inclinato vistosamente.
Volge lo sguardo alle bottiglie lasciate sul tavolo, sparuti residui della lunga serata precedente, nella quale ha festeggiato l’addio lavorativo insieme ad alcuni suoi ex colleghi. Ecco, ora può affermare, senza rischio di esser più contraddetto da nessuno, che tutti loro fanno parte del passato.
Tra gli avanzi di una torta di mandorle e il cesto della prima frutta fresca di stagione, distrattamente contempla i regali ricevuti. Gli ospiti si saranno di certo dannati l’anima per indovinare cosa potesse davvero servirgli ora, in questa sua veste nuova e sconosciuta. Una sedia a dondolo con annessa copertina a quadri verdi e blu, un paio di pantofole, un mazzo di carte, un frullatore, un rum delle Antille, un cofanetto contenente una rassegna di imprese sportive del lontano passato, un tosaerba. Grazie a loro si rende conto che potrebbe provare a diventare un perfetto uomo di casa, qualità che non gli è mai appartenuta davvero.
Inizia, lentamente, a sistemare la sala senza troppa convinzione e, quasi subito, decide di stendersi sul divano e accendere la televisione. Non la guarda quasi mai, se non per qualche documentario e un po’ di sport, però ora che sta iniziando la nuova vita da disoccupato ritiene giusto dare a tutti gli strumenti un’ulteriore possibilità. Scorre i canali in modo blando, ma non trova nulla che riesca davvero ad appassionarlo.
Mentre sta già iniziando a sbadigliare, una stilla di energia lo fa rialzare dal divano.
«Antonio, forza e coraggio! Non restartene qui fermo senza far nulla. In fin dei conti, hai detto che l’avresti fatto, e l’hai fatto!»
Emma Gatewood
«Ho detto che l’avrei fatto e ho mantenuto la promessa.» È quel che pronuncia, il 25 settembre 1955, una signora di quasi sessantotto anni di nome Emma.
La donna, alta meno di un metro e sessanta, indossa un giaccone rosso a quadri e, calzando il suo settimo paio di scarpe dall’inizio dell’avventura, si trova in cima al monte Katahdin, nel Maine, lo stato più a nord-est degli Stati Uniti. Proprio in quel punto, una targa incastonata su un monumento di pietra recita: “Katahdin, termine nord del sentiero degli Appalachi che si estende dal Mount Oglethorpe in Georgia per 3.300 chilometri”.
Emma Rowena Caldwell, madre di undici figli e nonna di ventitré nipoti, non ha mai avuto una vita facile. Nata e cresciuta in una sperduta fattoria dell’Ohio insieme a quattordici fratelli e con un padre veterano disabile della Guerra civile, si sposa a soli diciannove anni con Percy Gatewood. Quel che all’inizio appare come un matrimonio felice, dopo appena pochi mesi si rivela un vero incubo: il marito la picchia ripetutamente fino ad attentare alla sua vita, rompendole i denti e le costole.
Tuttavia, non avendo alternative, la donna continua a restare insieme a lui e a lavorare duramente nella fattoria, cercando di godere dei rari momenti felici grazie alle lunghe passeggiate in mezzo alla natura in compagnia dei suoi figli.
Nel 1937, non riuscendo più a sopportare quella violenza brutale, Emma lascia i suoi bambini più piccoli alle cure dei fratelli maggiori e fugge dalla madre in California. Per alcuni mesi prova a restare in contatto con loro tramite lettere prive di indirizzo, in modo da impedire a Percy di rintracciarla, ma l’anno successivo decide di tornare: i figli sentono la sua mancanza e, per di più, le finanze familiari sono disastrate. Trova così lavoro come ispettrice statale e nel frattempo continua ad aiutare nella fattoria, coltivando l’orto e intrecciando tappeti, mentre il marito non smette di picchiarla.
All’inizio del 1941, dopo più di trent’anni di matrimonio, Emma ottiene finalmente il divorzio, un risultato incredibile per l’epoca, sebbene non riceverà mai il pagamento degli alimenti da parte dell’ex coniuge.
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