Antonio si ferma un attimo, a breve distanza da tutto ciò, e fissa l’immensità del cielo. Rondini e gabbiani, merli e piccioni dominano l’azzurro, c’è chi danza leggero nell’aria e chi invece sbatte le ali più goffamente, ma tutti paiono irridere dall’alto gli umani, bloccati nel traffico convulso. Il tempo sembra fermarsi, all’improvviso si sente libero come quegli uccelli che si stagliano lungo la linea dell’orizzonte.
A lungo aveva ripetuto a sé stesso ciò che aveva sempre sentito in cuor suo, ovvero che prima o poi sarebbe arrivato il momento di fermarsi e di lasciare definitivamente il lavoro ma ora, tutto d’un tratto, l’uomo si accorge come sia ben differente essere veramente giunto al fatidico traguardo. Non prova ansia, non sente alcuna fretta interiore perché non ha più scadenze ufficiali né orari da rispettare. In fin dei conti, ha deciso di congedarsi anche per questo motivo. Adesso vuole godersi, per qualche minuto almeno, l’ebrezza di quella che in molti considererebbero la mera follia di un soggetto balzano. Ma lui è convinto che la vita sia una sola e che ognuno debba essere l’attore principale della propria esistenza. Libero, cioè, di commettere errori, di mangiarsi le mani, di giocare le proprie carte e anche di tornare indietro, ma non di avere rimpianti per ciò che poteva essere e che non è stato.
Improvvisamente gli torna in mente il ricordo della mezz’ora successiva al suo esame di maturità, anche se ormai sono passati tanti anni. Ripensa a quel gustoso senso di liberazione per la fine degli studi, delle ansie e delle valutazioni ma anche, al contempo, seduto su una panchina in mezzo al parco all’ombra di un imponente gelso spogliato delle sue more, a quella domanda che si affacciava per la prima volta nella mente di un ragazzino spaurito che, del mondo, ancora non conosceva quasi nulla:
“E ora, cosa faccio della mia vita?”
Oggi si ritrova con la barba incolta di tre giorni e molti meno capelli, indossa una giacca di velluto che sta per essere riposta nell’armadio visto che la primavera sta ormai bussando alle porte, una maglia a maniche corte di colore rosso, scarpe sportive numero quarantanove che vent’anni prima avrebbe fatto molta fatica a trovare in un negozio, dei jeans che potrebbero forse anche assomigliare a quelli che vestiva da maturando e l’immancabile fazzoletto a righe di stoffa nella tasca posteriore. Sorride fra sé e sé, illudendosi di non essere cambiato così tanto nel tempo e, se certamente lui non è riuscito a migliorare il mondo come avrebbe sperato, magari può custodire la segreta speranza di non essersi fatto travolgere totalmente.
Tutti sono ormai partiti per le proprie destinazioni e nel quartiere ora regna la quiete più inerte, i veicoli strombazzanti sono già un ricordo lontano. Immerso nel silenzio, Antonio percepisce che, da qualche parte, per lui c’è una nuova storia, tutta da scoprire e da scrivere. Se fosse un giovane studente correrebbe ad acquistare un quaderno bianco, a righe o a quadretti non fa differenza, curioso di scoprire in che modo si sarebbe poi riempito e colorato, giorno dopo giorno.
Senza fretta si riavvia e torna al suo appartamento, che dista dieci minuti a piedi dall’ufficio, entra nel piccolo giardino, sale le scale del condominio fino al terzo piano ed apre la porta. Incredibile a dirsi, si accorge per la prima volta di alcuni dettagli che gli erano sempre sfuggiti: una piastrella rotta, il portone esterno che richiede una nuova tinteggiatura, il vaso di gerani con una crepa, un quadretto al muro con un sole sorridente che irradia uno splendido paesaggio ma che si è inclinato vistosamente.
Volge allora lo sguardo alle bottiglie lasciate sul tavolo, sparuti residui della lunga serata precedente, nella quale ha festeggiato l’addio lavorativo insieme ad alcuni suoi ex colleghi. Ecco, ora può affermare, senza rischio di esser più contraddetto da nessuno, che tutti loro fanno parte esclusivamente del passato. Tra gli avanzi di una torta di mandorla e il cesto della prima frutta fresca di stagione, distrattamente contempla i regali ricevuti. Gli ospiti si saranno certamente dannati l’anima per indovinare cosa potesse davvero servirgli ora, in questa sua veste nuova e sconosciuta. Una sedia a dondolo con annessa copertina a quadri verdi e blu, un paio di pantofole, un mazzo di carte, un frullatore, un rhum delle Antille, un cofanetto contenente una rassegna di imprese sportive del lontano passato, un tosaerba. Grazie a loro, si rende conto che potrebbe provare a diventare un perfetto uomo di casa, qualità che non gli è mai appartenuta totalmente.
Inizia, lentamente, a sistemare la sala senza troppa convinzione e, quasi subito, decide di stendersi sul divano e accendere la televisione. Non la guarda quasi mai, se non per qualche documentario e un po’ di sport, però ora che sta iniziando la nuova vita da disoccupato ritiene giusto dare a tutti gli strumenti un’ulteriore possibilità. Scorre i canali in modo blando, ma non trova nulla che riesca davvero ad appassionarlo.
Mentre sta già iniziando a sbadigliare stancamente, una stilla di energia lo fa rialzare dal divano.
“Antonio, forza e coraggio! Non restartene qui fermo senza far nulla. In fin dei conti, hai detto che l’avresti fatto, e l’hai fatto!”
Emma Gatewood
“Ho detto che l’avrei fatto e ho mantenuto la promessa.”
Questo pronuncia, il 25 settembre 1955, una signora di quasi sessantotto anni di nome Emma. La donna è alta meno di un metro e sessanta, indossa un giaccone rosso a quadri e, calzando il suo settimo paio di scarpe dall’inizio dell’avventura, si trova in cima al monte Katahdin, nel Maine, ovvero nello stato più a nord-est degli Stati Uniti. Proprio in quel punto, una targa incastonata su un monumento di pietra recita:
“Katahdin, termine nord del Sentiero degli Appalachi che si estende dal Mount Oglethorpe in Georgia per 3.300 chilometri”.
Emma Rowena Caldwell è madre di undici figli e nonna di ventitre nipoti e non ha mai avuto una vita facile. Nata e cresciuta in una sperduta fattoria dell’Ohio, insieme a quattordici fratelli e con un padre veterano disabile della Guerra Civile, si sposa a soli diciannove anni con Percy Gatewood. Quello che all’inizio pare un matrimonio felice si rivela essere, dopo pochi mesi appena, un vero incubo: il marito la picchia ripetutamente in modo brutale, le rompe denti e costole e una volta quasi la uccide. La donna più volte pensa di andarsene via ma, non avendo alternative, continua a lavorare duramente nella fattoria e, nei momenti felici, passeggia per i boschi e porta la prole a fare lunghe passeggiate in mezzo alla natura. La violenza però continua ed Emma, nel 1937, lascia i suoi bambini più piccoli alle cure dei fratelli maggiori e fugge dalla madre in California, corrispondendo per alcuni mesi tramite lettere prive di indirizzo per impedire di farsi trovare da Percy. L’anno successivo decide di tornare indietro, in quanto i figli sentono la sua mancanza e, per contribuire alle disastrate finanze familiari, lavora come ispettrice statale, coltiva l’orto e intreccia tappeti.
Il marito non smette di picchiarla e, all’inizio del 1941, dopo più di trent’anni di matrimonio, Emma ottiene il divorzio, un risultato incredibile per l’epoca. Anche se non riceverà mai il pagamento degli alimenti da parte dell’ex coniuge, compiuto il mezzo secolo di vita la donna è finalmente libera. Senza più vincoli inizia a viaggiare frequentemente, rinnova la casa e scrive poesie sulla natura, sugli uomini, su Dio, sulla vita, sugli uccelli e sulle chiatte che scorrono lungo il fiume, pubblicando anche una raccolta:
“Ho rifatto i muri e i pavimenti
e per poco non perdevo i sensi
quando il denaro non c’è
bisogna fare da sé”.
Anni dopo, leggendo una vecchia copia del National Geographic in uno studio medico scopre l’esistenza del Sentiero degli Appalachi. Le foto di quell’articolo riescono ad ammaliare la donna in modo irresistibile: mostrano un cucciolo d’orso aggrappato ad un albero, giovanissimi escursionisti nel Vermont e una ragazza lungo un crepaccio vicino a Bear Mountain. Il sentiero percorre quattordici stati e venne ideato da una guardia forestale nel 1921, con l’idea di collegare fattorie, campi di lavoro e luoghi ideali per lo studio della natura, lungo i territori impervi, poco popolati e storicamente abitati dai nativi americani Cherokee e Muskogee, detti Appalachi, letteralmente “popolo dall’altra parte”; pur essendo zone relativamente vicine all’oceano Atlantico, le montagne più antiche del continente impediscono ai primi pionieri stanziatisi, in prevalenza famiglie di migranti irlandesi, inglesi e scozzesi, qualsiasi contatto con gli abitanti della costa.
Nel 1948 il veterano dell’esercito Earl Shaffer è il primo in assoluto a percorrere l’intero “Appalachian Trail” e, meno di un decennio dopo, Emma tenta a sua volta l’avventura. Senza dire nulla ai figli, nonna Gatewood parte portando con sé una semplice sacca che pesa solamente otto chilogrammi e indossando normali scarpe da ginnastica.
Per mesi l’arzilla camminatrice trascorre le notti nelle abitazioni e nelle cascine di coloro che le offrono un giaciglio, all’interno dei bivacchi allestiti lungo il percorso o, più frequentemente, sotto il cielo stellato, sopra un mucchio di foglie e, per ripararsi dalle piogge, in improvvisati ripari di fortuna; una volta, un temerario porcospino vuole a tutti i costi offrirle compagnia e, incurante dei pericoli e delle regole del bon ton, si accoccola su di lei sul pavimento di un rifugio. Serpenti a sonagli, tempeste, ragazzi che la canzonano dandole della vecchia vagabonda, uragani, il guado di torrenti impetuosi, uomini che rifiutano di accoglierla impedendole anche solo di riposarsi per qualche ora, un ginocchio dolorante, una storta alla caviglia ma, soprattutto, tanta umanità e una natura incommensurabile: Emma incontra di tutto durante la sua straordinaria impresa.
Passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, l’incredibile vicenda entusiasma i giornalisti, i quali iniziano ad attenderla lungo il tracciato e a fare di tutto per poterla intervistare.
“I giornali mi hanno scoperta”, scrive un giorno la donna sul suo diario.
“Molti, arrivati all’età di sessantasette anni, si siedono in poltrona. Non è questo il caso della signora Gatewood di Gallipolis, Ohio. Il 3 maggio Emma Gatewood, madre di undici figli tra i ventisette e i quarantasette anni, ha cominciato a percorrere i tremilatrecento chilometri del Sentiero degli Appalachi dalla Georgia al Maine. Ad oggi questa sessantasettenne ha già camminato per millecinquecento chilometri”, riporta il “News Virginian”, in prima pagina, alla fine di giugno.
Quando ormai è stato svelato e diffuso il suo progetto, l’intrepida camminatrice si decide ad avvisare i figli, rimasti a lungo all’oscuro delle intenzioni della madre.
“Fino a ieri non sapevamo con precisione che avesse in mente, anche se cominciavamo a nutrire dei sospetti”, dichiara senza un minimo di preoccupazione il figlio maggiore Monroe. “Nostra madre è una grande amante della vita all’aria aperta, gode di ottima salute, e cammina più spedita di molte persone ben più giovani di lei.”
In un’intervista alla “United Press”, Emma spiega senza mezzi termini uno dei motivi principali che l’hanno portata ad affrontare quel lungo viaggio in solitaria:
“Dopo aver cambiato pannolini per vent’anni e aver visto i miei figli crescere e prendere la loro strada, ho deciso di fare una passeggiata: quella che avevo sempre desiderato di fare.”
Col passare dei giorni, gli imprevisti lungo il percorso aumentano, a causa dei dolori fisici che si fanno via via più lancinanti, del peggioramento delle condizioni atmosferiche e perché le montagne del Maine sono le più ardue da oltrepassare. Inoltre, riuscire a mantenere perfettamente curato e in buone condizioni un sentiero lungo migliaia di chilometri grazie alla sola dedizione di tanti volontari risulta essere spesso un’impresa improba e, in un momento in cui la fatica e lo scoramento iniziano a predominare, quando ormai le mancano solamente pochi giorni al raggiungimento del fatidico traguardo, alla giornalista Mary Snow di “Sports Illustrated” la donna racconta:
“Ne ho sentito parlare per la prima volta in un articolo che ho letto tre anni fa: parlava di quanto fosse bello, ben segnalato e pulito. Diceva che alla fine di una giornata di cammino era facile trovare un rifugio. Ho pensato che sarebbe stato un bel passatempo, ma mi sbagliavo. C’erano zone devastate dagli uragani, aree incendiate dove i segnali non sono mai stati sostituiti, smottamenti di sabbia e ghiaia, erba alta fin sopra le orecchie, e quasi tutti i rifugi erano distrutti, bruciati o così sporchi che ho preferito dormire fuori. Questo non è un sentiero: è un incubo. (…) Un indiano morirebbe dal ridere se vedesse un sentiero del genere. Se avessi saputo quanto era impegnativo, non sarei mai partita, ma non potevo e non volevo gettare la spugna.”
Ed Emma non si arrende, giungendo trionfalmente in vetta al Mount Katahdin, così come si era ripromessa nel momento della partenza, cinque mesi prima. Conclusa la fenomenale avventura, a chi le chiede consigli candidamente spiega:
“Prendi un mantello da pioggia e una tracolla, acquista un paio di robuste scarpe da tennis Converse. Fermati per la spesa nei negozi locali e compra wurstel… la maggior parte delle altre cose da mangiare si trova ai lati del sentiero.”
Negli anni successivi la signora Gatewood ripete per altre due volte il Sentiero, scrivendo però qualche cartolina in più ai figli, per rassicurarli e tenerli aggiornati.
“Care Lucy, Louise eccetera,
ieri sera al fiume ho trovato ad aspettarmi una ventina di persone. Due giornalisti, quattro guardaboschi e altri. Penso che mi fermerò tra una decina di giorni. Mi sono presa così tanto tempo per fare visita alla famiglia. Sto bene e mi sto godendo la mia giovane vita. Spero altrettanto di voi. Con affetto, Mamma.” (7 settembre 1957)
Nel 1959, a oltre settant’anni, nonna Gatewood parte dal Missouri, superando poi, sotto il sole cocente, il Kansas, il Nebraska, il Wyoming, l’Idaho e l’Oregon, giungendo a Portland novantacinque giorni dopo, accolta da circa cinquemila persone entusiaste sotto la calura d’agosto. Completata con successo questa ennesima avventura “Grandma Gatewood”, Nonna Gatewood, viene definita dai giornali come “l’escursionista più amata d’America”.
Nel 1968 il suo ex marito Percy, che ha sempre affermato di non ricordare nulla delle violenze inferte ad Emma ormai tanti anni prima e descritto dai compaesani come un nonno affettuoso nei confronti dei nipoti, si ammala gravemente. In punto di morte, le chiede di giungere al suo capezzale almeno per un ultimo saluto ma la donna, capace di camminare per migliaia di chilometri tra boschi, pianure e montagne, affrontando e superando difficoltà impossibili per chiunque e, soprattutto, per una signora della sua età, si concede il diritto di rifiutarsi di percorrere quei pochi passi verso il suo capezzale.
Emma si spegne nel 1973 all’età di ottantacinque anni, ma le sue gesta rimangono indelebili. Come dichiarerà Laurie Potteiger, responsabile dei servizi di informazione dell’Appalachian Trail Conservancy:
“È diventata un’icona e il simbolo del Sentiero degli Appalachi per ogni americano. È in una categoria a sé. Anche Earl Shaffer ha lasciato un’eredità importante, ma come eroina popolare Grandma Gatewood ha un posto speciale. La sua vicenda ha un fascino immediato.”
Tra le tante poesie scritte da Emma durante le sue esperienze all’aria aperta, questa racchiude più di tutte il senso del viaggio e della scoperta della natura, che immensa e meravigliosa ci ricorda quanto sia piccolo l’essere umano dinanzi ad essa.
La ricompensa della natura
“Se andrete per i monti
e dormirete su tappeti di foglie
se vivrete l’immensità della natura
e la bellezza del paesaggio
i vostri problemi svaniranno
e capirete che non è l’uomo ma il Creatore
ad aver dato forma alle montagne e alle foreste,
frutto di una Forza superiore.
Se abbiamo fede nella Sua forza
e ci fondiamo con il regno della natura
scopriremo un gioiello assai prezioso
di una bellezza imperitura.
Perché l’amore per il mondo è la cura
basta provare
e la ricompensa non si farà aspettare
se si va oltre ciò che l’occhio può guardare.”
2
“Addio Tabita, buona vita.”
Michela sente alle sue spalle, ormai in lontananza, la voce del suo ex marito.
La firma del definitivo divorzio è appena stata apposta, in un austero tribunale nel centro di Roma, davanti a un freddo funzionario più intento a ordinare pratiche e scartoffie che a considerarli davvero. Termina così, in un battito di ciglia, una storia d’amore quasi ventennale, sbocciata tra i banchi di scuola in un lontanissimo mese di aprile, ripassando una lezione sulla terza guerra d’indipendenza, sdraiati in un prato tra violette e margherite.
La professoressa Mariotti si stava avvicinando finalmente alla fatidica pensione, ma continuava a rappresentare un concreto spauracchio per la maggioranza dei suoi studenti. Michela, più appassionata alle materie letterarie che a quelle scientifiche, amava scrivere poesie d’amore e perdersi nello studio di epici scenari tracimanti di dame, cavalieri, eroi e capitani di ventura. A quel tempo praticava sport con soddisfazione, era divenuta campionessa provinciale di corsa campestre e custodiva, con orgoglio, nella sua cameretta dalle pareti giallo ocra al primo piano dell’appartamento dei genitori, il quadretto che ne immortalava il trionfo, con lei sorridente sul gradino più alto del podio, la medaglia al collo e i lunghi capelli biondi liberi al vento.
Mentre iniziava a intravedere all’orizzonte l’esame della sospirata maturità liceale, nel poco tempo libero a disposizione aiutava volentieri i compagni di classe maggiormente in difficoltà: Giuseppe era tra questi. I due si erano sempre trovati simpatici, ma nel passato non vi era mai stato alcun segnale che avesse potuto far intuire il sentimento che poi sarebbe sbocciato. Galeotte erano state, invece, le complicate ripetizioni sulle guerre di Lissa e di Custoza e chissà, probabilmente anche il celebre “Obbedisco”, di garibaldina memoria, nei confronti della richiesta avanzata dal Re Vittorio Emanuele II. Quel pomeriggio le loro vite si stravolsero all’improvviso, con il carico di vigore e il travolgente ardore tipici dell’età.
Il matrimonio aveva suggellato l’amore, una cerimonia sobria ma piacevole, con una cinquantina di invitati in tutto, tra parenti stretti e amici intimi, in un delizioso agriturismo immerso tra i monti della Maiella, il luogo natale della famiglia di lei dalla notte dei tempi. La giovane sposa era giunta al fatidico appuntamento con in tasca una fresca laurea in Scienze internazionali e diplomatiche conseguita nella capitale mentre a lui, che aveva scelto Milano come sede universitaria, mancavano ancora cinque esami di ingegneria civile e, tra questi, quello di “Scienze delle Costruzioni” era quello che turbava maggiormente i suoi pensieri. Continuare a frequentarsi nonostante la distanza non era stato affatto semplice, ma i loro sentimenti non si erano dissolti e i due giovani studenti avevano perseverato a incontrarsi regolarmente ogni quindici giorni: un fine settimana saliva lei, la volta successiva scendeva lui. Mentre un’orchestrina intonava “Romeo and Juliet” dei Dire Straits, si erano baciati appassionatamente con il magnifico tramonto appenninico sullo sfondo, promettendosi vicendevolmente una lunga ed entusiasmante vita insieme. Si erano poi trasferiti in provincia di Viterbo, in una villetta a schiera con un bel giardino e due gattini, immaginando di vivere le loro esistenze lungo i dolci crinali della Tuscia, accoccolati tra borghetti troppo sottovalutati dal turismo di massa.
Con lo scorrere degli anni, però, la passione aveva via via lasciato spazio alla triste monotonia e, in seguito, a una fredda indifferenza. La loro favola, sbocciata in primavera, giunge così al capolinea nella stessa identica stagione e, con il profumo degli alberi ormai in fiore, quelle firme davanti all’impassibile burocrate con occhiali da vista dalle lenti spesse e nere suggellano, finalmente, la fine ufficiale di un rapporto già morto e sepolto. Michela è ben consapevole che tale momento, prima o poi, sarebbe arrivato ma, nonostante percepisca distintamente il senso di liberazione da un giogo che la faceva stare male da troppo tempo, una lacrima furtiva e impietosa le scende sul viso, mentre si appresta a inforcare la sua adorata bicicletta verde, acquistata anni prima di seconda mano da un amico meccanico.
Tabita, l’appellativo con cui viene salutata dal suo ormai ex marito, la fa sobbalzare in modo impercettibile, come colpita da una scossa leggera ed inaspettata. Mentre ricambia quell’addio doloroso con un rapido gesto della mano, stando ben attenta a non incrociare uno sguardo quanto mai pesante, si accorge che nessuno la chiamava più in quel modo da tantissimo tempo. Al punto che se ne era praticamente dimenticata anche lei.
Tabita, gazzella in aramaico, è così che veniva soprannominata da ragazzina, mentre con le lunghe e agili falcate si dilettava tra le corse campestri e le mezze maratone.
“Forza, Tabita! Dai, Tabita! Resisti, Tabita!”
Allo stesso modo la incoraggiavano, negli anni dell’università, i compagni con i quali aveva iniziato a condividere la passione ciclistica, mentre sudavano insieme su per i colli e lungo le erte del centro Italia durante il fine settimana. Tabita, un soprannome che l’aveva sempre affascinata e che aveva accettato di buon grado, in quanto capace di infonderle un profondo senso di libertà interiore.
Quella libertà che ora, seppur non nelle modalità che sognava da piccolina, sembrava finalmente tornare a far parte della sua vita.
“Dovrei avvisare i parenti al paesello del mio ennesimo fallimento…” pensa sospirando per un attimo, contraddicendosi però subito dopo, in un impeto d’orgoglio. “No, non lo farò adesso. Ora ho bisogno di dedicare del tempo a me stessa, ne sento intimamente la necessità.”
Questa è la sua unica certezza, mentre si alza sui pedali e poi svolta a sinistra al primo trafficato incrocio, lasciandosi definitivamente alle spalle la vita precedente.
“Michela, devi reagire. Sei una donna ed è giunta l’ora di dimostrarlo. Ciò di cui hai bisogno è il coraggio di credere in te stessa e di andare avanti passo dopo passo.”
Kathrine Switzer
Amberg è una cittadina della Baviera di circa 40.000 abitanti, famosa soprattutto per un ponte i cui archi che si riflettono sulle acque del fiume paiono assomigliare a un paio d’occhiali. In questa località tedesca nasce, il 5 gennaio 1947, Kathrine Virginia Switzer. Figlia di un maggiore dell’esercito degli Stati Uniti, la piccola Kathrine a soli due anni lascia la Germania e, insieme alla famiglia, torna in patria e si trasferisce a vivere nello Stato della Virginia. Soprannominata Katy dagli amici, da ragazzina diviene studiosa di giornalismo e di letteratura inglese e ama tantissimo correre a piedi.
In quest’epoca, alle donne sono riservate solamente gare di atletica su brevi distanze, in quanto si ritiene che i loro fisici siano troppo deboli per poter affrontare percorsi maggiori. Farle partecipare addirittura a una maratona è, quindi, assolutamente fuori discussione. Una delle più celebri, storiche ed affascinanti maratone degli Stati Uniti è certamente quella di Boston, istituita addirittura nel 1897, ovvero l’anno successivo alla prima edizione dei Giochi Olimpici moderni, organizzati ad Atene. Proprio al loro ritorno dalla Grecia alcuni atleti raccontarono di questo evento massacrante, ma pure assolutamente romantico, che godeva di tale nome in onore della piana di Maratona dalla quale, secondo la leggenda, il soldato Filippide era partito per comunicare, entusiasta, ai concittadini la vittoria contro l’esercito persiano, giungendo nella sua capitale, dopo circa quaranta chilometri, allo stremo delle forze e morendo nel momento del fatidico annuncio.
La ventenne Kathrine decide di cambiare la storia dello sport, ma anche il futuro di tutte le donne, progettando di partecipare proprio alla maratona di Boston. Siamo nel 1967 e a nulla possono le perplessità del suo allenatore Arnie Briggs, all’inizio assolutamente poco convinto della volontà della ragazza. Arnie ha cinquant’anni, fa il postino presso l’università di Kathrine e ha già corso per quindici volte la competizione.
“Nessuna donna può correre una maratona!”, esclama. Aggiungendo però, subito dopo, in un tono maggiormente conciliante:
“Se una donna potesse farlo, tu potresti farlo. Ma prima dovresti dimostrarmelo. Se correrai la distanza in allenamento, io sarò il primo a portarti a Boston.”
Tale auspicio pare rappresentare una sorta di benedizione per la ragazza, che inizia ad allenarsi duramente per provare a scrivere una pagina indelebile dello sport al femminile.
“Ho un allenatore, un compagno di allenamento, un piano e un obiettivo: la corsa più grande del mondo, Boston!”
Già l’anno precedente un piccolo grande scandalo aveva investito la competizione, in quanto Roberta Louise “Bobbi” Gibb aveva chiesto di iscriversi e, vedendosi rifiutare la richiesta, il giorno della gara aveva indossato i bermuda di suo fratello e una felpa di colore blu con il cappuccio, si era nascosta tra i cespugli vicini alla linea di partenza e, dopo il colpo di pistola che aveva suggellato il via, si era infilata in mezzo agli altri partecipanti, completando l’intero percorso in meno di tre ore e trenta minuti, precedendo all’incirca i due terzi degli atleti e, soprattutto, dimostrando al mondo intero come le donne potessero correre ben oltre il miglio e mezzo, ovvero la distanza massima a loro riservata fino a quel momento.
In realtà il regolamento della maratona non menziona il sesso degli atleti, ma le reazioni alla prestazione di Bobbi Gibb sono furenti, tanto che il direttore della “Boston Athletic Association” Will Cloney sbotta in modo perentorio:
“Le donne non possono correre la maratona perché le regole lo vietano. Se non avessimo regole, la società sarebbe nel caos. Io non faccio le regole, ma cerco di metterle in pratica. Alla maratona non abbiamo spazio per nessuna persona non autorizzata. Se quella ragazza fosse mia figlia la sculaccerei.”
L’anno successivo Katy Switzer capisce che è giunto il momento, per l’intero movimento femminile, di compiere un’altra impresa: riuscire a percorrere l’intero percorso della maratona ma, questa volta, alla luce del sole, non più in incognito, senza numero e nascondendosi sotto ad un cappuccio.
“Ciò di cui abbiamo bisogno è il coraggio di credere in noi stesse e di andare avanti passo dopo passo.”
La giovane, alcune settimane prima della corsa, procede quindi con l’iscrizione. Paga i tre dollari della quota e, ben sapendo che non sarebbe stata accettata con il suo nome femminile, si firma semplicemente con le iniziali. L’atleta KV Switzer, di conseguenza, elude i controlli e ottiene l’inserimento nell’elenco dei partecipanti.
Martedì 18 aprile 1967, in un clima freddo e piovoso, quattro persone partono per un lungo viaggio di cinque ore a bordo di un pulmino: sono Katy Switzer, il suo compagno e lanciatore di martello “Big” Tom Miller, l’allenatore Arnie e un atleta della squadra di sci di fondo dell’università, John Leonard. La loro destinazione è Boston, città nella quale l’indomani è in programma la celeberrima competizione.
“È importante per me finire la gara”, dichiara Kathrine al telefono ai suoi genitori, mentre si trova in un motel a Natick. La mattina della prova, la giovane si gusta un’abbondante colazione, mangiando bacon, uova, succhi di frutta, pancake, caffè, toast, latte e tutto ciò che trova sulla tavola imbandita. All’esterno tira un forte vento e c’è nevischio. In una giornata davvero terribile dal punto di vista metereologico, a mezzogiorno viene dato il via ufficiale: tra i 741 partecipanti c’è anche il numero 261 KV Switzer.
I primi chilometri vengono percorsi senza problemi, tra la folla entusiasta che applaude, assiepata ai bordi delle strade. Katy procede sicura, insieme ai suoi compagni d’avventura, ma già dopo circa quattro miglia il camion dei fotografi, avendo riconosciuto una donna lungo il percorso, inizia a seguirla e a fotografarla continuamente. All’improvviso, un uomo molto robusto la afferra per la spalla urlando:
“Togliti dalla mia corsa e dammi quel numero!”
È il direttore di gara, Jack Sample, che la contrasta fisicamente per impedirle, a qualsiasi costo, di proseguire, ma il compagno “Big” Tom, martellista dal fisico davvero possente, lo colpisce e lo scaraventa violentemente a terra. Il tumultuoso momento viene immortalato da uno scatto che entrerà nella storia.
Dopo l’increscioso intermezzo, Kathrine prosegue il percorso nel terrore, convinta di essere l’unica vera causa del violento tafferuglio, temendo di finire in prigione e rimanendo nel dubbio se quel Jack fosse stato ucciso, o ferito gravemente, dal suo fidanzato.
“Sapevo che se avessi smesso, nessuno avrebbe mai creduto che le donne avessero la capacità di correre un’intera maratona; se avessi smesso, avrei portato lo sport femminile indietro, molto indietro, invece che avanti. Se mi fossi ritirata, Jack Sample e tutti quelli come lui avrebbero vinto. La mia paura e la mia umiliazione si trasformarono in rabbia.”
Lungo il percorso il camion della stampa non abbandona mai la ragazza. Le domande che i giornalisti le rivolgono sono tutt’altro che amichevoli:
“Cosa stai cercando di dimostrare?”
“Quando smetterai di correre?”
In mezzo alla neve che ormai scende copiosa, però, Katy non si arrende e non si ritira. Corre tutti i chilometri rimanenti, mentre una ridda confusa di pensieri la sovrasta:
“Perché altre donne non corrono? Forse hanno creduto a tutti quei vecchi miti secondo cui la corsa rovini gli organi riproduttivi e nessuno ha dato loro l’opportunità di smentire questa assurdità. I miei genitori e Arnie, invece, mi hanno dato questa possibilità: non sono speciale, ma solo fortunata. Il motivo per cui non ci sono sport intercollegiali per le donne nelle grandi università, o borse di studio, o premi in denaro, o gare più lunghe di 800 metri è perché le donne non hanno l’opportunità di dimostrare di volere quelle cose. Se solo potessero partecipare, sentirebbero il potere e la realizzazione e la situazione cambierebbe. Dopo quello che è successo oggi mi sento responsabile di creare quelle opportunità.”
Tremendamente dolorante, con le vesciche ai piedi e i calzini intrisi di sangue, Kathrine taglia il traguardo in modo trionfante, insieme ai suoi compagni John e Arnie, completando il tracciato, senza aver mai camminato né essersi fermata, in quasi quattro ore e trenta minuti. Mentre pochissimo pubblico è rimasto ad attenderli al gelo, uno scontroso giornalista le rovescia addosso domande aggressive:
“Cosa te lo ha fatto fare?”
“Mi piace correre, più la distanza è lunga e meglio è.”
“Perché Boston? Perché hai indossato un numero?”
“Anche le donne meritano di correre. Pari diritti, lo sai.”
“Tornerai a correre di nuovo?”
“Sì.”
“Banneranno il tuo club.”
“E noi allora cambieremo il nome al nostro club.”
“Sei una suffraggetta?”
“Eh?! Pensavo che avessimo ottenuto il diritto di voto nel 1920!”
Un’ora più tardi giunge al traguardo, tutto barcollante, anche Tom, il compagno di Kathrine, e l’intero gruppo si avvia lungo la strada del ritorno. Pur non essendone ancora perfettamente consapevoli, sono riusciti a riscrivere la storia dello sport e a firmare una pagina fondamentale in favore dell’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna. Il giorno successivo tutte le copertine dei giornali riportano le foto della giovane podista mentre è intenta a correre o quando viene aggredita da Jack Sample, oppure mentre taglia il traguardo con i calzini insanguinati ma colma di gioia.
Negli anni seguenti Kathrine si impegna attivamente per promuovere la partecipazione delle donne alle varie maratone organizzate in giro per il mondo. Inoltre, parteciperà in prima persona ad oltre trenta competizioni, trionfando in quella di New York del 1974.
Nel 1984 le maratone femminili entrano ufficialmente tra le specialità olimpiche. La prima gara ad assegnare l’oro, l’argento e il bronzo alle donne si svolge all’interno dei Giochi di Los Angeles.
Nel 2017, a cinquant’anni esatti da quella storica giornata del 1967, Kathrine partecipa ancora una volta alla maratona di Boston. Gli organizzatori le riservano lo stesso numero di allora, ovvero il 261. Si decide, poi, che il medesimo numero non possa essere mai più assegnato a nessun altro atleta, rimanendo riservato per sempre alla donna che è riuscita a compiere un’impresa incancellabile in favore della parità tra i sessi, di una prestazione capace di fuoriuscire dall’ambito meramente sportivo e di entrare, a pieno titolo, nel mito.
A Boston, il numero 261 rimarrà legato in modo indissolubile a Kathrine Switzer.
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