Sul letto c’erano due scelte.
Prima opzione: vestitino nero di lana a collo alto con manica lunga e gonnellina svolazzante.
Seconda: camicia a quadrettoni scozzesi con jeans aderenti.
A terra uno stivaletto basso, adatto ad entrambe le soluzioni.
La casa era vuota, per una volta ero riuscita a farmi la doccia senza essere disturbata dalla frase Mamma ho fatto!, o senza dover mediare e gestire alcun litigio.
Non avevo ricevuto agguati alle spalle da elfi di Babbo Natale, personaggi di Stranger Things o Ronaldo entusiasta dopo aver segnato un goal.
Il risultato? Uno smalto perfettamente in posa e senza sbavature.
Avevo potuto scegliere le canzoni che desideravo ascoltare: non commerciali, non spagnole e non quelle del vincitore dell’ultima edizione del talent show del momento.
I ragazzi erano da mia sorella Carla, che aveva promesso loro due giorni di fuga nella sua casa di campagna, tra natura e ottimi manicaretti.
Mio marito Luca ne aveva approfittato per organizzarmi un’uscita a sorpresa: “Fatti ancora più bella, stasera andiamo in un posto che ti piacerà”.
Uno dei rari sabato sera da soli.
Guardavo le due scelte sul letto; avrei dovuto concentrarmi su quella per la serata, ma il mio unico pensiero era che ciò che avrei scartato, lo avrei quasi sicuramente utilizzato in quel fatidico giovedì.
Poi Luca mi ha cinto i fianchi e mi ha dato un bacio sul collo coperto dalla lana del vestitino nero.
Non ci sarà nessun giovedì, ho pensato, e con questa decisione sotto braccio e Luca per mano, ho spento la luce di casa e sono uscita.
Sorpresa meravigliosa: Jimmy Sax suonava all’EuAuditorium.
Non me l’aspettavo, pensavo ad una cena romantica, qualche bevuta in giro per locali e una notte a folleggiare nudi in casa, invece la serata è iniziata accesa, spettacolare, diversa.
Quando si sono spente le luci, tutti attendevamo che l’artista comparisse sul palco, ma la luce si è accesa al centro della sala: Jimmy si era seduto tra il pubblico di nascosto, ha estratto il sax dal mantello che lo copriva fino ai piedi ed ha iniziato a suonare No man no cry, accompagnato dalla Symphonic Dance Orchestra diretta da Vincenzo Sorrentino.
Due ore di calore e pura magia.
Quando siamo usciti mi sentivo elettrizzata, avevo ancora voglia di divertirmi e di fare le ore piccole.
Ci siamo fermati a bere qualcosa al Quanto Basta. L’alcol cominciava a farmi effetto.
Sono andata a sciacquarmi il viso, mi sono osservata allo specchio del bagno e ho visto una giovane me.
Mi piacevo. Sono tornata a testa alta con passo sicuro, senza staccare gli occhi da quelli di Luca.
Mi ci sono avvicinata e gli ho sussurrato piano:
Stava aspettando me professore?
Ero intento ad osservare la tua gonnellina. Si alza piano quando cammini.
Si sta chiedendo cosa ci sia sotto?
(La mia lingua gli stava solleticando l’orecchio).
So cosa ci sia sotto, ma non so quanto sia morbida.
Mi dia la sua mano.
Non posso, mia moglie sta arrivando.
Venga in bagno, solo pochi minuti.
Mi sono allontanata, girandomi appena mentre stavo per varcare la soglia.
Poi sono sparita.
Luca si stava già alzando, guardandosi intorno. Aveva uno di quei sorrisi che mi fanno girare la testa dall’eccitazione.
È entrato, ha girato la chiave dell’antibagno, quello dove di solito si lavano le mani sia gli uomini che le donne e che nessuno chiude.
Io ero girata di spalle, lo guardavo attraverso lo specchio con le mani appoggiate al lavandino, il sedere un po’ rialzato, quasi in punta di piedi. Mi muovevo lentamente con voglia, il mio corpo era un richiamo, gli diceva di prendermi.
Lui però non mi ha presa: si è avvicinato, mi ha coperto gli occhi con una mano e con l’altra è salito piano piano, dal ginocchio all’interno della coscia.
Mi ha sfiorata con un dito, un solo accenno, uno di quelli che fanno vibrare.
Poi mi ha scostato le mutandine di lato e ha cominciato ad accarezzarmi con sempre più trasporto, scendendo ed assaggiandomi di tanto in tanto, per poi smettere d’improvviso quando sentiva che avrei goduto. Mi sono guardata allo specchio mentre lo imploravo di non fermarsi.
Poi la maniglia si è abbassata due o tre volte.
Ci siamo ricomposti velocemente.
Io con calma ho girato la chiave e, mentre un ragazzo imbarazzato si infilava erroneamente dentro al bagno delle donne, Luca mi ha sorriso e mi ha detto piano: Stasera tu vieni a casa con me e mia moglie.
Così è stato: abbiamo fatto l’amore un po’ ovunque in casa, fantasticando sulla presenza di una sconosciuta tra noi. La domenica mattina mi ricordavo metà serata, il resto me lo sono dovuta far raccontare.
La giornata è volata tra fiumi di acqua e medicinali per il mal di testa.
La sera mi sono resa conto che mancassero quattro giorni al giovedì e io ancora non avevo preso una decisione, ma in quelle condizioni, nauseabonda e stanca, proprio non ne avevo voglia e mi stavo autoconvincendo di non andare.
Il telefono ha squillato, era mio figlio Martino, che con voce pimpante ed entusiasta mi ha spiegato la ricetta dei muffin al cioccolato e frutti di bosco che aveva preparato con la zia. Ho capito solo la parola bosco.
Nel mentre riflettevo sul fatto che io e Luca avremmo dovuto ritagliarci più spazi per noi e che nei giorni seguenti avrei dovuto ricercare una babysitter da chiamare più di una sera al mese.
L’unica che abbiamo avuto, è stata nel periodo in cui Luca aveva aperto la gelateria all’Isola dei Moli: Rebecca e Chiara avevano tre anni e Martino pochi mesi.
Avevo pubblicato un annuncio di ricerca su un sito apposito: tata qualcosa. Avevamo bisogno di una persona che potesse partire e alloggiare con noi per tutta l’estate e che mi aiutasse con i bambini.
In cambio avremmo offerto vitto, alloggio e compenso mensile.
Tra le tante persone, aveva risposto all’annuncio una ragazza di nome Lewa. Ricordo di aver cercato l’origine del nome su internet.
È un nome africano. È nata in Nigeria, infatti. La sua voce mi aveva subito trasmesso qualcosa:era sicura e potente, ma calma, armoniosa e amorevole.
Avevo fissato un colloquio per conoscerla di persona e vedere che approccio avesse con i bambini.
Il giorno dopo era già a casa nostra.
Ricordo di essermi sentita quasi indifesa quando è entrata.
Il suo corpo era imponente: alto, pieno, sodo, bellissimo. Bella, come il significato del suo nome. Aveva la pelle molto scura e un sorriso bianco, che spiccava come la mezza luna nella notte. I capelli cortissimi e una fascia-turbante colorata e floreale la rendevano originale e briosa. Diciannove anni.
Mi disse di avere esperienza con i bambini, perché la sua famiglia era molto numerosa ed essendo la sorella maggiore si era occupata dei suoi fratelli da quando lei stessa era ancora una bambina.
In quell’occasione non raccontò molto di sé e ne ho capito la motivazione solo qualche mese dopo.
Si era scusata per il suo italiano stentato, anche se in realtà lo parlava piuttosto bene, considerando fosse in Italia da soli due anni.
Mi stava raccontando come fosse stata la sua vita da piccola, del fatto che dovesse percorrere chilometri a piedi, scalza, con sgabellino e tavolino sulla testa, per raggiungere il villaggio in cui era presente la scuola più vicina, quando Martino ha iniziato a piangere.
Quello è stato il momento in cui ho capito che dovesse essere lei la nostra scelta.
Con compostezza mi chiese se in casa avessimo un lenzuolo pulito.
Rimasi sorpresa, ma annuii e andai a prenderne uno. Martino piangeva sempre più forte. Aveva sonno.
Porsi il lenzuolo a Lewa, lei lo piegò in due parti e se lo sistemò sulla schiena, con i lembi a penzoloni sui fianchi.
Poi mi chiese il permesso di prendere in braccio Martino e lo appoggiò proprio sulla sua schiena, con un movimento che, per quanto rapido e agile, mi fece quasi venire un infarto.
Con Martino coperto fino al collo, avvolto dal lenzuolo dietro alla sua schiena, Lewa riprese il discorso da dove l’aveva lasciato, muovendosi energicamente mentre parlava, come inscenando un balletto sul posto.
Mio figlio in meno di due minuti dormiva e Lewa è stata assunta.
Siamo partiti per l’Isola dei Moli poche settimane dopo. I bambini già adoravano il buon umore di quella frizzante ragazza che, devo ammettere, aveva contagiato anche me.
Poco tempo dopo, una sera, quando i bambini erano già a letto, siamo riuscite a sederci in terrazza, solo io e lei: non c’era molta gente in gelateria e Luca sarebbe riuscito a cavarsela da solo.
Non avevamo mai avuto il tempo di parlare di noi prima di allora, indaffarate come eravamo nel combattere tutto il giorno con pappe e pannolini.
Il silenzio regnava su quella terrazza e per la prima volta ho scorto la mezza luna bianca scomparire dal volto di Lewa.
Con composta irrequietezza, ha cominciato: “Quando ti guardo accarezzare il viso di Martino appena si addormenta, vedo mia madre.
Quando ero piccola lei lavorava tutto il giorno e io mi occupavo della famiglia, come fosse un patto tra noi, una routine ormai consolidata.
Ogni sera, io ero l’ultima a cui desse la buonanotte:una carezza lenta e un bacio caldo sulla fronte.
Se n’è andata quando avevo otto anni e da quel momento ho vissuto con mia nonna, che ora ha ottantasette anni.
Andavo a scuola e contemporaneamente lavoravo: già a quell’età, come tanti bambini in Nigeria, ero raccoglitrice di lattice.
Incidevo il tronco degli alberi di caucciù e raccoglievo il liquido che ne usciva.
La mia vita non era agiata, ma tranquilla. Avevo la mia famiglia e mi bastava.
Poi tutto cambiò.
Francesca Mauro
Anteprima che esprime tutta la bellezza del libro…non vedo l’ora di leggerlo!! Bravissima l’autrice!!