Dei passi leggeri lo distrassero, mentre guardava la luna così luminosa e bella, seduto sulla vecchia sedia di legno di quercia, sul portico di granito. Alex saltò giù dalle sue ginocchia, tornando pigramente dentro casa.
«Non riesci a dormire tesoro?», chiese Simona, cingendogli le spalle per dargli un bacio sul collo.
«Russi come un trattore», disse lui.
«Non è vero», rispose lei, accarezzando i suoi capelli.
Andrea si girò e le diede un bacio.
«Ti ho svegliata?», le chiese.
«Cosa scrivi? Sai, ho fatto un sogno. Eravamo in Islanda. Su una mongolfiera. Stavamo sorvolando un vulcano, poi con un boato ha eruttato una colonna di fumo che ci ha fatto salire in alto velocissimi. Sempre più in alto. Avevo i piedi gelati. Infatti mi sono svegliata e tu non c’eri a scaldarmeli».
«Ti piacerebbe tornarci?»
«Certo. Ho voglia di fare un viaggio. In qualsiasi posto. E’ tanto che non ce ne andiamo in giro.»
«Devo ancora finire quel progetto con tuo cugino. Ci vorrà una settimana credo. Hai tutto il tempo di organizzare.»
«Non voglio organizzare nulla. Ho voglia di partire e basta. Fammi vedere cosa stai scrivendo.»
«Non è niente. Scrivevo di quando ti ho conosciuta.» Lei sbirciò i fogli.
«E’ bellissimo. Ti amo tesoro», disse, baciandolo.
Andrea la guardava. Ogni giorno che stava con lei, pensava che fosse sempre più bella. Ogni giorno scopriva qualcosa di nuovo. Una sua mania, un suo gesto, una frase divertente. Era come sfogliare un libro senza fine.
Certo. Litigavano talvolta. Lei era sempre risoluta, lui cocciuto. Lui era solitario e lei faticava ad esplorare questo suo lato. Ma Andrea sentiva che la sua presenza stava dolcemente invadendo anche il suo mondo interiore.
«Anche io ho fatto un sogno», riprese a parlare lui.
«Era più bella di me?», chiese lei mordendogli l’orecchio.
«Direi proprio di no. Ho sognato la statua nera. Era tutto confuso. Non riesco mai a ricordare bene il posto.»
«Hai fatto lo stesso sogno altre volte?» «Credo di si. E’ difficile dirlo, perché non ricordo mai bene. Ma mi rimane sempre questa sensazione. La statua nera e un luogo indistinto.» Si sedette anche lei, di fronte a lui, poggiandogli i piedi sulle ginocchia.
«Quella cosa non esiste più», disse lui, cercando di dissolvere i brutti ricordi.
«Lo so. Sono solo sogni. Forse, come dici tu, la mia testa ci sta dicendo che dobbiamo fare un bel viaggio avventuroso.»
«Esatto. Ma questa volta ce lo godiamo.» Le colline ricoperte di macchia mediterranea, si illuminarono della luce del sole, piano piano. Il prato davanti alla casa era imperlato di rugiada. Il profumo intenso della terra umida risaliva e una leggera brezza lo trasportava verso il mare azzurro, poco lontano.
Simona tornò a dormire un poco, mentre Andrea attese che il sole fu alto. Poi camminò attorno alla casa, dando una sistemata qua e la agli arbusti. Quando sentì odore di caffè, rientrò. Simona era ai fornelli che spadellava.
L’ampio ambiente dava una sensazione rassicurante, i muri in pietra come si faceva un tempo, il pavimento di tavole di quercia consumate dagli anni, l’arredamento moderno che si integrava con lo stile antico.
«Hai fame tesoro? Io si. Sto facendo delle frittelle.» Fecero colazione. Dopo un po Simona gli chiese: «Vuoi che chieda a mamma se ha qualche rimedio per dormire? Mi ricordo che da piccola, faceva una specie di infuso per papà.»
«Sicura che non mi avvelena?»
«Che scemo. Lei ti vuole bene, lo sai», rispose ridendo.
Squillò un telefono.
«Si, pronto», rispose Simona. «Ciaooo! Quanto tempo…Noi bene…Immagino si…Lavoro più che altro…Si, infatti…Davvero? Non ci credo!…Ma certo! Non vedo l’ora! Ok…perfetto.»
Andrea la guardò incuriosita.
«Sai chi era? Non ci crederai mai. Da quanto non la sentivo! Che bello. E sta venendo qui! Ha chiesto se poteva stare da noi e le ho detto di si ovviamente.»
«Chi?», chiese Andrea, sospettoso.
«Laura! Domani arriva.»
«Davvero!»
Anche l’umore di Andrea cambiò subito. Era da quell’incredibile viaggio che non la vedevano, già un anno fa. Tutto si era adeguato in una normale quotidianità, anche se per Andrea era stato un cambio di vita importante. E ora, la sua chiamata li riportava indietro, risvegliava in loro l’emozione nutriente dell’avventura.
«I tuoi sogni! Erano un segno.»
«Non vedo l’ora di vederla», disse lui.
«Anche io. Dici che ci sarà anche Manuela? Non mi ha detto nulla.»
«Quando hai detto che arriva?»
«Domani sera. Mi ha chiesto se possiamo andare a prenderla ad Elmas.»
«Io penso di liberarmi a fine mattina. Dopo pranzo, tuo cugino deve fare il giro dei cantieri.»
«Non vorrà portarti con lui?», chiese lei.
«Sicuramente, ma tanto non ci faccio nulla. Vuole solo compagnia. Se la caverà da solo.»
Il resto della giornata fu emozionante.
La mattina dopo lei andò in paese a cercarle un regalo. Durante quel periodo, aveva ripreso a lavorare, ma si era ripromessa di non lasciarsi travolgere dagli impegni e dallo stress. Riusciva a fare gran parte del lavoro da casa e non prendeva mai troppi impegni. Per cui era sempre libera di fare quello che voleva. Aveva ritrovato se stessa.
Nel pomeriggio andò in ufficio a prendere Andrea. Suo cugino, come aveva detto lui, era già uscito da un po. Arrivarono all’aeroporto con largo anticipo, per cui si rilassarono davanti ad un buon caffè.
L’aereo da Milano atterrò. La zona di arrivo era piena di persone che aspettavano amici e parenti. Ogni volta che le porte scorrevoli si aprivano al passaggio dei viaggiatori, le facce si aprivano ai sorrisi e, talvolta, a lacrime di gioia. Simona e Andrea osservavano le scene, fino a che lei si materializzò con un grande sorriso. Li abbracciò, salutandoli con affetto. Aveva una piccola borsa. Per festeggiare, quella sera andarono in un bel ristorante. Laura e Simona non la smettevano di parlare, cercando di aggiornarsi su ogni minuto passato da quando si erano viste l’ultima volta. Andrea le ascoltava, riuscendo talvolta a fare qualche commento.
Arrivarono a casa. Laura non la smetteva di guardarsi attorno, compiaciuta, e di fare i complimenti agli amici. Poi, si accomodarono sul porticato, bevendo vino e continuando a chiacchierare fino a che, stanchissimi, andarono a dormire.
Quella notte il sonno di Andrea fu sereno.
La mattina dopo Simona, allegra, stava imbandendo una colazione degna della regina d’Inghilterra, mentre Andrea spizzicava, facendola imbestialire.
Laura scese le scale, gli occhi gonfi, la voce roca.
«Buongiorno ragazzi».
«E’ bellissimo qui, davvero. Grazie di avermi ospitata.» Ripresero a chiacchierare. Andrea si era ormai rassegnato. Non che gli dispiacesse. La voce di Simona era sempre dolce e piacevole, per lui. Laura aveva un timbro più forte, quasi maschile.
Ad un certo punto lui disse, con un po di fatica, riuscendo ad interrompere il fiume di parole:
«Ragazze, io devo proprio lasciarvi. Ho da finire quei disegni a lavoro.»
«Certo amore. Noi ce la caviamo anche senza di te», disse Simona, con un cenno distratto della mano.
«Ne sono sicuro.»
«Andre, Simona ha promesso di portarmi in giro, oggi», disse Laura, «Ma non prendere impegni per stasera. Devo parlarvi di qualcosa di importante», concluse misteriosamente.
«Di cosa devi parlarci?», chiese Simona.
«Non avere fretta. Ora voglio solo conoscere i tuoi negozi preferiti. Ne parleremo stasera».
«Va bene.»
«Allora a stasera», le salutò Andrea.
«Ciao tesoro», Simona gli diede un bacio.
«Ciao ragazzo, a stasera», le fece eco Laura.
Le lasciò che chiacchieravano allegre. Arrivò in ufficio mezzora dopo, guidando tranquillamente nel poco traffico. Non vedeva l’ora di finire gli ultimi particolari del progetto. Marco, un cugino di Simona, aveva vinto un grosso appalto per la realizzazione di un grande centro servizi, moderno e funzionale. Sarebbe stato il fulcro delle attività culturali e burocratiche di tutta la provincia. All’inizio Andrea era un po scettico. Aveva sempre immaginato la Sardegna come una regione pigra e lenta, tradizionalista e forse anche un po fatalista.
Ma si era ricreduto. Aveva conosciuto tante persone risolute, con grande inventiva e voglia di fare, anche fra i politici. Per molti di loro il problema principale rimanevano le lungaggini statali. Era come se ai politici del «continente» volessero mantenere uno sterile controllo, bloccando le iniziative. Certo, anche i politici sardi avevano le loro responsabilità nel mantenere una sorta di immobilismo.
Lui stesso un po si vergognava, perché, proprio come tutti i «continentali», aveva accumulato tanti preconcetti verso i sardi.
L’ufficio era in una bella palazzina di fine ottocento, ristrutturata in modo delizioso, poco lontano dal lungomare.
«Ciao Andrea», lo salutò Marco appena lo vide entrare.
«Ciao Marco.»
«Ho fatto fare tutti i calcoli che mancavano. Appena finisci quegli ultimi ritocchi sulle facciate e sul parcheggio, siamo pronti.»
«L’assessore ti ha fatto sapere?»
«L’ho sentito ieri sera. Dice che è tutto a posto. Il mese prossimo ci fanno partire.»
«Bene. Sono molto contento. Io conto di finire domani o dopo. Non vedo l’ora che inizino i lavori. Non sai quanto!»
«Pensa io invece! Il direttore della banca mi stava facendo un po di storie. Ho dovuto alzare la voce. Ma ho sistemato.»
«Non avevo dubbi. Quando ti fanno girare le balle, sei una forza della natura. Spero di non farti mai un torto.»
«Sei troppo buono, Andrea. Non mi incazzerò mai con te. E poi, non ne trovo altri bravi così.»
«Troppo gentile.»
«Come sta quella bella gnocca di mia cugina? Non la sento da un po.»
«Sta bene. Sempre più gnocca.»
Pensare a lei gli faceva sempre bene. Credeva di essere fin troppo fortunato di averla affianco, di poterla accarezzare ogni giorno, sentire la sua voce. Talvolta si chiedeva quanto sarebbe durato ancora tutto questo. Quando era un po giù di morale, immaginava di dover tornare in quel buco a Torino, lontano da lei. Gli venivano i brividi.
«Sai, è venuta a trovarci una cara amica, che non vedevamo da un po. Bhe, in realtà non è un’amica di vecchia data. Ma sai, quelle persone che da subito ti vanno a genio? Lei e Simona vanno molto d’accordo.»
«Si, ti capisco. Io vedo ancora spesso la mia ex suocera. Ormai sono più di due anni che ci siamo lasciati con Lisa. Sento anche lei, però con la mamma ho un bellissimo rapporto. E’ una delle poche persone con cui riesco a confidarmi.»
«Non avevo idea che ti confidassi con qualcuno, Marco. A dir la verità dai l’idea di un uomo tutto d’un pezzo.»
«Bando alle ciance. Mettiti a lavoro.» «Subito capo!», rispose Andrea ridendo.
Si mise di gran lena davanti al grande schermo. Guardando i disegni, si riempì di orgoglio. Lavorò tutta la mattina senza staccare un attimo. All’ora di pranzo si fermò nella piccola cucina affianco all’ufficio per prepararsi un panino. Sarebbe potuto tornare a casa, ma voleva lasciare le ragazze sole e portare avanti il lavoro.
Nel frattempo Marco era uscito a fare il giro dei cantieri. Quando tornò la sera, il sole era già sceso e Andrea era ancora chino sul lavoro.
«Sei ancora qua?», gli chiese.
Andrea alzò lo sguardo su di lui, con gli occhi stanchi e gonfi.
«Si, ma ora mi sa che stacco. Dai un’occhiata.» Marco si sedette al suo fianco, osservando i futuri edifici in tre dimensioni, come se fossero già costruiti.
«Mi piace.», disse lui.
Poi, rimasero un po a discutere di alcuni particolari. In passato avevano trascorso notti intere sul progetto. Ma ormai erano in dirittura d’arrivo, con solo qualche dettaglio da perfezionare.
Si salutarono. Marco lo invitò al bar, ma lui preferì tornare a casa. Era stanco ed era molto curioso di quello che doveva dirgli Laura.
Le ritrovò, come sospettava, nel salottino, con un bicchiere di vino bianco, che parlottavano. Probabilmente non avevano smesso di farlo dalla mattina.
Simona si alzò, dandogli un bacio, mentre Laura li guardava con un sorriso.
«Amore, non avevo voglia di cucinare. Ho ordinato la pizza, quindi ti tocca uscire a prenderla.»
«Ma come? Io pensavo che volessi portare Laura a mangiare fuori, in riva al mare.»
«Ma figurati», rispose Laura, «Le ho detto io di ordinare la pizza. Si sta così bene qui da voi. E’ tutto bellissimo.»
«Sono felice che sei venuta sai?», le disse lui.
«Anche io sono contenta di avervi rivisto. Ora, vai a prendere la pizza, si.»
«Agli ordini mie signore», rispose lui con un inchino reverenziale. Poi si infilò di nuovo il cappotto e uscì.
La loro pizzeria preferita non era molto lontano, per cui fu di rientro poco dopo.
Rimasero a cenare nel salotto, seduti per terra.
Mangiarono e parlarono per un po. Laura faceva un sacco di domande ad Andrea, sul lavoro, su come si trovava a vivere in Sardegna. Lui si sentiva un po a disagio ad essere al centro dell’attenzione.
«Ma dicci, qual’è la cosa importante di cui volevi parlarci?», la interruppe, cercando di cambiare argomento.
Lei rimase un po in silenzio, come per riordinare i pensieri.
«Facciamo una passeggiata fuori?», chiese, alzandosi.
Simona e Andrea annuirono, alzandosi pure loro.
Il prato era piacevolmente fresco, nella sera tiepida.
«Che bello qua. Si sentono tantissimi profumi. Su al nord da noi, mi sembra di avere sempre addosso puzzo di fumo», disse Laura ad un certo punto.
«E’ vero», confermò Andrea. «Da quando sono qua, mi sembra tutto più luminoso e profumato.»
«Vi ricordate Vladimir?», chiese lei.
Simona si scurì subito in volto. Quel nome le ricordava gli errori che aveva commesso, appena si era ristabilita nella sua vecchia casa, con i genitori.
Andrea la teneva stretta, come per proteggerla dai brutti ricordi.
«Un po dopo che ci siamo lasciati, un’anno fa ormai, ho avuto occasione di parlarci. Beh, è stato un po burrascoso. Era ancora convinto di portare a termine il suo progetto. Era con la moglie, Heida. Ci siamo incontrati proprio qui in Sardegna. Lui stava ancora cercando il modo di riprendersi la statua. Era fuori di se. Heida cercava continuamente di tranquillizzarlo. Ho dovuto raccontargli che fine avevano fatto le altre statue. Erano giorni che vi cercava, senza tregua, come un pazzo. Alla fine, in qualche modo, con l’aiuto della moglie, siamo riuscite a farlo ragionare, a farlo desistere.»
«Io l’ho guardato negli occhi. Non posso credere che un uomo così risoluto, possa desistere. Non ci credo», disse Simona.
«Non lo so, ma abbiamo passato una notte intera a parlare. Dice che era ossessionato dalle statue. Da quando, per caso, era incappato in quella nera, in Islanda. Diceva che era come se gli parlasse. In qualche modo scoprì che c’erano altre statue, statue buone, statue nutrienti. Capì che avevano un potere speciale e volle averle per lui. Proprio l’opposto di quello che facciamo noi dell’Organizzazione.»
Fece una pausa, accendendosi una sigaretta.
«E fin qua, niente di nuovo. Più o meno sapevate già tutto.» Si sedettero su delle sedie in vimini, a ridosso di un olivastro.
«Mi ha confidato dell’altro, però», continuò lei.
«Durante le sue ricerche, ha scoperto dei particolari interessanti. Come avete visto anche voi sul manoscritto di Chetham, pare che le statue siano state create in un tempo lontano e imprecisato tramite rituali a noi sconosciuti, incanalando l’energia della terra, creando monili protettivi per la gente. Talvolta queste procedure, pare siano andate storte. E questo ha dato vita alle statue scure, che venivano relegate in luoghi remoti, perché pericolose e cattive. Una era sicuramente quella di Vladimir che, non si sa come, fu portata in Islanda.»
«Potrebbe essere che anche li conoscessero il rito delle statue. Forse è stata creata proprio li, per errore», suggerì Andrea.
«Non lo sappiamo. In realtà non sappiamo assolutamente nulla sui creatori, sulla loro origine, su chi fossero. Forse era una pratica diffusa in tutta Europa. Ma, per quanto ne sappiamo, potrebbero essere cinesi, o alieni.»
Il vento leggero si era quasi fermato. La sera divenne umida e silenziosa, come se gli alberi e le rocce volessero ascoltare quella storia.
«Quello che mi ha confidato lui, è che è convinto di aver scoperto l’esistenza di almeno altre tre statue nere, da frammenti di lettere, stralci di manoscritti, vaghe informazioni.»
«E’ tutto molto interessante e inquietante. Ma perché ce lo dici?», chiese Andrea.
«Come sapete noi dell’Organizzazione stiamo cercando di salvaguardare le statue buone, di evitare che vengano portate via dai loro luoghi, cerchiamo di nasconderne l’esistenza, per quanto possibile. Ma, siamo pochi dopotutto. Non so se siamo abbastanza per riuscire anche a scovare le statue nere, e cercare di distruggerle.»
Calò il silenzio, appena disturbato da un lontano, cupo tuono, in mezzo al mare.79 d.C.
La terra riarsa era dura e polverosa.
«Su! Cammina. Ancora un po!»
Il povero Antonio incitava lo sfortunato mulo che arrancava, spossato dalla lunga giornata sui campi.
«Antonio, andiamo!», urlò Sextus al limitare del campo. Stava già tirandosi dietro il piccolo carretto colmo di legna per la notte.
«Ho quasi finito! Ti raggiungo, comincia ad andare» «Va bene. Sbrigati. E’ quasi buio», gli rispose Sextus. Poi iniziò a risalire la stradina, lastricata con sparuti pietroni.
Antonio arrivò quasi alla fine del filare.
«Per Giove. Cos’è questo?», esclamò d’un tratto.
Il vecchio aratro si era incastrato in un pietrone.
«Maledetta terra infame! Per poco non spezzavi l’aratro, stupido mulo.»
Si chinò per rimuovere la pietra. Sembrava nera, appena poco sotto la superficie.
«Ma cosa. Che diavoleria è mai questa?» Quello che aveva interrotto il suo lavoro non era una pietra normale. Era piccola, dopotutto, ma stranamente pesante. Ed era scolpita con fattezze grottesche e inquietanti. Due profonde fessure sembravano fissare il contadino, da una testa gonfia e malvagia. Dai grossi seni flaccidi, si capiva che era una femmina. Una femmina degli inferi. Le braccia e le gambe parevano quasi tentacoli.
Antonio la tenne in mano, pulendola dalla terra. Era fatta con una pietra nera, lucente e liscia. Non aveva mai visto niente del genere, neanche nei templi delle Parche. Decise di avvolgerla in un vecchio straccio che aveva con se.
Una strana sensazione lo pervase. Lasciò il lavoro, tirando via il mulo verso casa.
«Cos’hai ora? Andiamo a casa.»
Antonio cercava di tranquillizzare il mulo, stranamente inquieto.
Quella sera arrivò tardissimo. Per tutto il tragitto dovette quasi trascinare l’animale. Alle porte della città, prese la via Consiliare. Non c’era quasi più nessuno. Il buio aveva ormai invaso le belle strade in pietra, le eleganti ville, i templi, il foro e le povere e piccole case degli artigiani.
Si fermò davanti ad una bassa costruzione. Si infilò nel cortile, portando il mulo nella piccola stalla puzzolente.
«Ecco, il tuo mangiare.»
Entrò in casa, aprendo la piccola porta.
«Ce ne hai messo di tempo», gli disse Sextus, che aveva acceso il fuoco e stava cuocendo un po di puls.
«Hai finito, almeno?»
«Ho trovato qualcosa.»
«Cosa vuoi dire? Un coniglio?»
«Era sotto terra. Per poco non mi ha rotto l’aratro.» Tirò fuori dalla sacca il fagotto e lo svolse davanti alla luce del fuoco, il cui bagliore ne faceva risaltare il lineamenti grotteschi.
«Che cos’è mai? Non ho mai visto una dea di tali fattezze.»
«Non ne ho idea. Domani la porto al Flamine.» Riavvolse la statua e la poggiò sul davanzale della porta.
Mangiarono in silenzio. I raccolti non andavano bene. I due fratelli erano arrivati a Pompei da pochi anni dall’Etruria e ancora si ostinavano a non piantare ulivi, come tutti facevano da quelle parti.
La mattina dopo, all’alba erano già pronti alla lunga giornata di lavoro. Antonio era stanchissimo. Aveva dormito poco, svegliandosi più volte in preda agli incubi.
«Vado dal Flamine. Porta tu il mulo», disse Antonio al fratello, avviandosi verso il tempio.
Lungo la strada dovette inchinarsi ad alcuni patrizi. Di solito i contadini passavano da quelle parti sono in occasione di riti e feste.
Arrivò al tempio di Giove e si fermò all’ingresso. Le limpide colonne di marmo lo intimorivano. Alcuni schiavi stavano lentamente sistemando il tetto, crollato 15 anni prima durante il terremoto.
Attese che qualcuno uscisse per concedergli il permesso di entrare. Dovette aspettare un po, ma non disdegnava di passare un po di tempo in pace, senza faticare.
Infine, un ragazzo con una bella tonaca uscì. Chiese il permesso di entrare, chiedendo del Flamine. Il ragazzo gli disse che poteva aspettarlo nella cella.
Attese ancora un po, fino a che vide arrivare il sacerdote.
Lo salutò, cercando di essere più reverenziale possibile, ma lui, nelle sue ricche vesti, pareva piuttosto scocciato.
«Volete spicciarvi, o avete deciso di invecchiare appollaiati lassù?», urlò rivolto agli schiavi, che accelerarono di poco il lavoro.
«Tu cosa vuoi? Non vedi che stai imbrattando il tempio, con i tuoi luridi sandali lerci di letame.»
Antonio, si inchinò quasi fino a terra, evitando di guardarlo. Non disse nulla. Gli porse il fagotto, tenendo le braccia dritte in alto.
«Cos’è questo?», il sacerdote gli stappò il fagotto.
«Vattene. Che Giove sia con te», lo liquidò.
Antonio si precipitò giù dai gradini del tempio. Si sentiva sollevato.
Viridus, il sacerdote, poggiò il fagotto su un piccolo altare, alla base della statua di Minerva. Lo svolse e, per lunghi attimi rimase attonito.
Era affascinato. Scorreva le lunghe dita ossute sulla superficie, quasi in adorazione. Infine, si chinò, intonando delle invocazioni.
«Non so chi tu sia», diceva, «Ma sento il tuo potere. Riserverò alla tua persona, un posto degno di te, affianco a Giove.»
Chiamò a gran voce due schiavi, che si precipitarono. Gli ordinò di rimuovere una bellissima statua di Giunone al cui posto poggiò la statua nera, dopo aver fatto andare via gli schiavi.
Nel grande spazio lasciato da Giunone, la statua pareva piccola e grottesca ma singolarmente presente.
Rimase in adorazione per tutta la mattina. Sentiva una strana energia fluire nel corpo.
Non riuscì neanche a mangiare. Nel pomeriggio tornò alla sua dimora e fece un invocazione per scoprire l’origine della statua e cosa potesse rappresentare.
Non smise di pensarci e di fare elucubrazioni fino a che il tramonto non scese e ancora mescolava polveri alla luce delle candele, fino a che crollò, spossato, in un sonno turbato da oscure visioni.
La mattina seguente fu al tempio alle prime luci dell’alba. Non vi erano neppure gli schiavi ancora. Quella cosa era li, illuminata dai raggi del sole che filtravano fra le colonne. Si prostrò ancora e ancora, pervaso dalla febbre. Arrivarono gli schiavi a riprendere il lavoro senza neanche badargli.
Il sole si alzò. Gli schiavi erano madidi di sudore, appollaiati sul tetto.
«E’ ancora li che prega», disse uno di loro, mentre raddrizzava una tegola.
«Non avrei mai portato quella cosa qua dentro. Farà infuriare gli dei. Non so cosa gli sia preso», rispose un’altro.
«Continuate a lavorare», urlò un terzo, «Non vorrete beccarvi qualche scudisciata?»
«Non c’è nessuno stamattina. Solo questo vecchio pazzo quaggiù»
«Stai zitto! Vuoi farti impiccare?» Attorno al tempio non c’era nessuno, ma dal tetto gli schiavi potevano vedere che anche negli altri quartieri il movimento era poco. C’era una strana luce, come se il sole non riuscisse ad illuminare la città.
«C’è qualcosa di strano», disse ancora uno degli schiavi.
«Lo sentite anche voi? Puzza di zolfo. E il cielo si sta oscurando, ma non ci sono nuvole.»
«A me pare che il tempio si stia muovendo. Non sarà di nuovo un terremoto?»
Gli schiavi smisero di lavorare, improvvisamente allarmati. Iniziavano a percepire vibrazioni leggere, che sembravano venire dal profondo della terra. I tremolii sembravano aumentare sempre più.
Per strada, la gente pareva agitarsi. Molti uscivano dalle case, interrompevano le loro attività, guardandosi attorno allarmati.
Dal tetto del tempio di Giove, gli schiavi rivolsero lo sguardo verso la montagna poco lontano, scura e minacciosa. Pareva che la sommità vomitasse fumo. Leggere spirali che si innalzavano nel cielo. A quella vista gli schiavi iniziarono ad avere paura.
«Che sta succedendo?»
«Non è il terremoto. Io c’ero. Era diverso. E’ la montagna che si sta svegliando. Dobbiamo fuggire subito!»
«Non possiamo andarcene. Ci frusteranno a morte.»
«Moriremo se non fuggiamo.»
Gettarono via gli attrezzi e si precipitarono giù per la traballante scala in legno. Vedevano il flamine prostrato davanti alla statua, come se niente stesse succedendo attorno a lui. Fecero appena in tempo ad arrivare sul terreno che una forte scossa fece schiantare la scala. Rimasero un attimo fermi, poi presero a correre in mezzo alla folla di gente urlante. Tutti guardavano atterriti il monte che gettava fumo sempre più denso e scuro.
Gemeva e borbottava, facendo tremare la terra. Poi ci fu un boato immenso e al fumo si aggiunsero lapilli che volavano in aria altissimi e si gettavano tutto attorno, arrivando a coprire la città di una mortale pioggia di pietre di fuoco.
La gente era ormai in preda al panico. Il cielo divenne in breve nero, mentre il vulcano continuava a gettare la sua pioggia di morte. Arrivò una terribile notte di cenere. Gli schiavi, accecati come tutti gli altri, correvano come pazzi, scontrandosi fra loro, sbattendo sui muri, inciampando e rotolando.
Molti ormai stavano morendo, colpiti dai lapilli incandescenti. I più fortunati si rifugiarono negli angoli più nascosti delle stanze, ma la furia della montagna distrusse tetti e muri, gettò cumuli di soffocante cenere nera dappertutto sommergendo un’angolo di placida umanità.
Il sacerdote cieco e sordo, ancora parlava con la statua nera. La coltre di polvere e pietre infuriava nel tempio. Lui alzò lo sguardo al cielo nero. Una pietra lo colpì al viso, facendolo quasi tramortire. Un rivolo di sangue colava dalla guancia martoriata.
Si gettò sulla statua, in una sorta di amorevole abbraccio. La coprì, la tenne stretta come fosse sua figlia, mentre polvere e fuoco lo sommergevano mortalmente.
Uno degli schiavi in qualche modo riuscì a correre veloce e lontano dall’inferno. Era nero di cenere. Quasi non respirava, ma riuscì ad arrancare su per una collina a qualche chilometro da Pompei.
Il vulcano sembrava dare un po di tregua, ma continuava a sputare immense colonne di fumo e cenere.
L’uomo salì il più possibile sulle rocce. Si fermò, cercando di prendere fiato. Si voltò e crollò a terra, distrutto.
Il suo viso si rigò di lacrime dense e strazianti, alla vista di quell’apocalisse.
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