All’alba del giorno dopo, le guardie cominciarono a sbattere due scodelle tra loro per emettere un rumore assordante e svegliare gli elfi, poi, quando aprirono le celle, tutti gli schiavi erano già in piedi e pronti per l’ennesima, interminabile ed estenuante giornata ai lavori forzati. Legarono con una lunga catena unica tutte le loro caviglie sinistre e dopodiché li scortarono verso l’area di lavoro.
Delonar e Mæluan si ritrovarono in un grandissimo e buio tunnel roccioso, illuminato solo da alcune torce sulle mura; vennero fatti posizionare proprio all’inizio della lunga galleria, vicino al goblin e l’elfo dei boschi che alloggiavano nella cella di fronte a loro, e le guardie, dopo avergli dato in mano dei picconi, gli intimarono di cominciare.
«La vostra vita da oggi in poi sarà molto semplice: dovrete scavare e picconare tutto il giorno, senza fermarvi. Se siete stanchi e vi fermate, verrete frustati. Se vi mettete a chiacchierare con il vostro vicino, verrete frustati. Se cercate di fare i furbi, verrete frustati. In pratica verrete frustati per qualsiasi cosa facciate, a patto che non sia scavare e picconare» disse la guardia. «Avete capito, schiavi?!».
«Sì, padrone!» esclamarono Delonar e Mæluan terrorizzati, dopodiché cominciarono a lavorare e le guardie si allontanarono.
Mentre picconavano la parete, il goblin chiese sussurrando al capitano Mæluan come mai anche loro si trovassero lì; Mæluan lo guardò con la coda dell’occhio ma continuò a lavorare, non voleva essere beccato dalle guardie a parlare con lui, ma il goblin insisteva, così, per farlo zittire, Mæluan gli sussurrò velocemente che la loro nave era affondata e che lui e Delonar erano naufragati lì a Gora. L’elfo dei boschi diede una gomitata al goblin, dicendogli di stare zitto perché sapeva bene che era vietato parlare, inoltre non voleva più sentire la sua fastidiosa voce.
«Perché non mi fai smettere tu di parlare, allora?» disse il goblin con un ghigno beffardo, cercando di stuzzicarlo, restituendogli a sua volta la gomitata.
L’elfo dei boschi cercò a tutti i costi di ignorarlo, ma lui continuava a provocare e alla fine non ce la fece più: i due iniziarono a picchiarsi, Delonar li guardò e non sapeva cosa fare, Mæluan gli consigliò di farsi gli affari suoi ma prima dell’arrivo delle guardie, l’elfo alto cercò di dividerli. Ovviamente gli schiavisti li videro, corsero verso di loro ordinandogli di stare fermi, li presero e li fecero mettere a terra, poi diedero a tutti e tre, dieci frustate a testa.
«Ma si può sapere qual è il vostro problema?!» esclamò Delonar, a bassa voce, dopo che le guardie se n’erano andate. «Per colpa vostra mi sono preso dieci frustate!».
«In realtà la colpa è la tua, elfo alto. Sei tu che ci hai diviso, potevi farti gli affari tuoi!» rispose il goblin, ancora con quel tono beffardo.
«Lascialo perdere, gli piace provocare le persone» suggerì l’elfo dei boschi. «Non abbassarti ai suoi livelli facendo il mio stesso errore, è già abbastanza difficile la vita qui dentro…» il goblin guardò i suoi compagni ridendo sotto i baffi, poi tutti e quatto ripresero a lavorare senza fare un fiato, proprio come gli era stato ordinato.
Circa un’ora dopo, arrivarono di nuovo le guardie ma stavolta scortavano un orco dai capelli neri con il taglio moicano, gli occhi marroni e la barba medio-lunga legata con una treccia, e un elfo oscuro molto magro dai capelli bianchi legati e lunghi, il volto un po’ scavato, un pizzetto e degli occhi rosso sangue che sembravano celare una profonda malinconia.
I due vennero posizionati vicino agli altri quattro elfi e incatenati per la caviglia sinistra come gli altri schiavi, poi le guardie gli fecero lo stesso discorso che facevano a tutti i nuovi arrivati e infine cominciarono a lavorare.
Appena gli schiavisti si allontanarono per tornare a sorvegliare l’entrata del tunnel, l’orco cominciò a fissare il goblin con aria pensierosa.
«Che c’è? Hai qualche problema, orco?» chiese il goblin, con tono irritato.
L’orco si voltò e continuò a lavorare, non voleva guai ma era sicuro di aver già visto quel goblin da qualche parte.
«Ecco, bravo. Continua a lavorare e fatti gli affari tuoi!» esclamò il goblin, non appena l’orco si voltò.
Gli schiavi proseguirono col picconare la parete rocciosa per ore, ma all’orco continuava a non convincere affatto quel goblin; era troppo sicuro di averlo già visto da qualche parte e con la coda dell’occhio continuava a lanciargli delle occhiate, finché, ad un certo punto, ebbe un’illuminazione «per gli Dei!» esclamò a bassa voce per non farsi sentire dalle guardie. «Non ci credo… tu sei Yarbiol Olb Drirguil!».
«Ma ce l’hai ancora con me, orco? Perché non continui a lavorare? È vietato parlare con gli altri schiavi e non voglio farmi frustare per colpa tua!» rispose il goblin, con aria scontrosa.
L’elfo dei boschi guardò il goblin con aria molto infastidita dopo aver sentito tutta quell’ipocrisia uscire dalla sua bocca, quindi si voltò verso l’orco e lo chiamò sotto voce «pss… amico!» gli sussurrò. «Hai ragione, è proprio lui. È Yarbiol Olb Drirguil. Ma perché lo conosci, chi sei?».
L’orco lo guardò, poi sospirò, abbassò la testa e si rimise a picconare «soltanto un povero idiota che voleva diventare ricco catturandolo…» gli sussurrò.
Yarbiol il goblin non riuscì a trattenere le risate «quindi di idioti qui dentro ce ne sono due!» esclamò. «Anche il nostro Variendæl, “l’elfo selvatico”, voleva consegnarmi alle autorità. Ma io ho fatto trascinare le sue chiappe qui dentro, insieme alle mie!».
«Stai attento, Yarbiol…!» rispose Variendæl, guardandosi attorno per assicurarsi che non c’erano guardie nei paraggi «se non ti ho ancora ucciso è solo perché non voglio scoprire quali saranno le conseguenze qui dentro…!» poi si voltò di nuovo verso l’orco «anche tu sei un cacciatore di taglie? Come ti chiami?» gli sussurrò.
«Mi chiamo Grøg e no, non sono un cacciatore di taglie» rispose l’orco. «Sono un mercenario. Un altro goblin come lui mi ha assoldato dicendomi di avere un tesoro nascosto, poi mi ha mostrato un manifesto del suo ex socio Yarbiol, dicendomi di catturarlo perché solo lui sapeva dove trovare l’oro. Ma adesso non ha più importanza perché siamo tutti morti, nessuno schiavo è mai uscito vivo dalle miniere qui a Gora…».
«Quel bastardo! Si chiamava Klurd, non è vero?» chiese Yarbiol a Grøg. «Cos’altro ti ha detto?».
«Niente» rispose Grøg. «Mi ha solo detto di aver rubato quarantamila monete d’oro e che se ti avessi preso e costretto a confessare dove le hai nascoste, potevamo dividercele».
Tutti gli altri schiavi che stavano ascoltando rimasero sbalorditi dalle parole dell’orco: quarantamila monete d’oro erano tantissime.
«Abbassa la voce, idiota!» disse Yarbiol a Grøg. «So che siamo tutti morti qui dentro, ma non voglio far sapere dei miei soldi a tutti gli schiavi del tunnel.».
Poi arrivarono delle guardie e tutti rimasero in silenzio, finché, dopo circa un’altra ora, gli schiavisti suonarono una campanella e tutti gli altri elfi smisero di lavorare; i maghi gettarono dei piatti con dentro un pezzo di carne cotto sul fuoco davanti a ogni schiavo e gli ordinarono di mangiare: la fettina aveva un aspetto orrendo e non era affatto invitante, così, prima che le guardie si allontanassero, Avrodh: l’elfo oscuro che era arrivato insieme a Grøg, molto timidamente si alzò «cos’è questa carne, signori?» chiese loro.
Tutte le guardie scoppiarono a ridere «innanzitutto devi chiamarci “padroni”, schiavo!» esclamò una di loro, colpendo il povero elfo oscuro con un forte ceffone sulla faccia. «Seconda cosa, se te lo dicessi non la mangeresti. Quindi mangia e zitto, elfo. Non provare mai più a rivolgerti ad una guardia!».
Delonar guardò l’elfo oscuro con una faccia dispiaciuta e disgustata, poi, nauseato, deglutì della saliva ed entrambi diedero un morso a quel pezzo di carne.
«L’altro giorno, quell’orco lì giù mi ha detto che ci fanno mangiare la carne degli elfi che muoiono all’interno della miniera…» sussurrò Variendæl ai due. «Io non mangio da un giorno e mezzo, non so come farò a sopravvivere qui dentro…».
Delonar e Mæluan gettarono immediatamente il piatto a terra; subito dopo di loro anche Grøg e Avrodh fecero lo stesso e tre elfi, tutti sporchi e affamati, si scagliarono immediatamente sui loro pasti per divorarli; un orco senza un occhio che raccolse la fettina di Delonar lo guardò con uno sguardo completamente spento e privo di vitalità «fate così perché siete appena arrivati…» disse. «Tra un po’ di giorni ve la divorerete questa carne» dopodiché continuò a mangiare.
Appena gli schiavi finirono i loro pasti, tornarono a lavorare per ore ed ore, finché, fattasi sera, non arrivarono le guardie per riportarli all’interno delle loro squallide celle. Grøg e Avrodh furono messi in una gabbia vicino a quella di Yarbiol e Variendæl e i sei poveri elfi, tutti sporchi e stremati, si gettarono a terra per trovare un po’ di pace su quel duro e gelido pavimento.
Prima di lasciare le prigioni, le guardie tirarono di nuovo due fette di quella schifosa carne davanti a ogni schiavo, dopodiché spensero tutte le torce, chiusero a chiave il cancello principale e lasciarono i prigionieri finalmente soli, al freddo e al buio, nella loro disperazione e turpitudine.
Delonar se ne stava accasciato nel suo angolino: anche se era buio, davanti a lui riusciva a intravedere quel pezzo di carne e sentiva gli altri schiavi mangiare; era esausto, affamato e non ce la faceva più. Alzò lo sguardo e notò Mæluan che si stava asciugando le lacrime, poi, con gli occhi lucidi, il suo compagno di cella cercò lentamente di avvicinarsi a lui «dobbiamo farlo, Delonar… se vogliamo sopravvivere…» gli disse.
Delonar abbassò lo sguardo, rimase a pensare per qualche istante e alla fine cedette: prese quella fettina e lentamente diede il primo morso: aveva la nausea, non poteva non pensare che stava masticando la carne di un povero elfo che proprio come lui era stato preso con la forza per essere sbattuto in quella miniera e costretto ai lavori forzati fino alla morte, ma purtroppo sapeva che lo aspettavano altri lunghi ed estenuanti giorni a faticare senza poter vedere la luce del sole, quindi, se non voleva perdere i sensi ed essere ucciso, doveva chiudere gli occhi, cercare di non vomitare e deglutire il boccone. Senza pensarci troppo.
Anche Mæluan finì quella carne, poi i due si accasciarono nei loro angoli e provarono a dormire. Dalla cella davanti a loro sentivano Grøg e Avrodh bisbigliare, sembrava che uno dei due stesse piangendo. Inoltre c’erano altri inquietanti rumori provenienti da celle lontane: come un elfo che sbatteva ossessivamente qualcosa sulle sbarre e da lontano si sentivano degli strani lamenti di disperazione misti a follia. Ma nonostante ciò, dopo qualche minuto, Delonar, stremato, riuscì finalmente ad addormentarsi.
La mattina seguente:
Era l’alba e come tutte le mattine, delle guardie entrarono nel tunnel della miniera cominciando a sbattere violentemente due scodelle di metallo per fare più rumore possibile; Delonar si svegliò con una fitta nel petto, non stava capendo nulla, gli mancavano le forze, si guardò attorno e vide tutti gli elfi sbrigarsi a mettersi in piedi davanti alle sbarre per farsi trovare preparati, così si alzò e fece subito lo stesso anche lui.
Le guardie passavano davanti alle celle, le aprivano e controllavano che tutti gli schiavi si trovassero nella loro postazione; davanti a Delonar c’erano Variendæl e Yarbiol che se ne stavano sull’attenti proprio come lui, e non poteva neanche immaginare cosa avrebbero fatto quei maghi se avessero trovato un solo elfo fuori posto.
Le guardie passarono davanti alla gabbia di Delonar e Mæluan, la aprirono e gli legarono le caviglie; fecero lo stesso con Variendæl e Yarbiol, per poi continuare con Avrodh e Grøg, ma appena arrivarono all’ultima cella, Delonar guardò con la coda dell’occhio e si accorse che qualcosa non andava.
«Bene, bene… chi abbiamo qui?!» esclamò una delle guardie, ridendo sarcasticamente, mentre guardava i due elfi che aveva davanti, all’interno della cella.
Uno dei due, un giovane goblin, se ne stava sull’attenti cercando di trattenere le lacrime, mentre l’altro, un elfo oscuro di mezza età, scheletrico, tutto sporco e pieno di ferite e segni di frustate, era a terra che cercava di rialzarsi, ma ogni volta perdeva l’equilibrio e non riusciva a reggersi in piedi.
«Ma che scena patetica…!» esclamò una delle guardie. «Adesso, dimostreremo ai nuovi arrivati cosa succede quando uno schiavo non si fa trovare pronto di prima mattina per andare a lavorare!».
Le guardie aprirono l’ultima cella, spinsero via il goblin e presero l’elfo oscuro, gettandolo a terra, proprio davanti ai piedi di Delonar. L’elfo oscuro alzò il viso e guardò Delonar dritto negli occhi, lui si voltò, ricambiando lo sguardo e vide tutta la vitalità e l’energia di quel povero schiavo spegnersi sempre di più «aiutami, ti prego…» disse l’elfo oscuro con delle parole che penetrarono nell’anima e nel cuore del povero Delonar, che si sentiva impotente e non poteva fare nulla per aiutarlo, perché sapeva che sarebbe stato picchiato a morte se solo avesse osato alzare un dito.
Le guardie lo presero dalle caviglie per strattonarlo verso di loro e dopodiché cominciarono a pestarlo a sangue; calcio dopo calcio, pugno dopo pugno, le inquietanti grida del povero elfo oscuro penetravano nelle menti di tutti gli altri schiavi, lasciando nei loro spiriti delle cicatrici indelebili, finché il mal capitato non ebbe neanche più la forza per urlare di dolore.
Dopo qualche istante, il suo corpo si spense e quello che le guardie stavano continuando a malmenare non era altro che un cadavere; Delonar cercò di non guardare, davanti a sé vedeva Variendæl e Yarbiol con delle facce terrorizzate e Avrodh che piangeva ma cercava di trattenersi per paura che le guardie potessero prendersela anche con lui e infine, appena smisero di pestare di botte il povero elfo oscuro, una di loro si voltò verso tutti gli altri schiavi «allora, cosa state aspettando?! Volete fare la sua stessa fine?!» esclamò. «Avanti, a lavoro, schiavi!».
Gli elfi cominciarono immediatamente a seguire i loro padroni per essere scortati sul posto di lavoro e una volta arrivati nessuno osò proferire parola; quel giorno anche a Yarbiol era passata la voglia di parlare dopo aver visto quella scena e i poveri schiavi lavorarono senza fermarsi un attimo per tutta la mattinata, finché non arrivò la pausa pranzo.
«Carne fresca, oggi la carne è più fresca del solito. Siete fortunati!» esclamò una delle guardie, che lanciava quelle fettine per terra come stesse nutrendo delle bestie.
I sei elfi si guardarono a tra loro: sapevano bene cosa intendesse quella guardia con “carne fresca”. Yarbiol stringeva quella fettina tra le mani e al solo pensiero che quello era l’elfo che avevano pestato a sangue quella stessa mattina, si voltò per vomitare quel poco che aveva nello stomaco. Variendæl, con la faccia del tutto nauseata, non la raccolse nemmeno, ma Grøg gli diede una pacca sulla spalla, guardandolo dritto negli occhi con sguardo preoccupato «so che è difficile, ma non reggerai un’altra giornata qui dentro se non toccherai cibo neanche oggi, amico…» gli disse, mentre Delonar, Mæluan e Avrodh mangiavano quella fettina in lacrime, con sempre più fatica a deglutire.
Variendæl cominciò a guardare gli altri che mangiavano e a quel punto la raccolse, chiuse gli occhi, fece un profondo sospiro e con molta fatica, mentre si sforzava di trattenere le lacrime, cominciò a farlo anche lui.
Quella giornata bastò a tutti e sei gli elfi per capire quale sarebbe stata la loro sorte: un giorno anche loro sarebbero morti proprio nello stesso modo di quell’elfo oscuro per poi essere mangiati dagli altri schiavi, e una volta terminata anche quell’estenuate sessione di lavori forzati, tornati nelle loro celle, i sei elfi si ritrovarono di nuovo soli, al buio, di fronte a quella nauseante fettina di carne di quell’elfo, del quale, sentivano ancora riecheggiare le grida di dolore nelle loro teste.
Liliana Pantanella
Letto tutto d’un fiato immaginando di vedere ogni scena e personaggio per quanto minuziosamente descritto nei minimi particolari, veramente coinvolgente, un viaggio nel tempo entusiasmante e seppur con scene di scontri forti riesce a trasmettere sempre sensazioni di dolcezza, lealtà e speranza, lo consiglio.