«Quindi, quando ti svegli, come descriveresti la tua sensazione?»
«Mi sento… arrabbiata, frustrata, come se ci fosse qualcosa che queste visioni inquietanti mi vogliano dire, come se la mia mente lavorasse per farmi arrivare a una soluzione, a qualcosa che mi è sfuggito, che è sotto i miei occhi o che è stato sotto il mio naso o che ho visto senza osservare. Attimi, indizi, persone che hanno un significato o che l’hanno avuto o forse… che l’avranno e io non sono riuscita a capirlo. Questo è quello che provo. E… sì mentre ho questi incubi sono “infiammata”. Mi sembra di aver combattuto una battaglia quando mi risveglio. Ma resisterò.»
«Eccoci qua. Siamo proprio arrivate al punto. La domanda è proprio questa: perché resistere?»
«Ma… perché è la mia natura e anche nel sogno evidentemente cerco di combattere, non lo decido io ovviamente, non ne sono cosciente, ma è così.»
«Lasciati andare, Emma, lascia che il sogno scorra, non chiamarlo incubo e non temerlo, fallo fluire. Senza opporre resistenza, cercando il controllo anche di una visione onirica. Assisti, come se fosse un film che non puoi far altro che guardare, ascoltare, studiare se vuoi, per cogliere gli indizi, ma lascia scorrere. Se continui a ostacolarlo, la storia non si evolverà come farebbe in un flusso fluido. Sono cose che già sai, che hai già visto, la tua mente sta lavorando per unire i puntini. Non controllare le righe ma osserva semplicemente il disegno che si sta creando.»
«Perché se resisto sono io stessa che mi occulto la soluzione che non potrò vedere, proprio perché impegnata a combatterla.»
«Bravissima. È proprio così. Prima di addormentarti ripetitelo. Chiudi gli occhi dolcemente pensando al respiro, la pancia si alza, la pancia si abbassa, il petto non si muove. A ogni esalazione lascia andare la tensione e sorridi sia con le labbra che con la mente, aprendoti alla soluzione. Devi percepire le braccia sprofondare pesanti nel materasso, poi le gambe, il collo, la testa, tutto il corpo…»
La procuratrice Emma Pagani si alzò dal lettino, senza attendere la conclusione della seduta. Era felice per questa nuova prospettiva. Ne aveva bisogno.
«Grazie, grazie, grazie. Ora devo andare, e non vedo l’ora che sia notte per abbandonarmi. Ciao. La prossima settimana ti dirò com’è andata.»
«Aspetta… Emma, aspe… ok, ciao.»
La psicologa voleva raccomandarsi di non avere fretta, ma la P.M., appunto, aveva fretta, quindi sarebbe stato tempo perso. L’aveva vista uscire dalla porta salutando con la manina dandole già le spalle, come faceva sempre, era il suo marchio di fabbrica.
«Buona fortuna, Emma Pagani, ne avrai bisogno,» sussurrò tra sé e sé «tanto bisogno.»
Dove corri, Emma Pagani
La falce aveva sibilato a pochi centimetri dal suo collo, mancando di un soffio il bersaglio. Si era alzata di scatto uscendo dal nascondiglio angusto e tetro dove aveva cercato riparo per sfuggire alla figura incappucciata che la stava cercando in quei corridoi umidi.
L’acqua, che le arrivava alle ginocchia, la rallentava nei movimenti e la poca luce riflessa sulla superficie del liquido anziché aiutarla a vedere la confondeva ulteriormente. Ma quella sagoma nascosta in un saio da frate sembrava non essere disturbata dall’acqua, anzi, pareva camminarci sopra come fosse una solida superficie di pietra.
Stava correndo disperatamente nella penombra mentre gli schizzi sollevati dalle sue falcate si infrangevano sulle pietre che parevano piangere per lei.
Si girava, di tanto in tanto, e per quanto lento fosse il suo incedere e per quanto veloce fosse invece la corsa della figura alle sue spalle, la distanza tra loro non mutava mai.
La luce in fondo al tunnel era l’aria che le mancava, era il cibo per la sua fame, l’acqua per la sua sete. La stava chiamando e lei la rincorreva. Ma per quanto si sforzasse di correre, la distanza rimaneva sempre la stessa, non si avvicinava né si allontanava. Come la morte alle sue spalle.
La falce sibilò ancora una volta e la colpì di striscio sulla schiena sfregiando quella pelle candida. Non sentì dolore.
Doveva correre. Non voleva morire. Non come l’agente a cui quella lama aveva staccato di netto la testa facendola rimbalzare sulle pareti del tunnel. Le era passata accanto rotolando con gli occhi sbarrati che sorgevano come l’alba e poi subito tramontavano per risorgere di nuovo il giro successivo. L’aveva scavalcata terrorizzata, il prossimo colpo era per lei.
«Dove corri, Emma Pagani, non mi puoi sfuggire né nasconderti, io sono in ogni dove, in ogni tempo, arrenditi, è la tua ora. Fammi fare il mio lavoro.»
La donna, correndo, si era girata di nuovo, per poi alla fine rallentare. Sapeva perfettamente che il colpo risolutore sarebbe arrivato prima o poi e voleva vederlo, come gli eroi che rifiutano la benda alla fucilazione, per guardare in faccia la morte e chi la farà arrivare. L’incubo di ogni soldato di un plotone di esecuzione: osservare negli occhi la persona a cui, premendo il grilletto, toglierai la vita.
Così si era fermata. E aveva sorriso a quella figura incappucciata che aveva colmato la distanza scivolando sull’acqua senza compiere un passo.
«Brava, Emma. Hai scelto bene. Inutile scappare!» Quella voce proveniva dall’oltretomba stesso, portava l’alito dell’inferno dentro di sé.
«Fatti vedere, mostrami il tuo vero volto.» La voce della donna invece era cristallina, limpida e calda, ma le sue labbra non si erano mosse.
La figura si era fermata e sotto il cappuccio un riflesso chiaro svelava le ossa che componevano quel cranio.
Tirò indietro il saio e il teschio fu così visibile nella sua spettrale bellezza.
Con una mano teneva la falce di lato.
La “Morte” ed Emma Pagani si trovavano a non più di mezzo metro di distanza e la donna poteva guardare in quelle orbite scure. La fredda figura avvicinò l’altra mano al volto della donna, sfiorandola delicatamente con le ossa gelide.
Poi la ritrasse lentamente per appoggiarsi al proprio volto, alle ossa che lo componevano. E strinse forte tirando verso l’esterno.
La maschera cadde.
Sotto quel camuffamento, gli occhi di Christian Lombardi, velati da un tono malinconico, la stavano fissando.
«Christian. Ma perché?» urlò la donna, ma la bocca non si aprì. La gola si rifiutava di far passare l’aria necessaria a emettere il suono.
La falce fu di nuovo impugnata con entrambe le mani e il sorriso dell’ispettore si trasformò istantaneamente in un ghigno malefico mentre la pelle dell’uomo diventò trasparente tornando a essere un cranio scarnificato: la “Morte”.
«Addio, Emma, ti ho tanto amata ma tu mi hai nascosto al mondo, ora devi morire per questo.»
Il tristo mietitore sferrò il colpo che partì veloce ma, mano a mano che si avvicinava al collo della donna, rallentava sempre di più fino a fermarsi a un millimetro dalla pelle della magistrata.
«Muori, Emma Pagani!»
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