Questa non è storia di legami duraturi, amori stabili e folti gruppi di vecchi amici. Nulla di tutto ciò. È la vicenda di un piccolo gruppo di persone che si sono sfiorate appena e si sono perse, vittime del destino o del proprio temperamento. È soprattutto la storia mia e di una giocoliera che ha tenuto in equilibrio alcuni di noi per il tempo necessario a divertire e divertirsi, poi nulla più. Il palcoscenico che ha ospitato il numero di destrezza è una delle valli dell’Appennino Centrale, fra rilievi mai troppo aspri, tinti di verde in estate e di grigio in inverno, sovrastati da cieli cremisi quando il sole è basso sull’orizzonte.
Investito da luce rubiconda e crepuscolare, il Medusa strizzava gli occhi e aggrottava le sopracciglia. Ad infastidirlo non erano solo gli ultimi raggi del giorno. Già, perché rivolgendosi verso di noi ha manifestato, con decisione e discrezione, una certa indisponibilità a passare la notte con gli sconosciuti lì radunati: in mattinata era stata stabilita un’uscita a tre – lui, me e Goyle – mentre ora una serata di amichevole raccoglimento si stava tramutando in un improbabile festino con gente mai vista prima. Per altro, continuava il ragazzo, dormire sarebbe stato impossibile a causa del sovraffollamento del modesto ambiente deputato ad ospitarci. La colpa dell’insoddisfacente sistemazione era da ricercarsi in chi aveva insistito per lasciare a valle la tenda e susseguentemente in chi aveva appoggiato l’assurda proposta, vincolando il gruppo all’unico riparo disponibile. In altre parole, non era sua.
Conoscevamo il Medusa e la pedanteria che lo caratterizzava, così abbiamo fatto spallucce, privandolo del piacere di farci sentire in colpa. A questo proposito posso affermare che il nome del ragazzo ne era il giusto ritratto: nasceva dal combinato disposto di forma fisica poco prestante e impareggiabile capacità di risultare urticante, dote naturale che coltivava e non mancava di tenere in allenamento ad ogni piè sospinto. Le analogie con l’invertebrato però finiscono qui perché, a dispetto di quanto i suoi detrattori sostengono, non condivide l’assenza di materia cerebrale dell’animale. Ovviamente il Medusa aveva ragione, era impossibile tornare a valle prima che scendesse la notte né avevamo una tenda, in quanto, a detta del Goyle, nessuno si serve del rifugio a lui noto. Io gli avevo dato credito. A difesa sua – e anche mia – c’è da dire che il rifugio in questione latitava nelle mappe geografiche, non aveva nome e più che un rifugio era una stanzetta in rovina costruita nei primi anni ’50 – da allora, a giudicare dall’incuria in cui versava, nessuno si era preoccupato di dargli anche solo una mano di vernice fresca. In ogni caso simili osservazioni erano irrilevanti, anzi, agli occhi dell’appassionato di toponomastica quale è il Medusa, costituivano semmai un’aggravante: “Cosa diavolo significa che questo posto è senza nome? Ogni luogo frequentato da esseri umani ha una qualche denominazione!”
Parlando di pseudonimi, è forse un’ovvietà specificarlo ma puntualizzo che pure Goyle è un soprannome. Si dice fosse abbreviazione di “gargoyle”, ma non è dato sapere come siano arrivati ad accostargli quelle mostruosità di pietra. In entrambi i casi è inutile riportare nomi di battesimo: se spersi nella macchia vi capitasse di imbattervi in questi due individui non risponderebbero che ai loro strani appellativi. A tal proposito c’è di che stupirsi della varietà dei nomignoli che si sentono da queste parti: il Punta, il Tim, il Paletta, Fergio. Alcuni sono persino ereditari, passano da padre in figlio, e il portatore ne è gelosamente legato – o astiosamente avverso. Spesso sono indicativi di caratteristiche personali tanto spiccate ed evidenti da essere molto più calzanti dei nomi di battesimo, cosicché la coscienza paesana cancella Paolo e Giacomo. Per l’anagrafe collettiva diventano il Mulino e il Venti. Ecco il Venti aveva un amico meno sveglio di lui, prontamente ribattezzato il Dieci; a sua volta il Dieci aveva un fratello non propriamente brillante, che per naturale conseguenza, la stessa che genera tutta la geometria euclidea a partire da pochi assiomi, è divenuto il Cinque. Essendo i numeri reali infinitamente divisibili, così com’è parcellizzabile l’intelligenza, nei prossimi anni potremmo aspettarci una proliferazione incontrollata di nomi che tendono indefinitamente allo zero. Per esperienza posso dire però che questo non avverrà: già 2.5 è un po’ troppo lungo, 1.25 inizia ad essere tedioso da pronunciare e 0.625 è intollerabile da sentire.
Ad ogni modo, sto divagando. Eravamo rimasti alla capacità di risultare urticante del Medusa, che ha fatto il sostenuto e il piccato per poi lasciar perdere la questione in maniera sorprendentemente poco pugnace. Il motivo è presto spiegato: poteva lamentarsi a volontà, ma l’alternativa era tornarsene a valle da solo. Così stanchezza e spirito di adattamento hanno avuto la meglio: dopo qualche sorriso imbarazzato si è convenuto di condividere il riparo di fortuna con altri due gruppetti di persone, restando a dormire insieme nell’ambiente angusto.
Un paio di ciocchi, qualche ramo ed era pronto un piccolo falò. Il calore delle fiamme zampillanti ha sciolto la resistenza isolazionista dei gruppi; persino il Medusa, sulle prime invariabilmente diffidente, si è lasciato trasportare dallo spirito della comitiva. Il suo veleno irritante è termolabile: con il calore umano l’atteggiamento ostile evapora come pozze dopo un acquazzone estivo. Quanto a me e Goyle, non avevamo bisogno di incoraggiamenti per far gruppo.
Quelli attorno al fuoco erano, come noi, personaggi boccacceschi in fuga dalla noia cittadina, ammorbati da una monotonia non meno pericolosa di antichi e pestiferi bacilli. Franchino era l’organizzatore della sua comitiva: di bassa statura, si mangiava le parole e i capelli lo stavano abbandonando. Portava con sé Angolino e Angolina, fratello e sorella che dovevano il nome al paterno negozio di alimentari che faceva angolo nella piccola piazza di Fosso San Martino. Il vero nome di Angolino è Angelino, era bastata cambiare una vocale per dargli una connotazione ben più caratteristica, mentre la sorella si chiamava Barbara, ma questo fatto pare sia sempre stato privo di rilevanza: per direttissima si è beccata la variante femminile del nome del fratello. I consanguinei parevano inesperti e un filo meno a proprio agio rispetto rispetto al loro accompagnatore. La prospettiva di dormire, o meglio, non dormire a terra li preoccupava in particolar modo. Forse è grazie alla comune apprensione che hanno legato per primi con il Medusa.
L’altro gruppo aveva all’incirca lo stesso assetto: Erre, la tipetta avventurosa e scatenata della combriccola – la giocoliera di questa storia – era accompagnata da due persone meno navigate, ovvero un tizio silenzioso di cui mi sfugge il nome – e che non ho rivisto da allora – e un’amica stretta, Acqua Ragia, dal crine rosso e dal viso slavato.
Fin da subito Erre si è distinta per la confidenza data a tutti. Fin da subito è stato evidente come sapesse mettere le persone a proprio agio e come utilizzasse la propria fisicità per farlo, dote che di rado ho visto impiegata in modo tanto efficace: un abbraccio inaspettato, una mano posata sulla schiena, una spinta per convincere qualcuno. Per parte mia non sono abituato a simili esternazioni e di solito non gradisco essere toccato – diamo pure la colpa alla digitalizzazione, alle relazioni virtuali e alle inibizioni che ne derivano – ma quando per una cortesia mi ha ringraziato stringendomi le spalle con le mani, contro ogni previsione ho apprezzato il contatto fisico. A quanto pare un singolo gesto di mano sapiente può penetrare lo scudo della diffidenza con maggior facilità di mille parole e così, in men che non si dica, i modi affabilmente entusiastici di lei hanno creato un clima di familiarità sorprendente in un gruppo di sconosciuti. Grazie a lei il piccolo falò ha scaldato quanto i grandi camini delle case di campagna durante le rigide nottate invernali.
Fra fornelli da campeggio e sacchi a pelo abbiamo raccontato storie e sollevato bicchieri metallici brindando alla salute. Non lo sapevamo, ma avvolti dal dualismo del rosso delle braci e del nero notturno stavamo intessendo un sodalizio che avrebbe stretto alcuni di noi nel breve tempo a venire. C’era affinità fra gli ospiti del rifugio senza nome. Tuttavia, parlando di ciò, non va sottovalutato il ruolo della libertà e dell’isolamento, che viziano facilmente la lucidità delle impressioni sui presenti. Lassù, nelle montagne, le persone sono lontane da comodità, dal grosso delle conoscenze, dalle sovrastrutture del vivere civile. In altre parole sono libere. Se condividere libertà è quanto di più intimo ci possa essere, l’isolamento contribuisce in modo determinante alla nascita improvvisa di amicizie istantanee o di avversioni istintive.
Il muro nero della notte però è tela sfuggente sulla quale dipingere: volti e sguardi restano ritratti appena poche ore, per scomparire ai bagliori diurni. I sodalizi circostanziali sono spesso estemporanei, sterili di frutti duraturi. Così, senza tante cerimonie, il giorno seguente ci siamo salutati e ciascun gruppo è tornato a valle per sentieri diversi. Il caso ci aveva fatto incontrare, il caso ci avrebbe riuniti nuovamente.
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