Alla data del 15 febbraio 2018 erano trecentosessantuno giorni che non usciva da casa.
Non era stata una decisione presa a tavolino, semplicemente non era più uscito.
Da tempo aveva preso l’abitudine di vivere online; spesa, bollette, condominio, tutto veniva pagato così. Svolgeva il proprio lavoro da casa e lo inviava tramite posta elettronica da quando l’azienda si era trasferita in un’area più piccola per ridurre le spese generali. Come altri, aveva colto al volo quella opportunità; significava meno spese, pasti fatti a casa, mai più problemi di vestiario, camicie e pantaloni da portare in tintoria, barba da fare tutte le mattine, colleghi tollerati sempre meno. Insomma, finalmente un po’ di pace.
Il 17 febbraio dell’anno precedente, Joe era morto sul divano, vicino a lui. Era morto di vecchiaia, dopo un’esistenza passata insieme tra casa e passeggiate, in città, in montagna, qualche volta anche al mare.
Era morto sereno, lo aveva avvolto in una coperta e aveva chiamato il veterinario.
Lo aveva portato in un posto fuori città per la cremazione e, quando aveva dovuto lasciarlo, si era maledetto per non aver mai pensato di andare a vivere in campagna. Se l’avesse fatto, avrebbe avuto un giardino, un terreno dove poterlo seppellire; invece no, aveva dovuto farlo cremare.
Unica consolazione, portare a casa le sue ceneri. Aveva sistemato la bella cassettina di legno sul comodino e per quel giorno non aveva più lavorato.
Joe era stato l’unico motivo per cui, durante la settimana, era uscito di casa regolarmente, quattro volte al giorno.
Nei tre giorni seguenti la sua morte, dopo i pasti era andato a prendere il guinzaglio per la passeggiata, aveva controllato di avere il necessario per preparargli la pappa, lo aveva cercato per casa, lo aveva chiamato.
Dov’era finito l’unico essere vivente che lo avesse mai veramente amato, con cui parlava sapendo di essere capito?
Con Joe era sempre stato facile parlare di tutto, di quello che succedeva al lavoro, dei suoi genitori, di suo fratello, dei vicini di casa, del prezzo sempre più alto della verdura.
Persino quando l’azienda aveva attraversato un periodo di crisi, sventolando la cassa integrazione come possibilità da non escludersi, Joe aveva ascoltato e capito. Cosa gli era rimasto? Chi? Aveva pensato con orrore alle persone che di solito incontrava durante le passeggiate con Joe, che sicuramente avrebbe incontrato ancora e gli avrebbero chiesto di lui. Non aveva potuto tollerare l’idea di dare spiegazioni, di sentire le solite frasi trite e ritrite, che aveva detto anche lui chissà quante volte, Eh quando è così meglio andarsene… È proprio un peccato che vivano così poco… Ne prenderà un altro? No, non aveva potuto tollerarlo. Non avrebbe tollerato di vedere altre coppie camminare per le stesse strade che lo avevano visto con Joe, ed erano tante.
Quando il pane era finito e si era posto il problema di andare alla panetteria poco lontano da casa, ci aveva pensato un po’. Aveva deciso di restare senza e quando aveva ordinato la spesa al supermercato, aveva incluso anche quello. Non era proprio la stessa cosa, il sapore e la consistenza erano ben diversi, ma si era abituato presto.
Non sei proprio buono a far niente! La voce di suo padre. Finché Joe era vivo, ogni volta che l’aveva sentita si era messo a giocare con lui e quella era sparita nell’ombra da cui era tornata per tormentarlo.
Dopo la morte di Joe aveva provato ad ascoltare Chopin con le cuffie e per un po’ aveva funzionato. Solo per un po’.
La voce aveva trovato il modo di insinuarsi anche attraverso quella barriera. A quel punto si era arreso all’inevitabile, l’avrebbe sentita ancora fino a quando la vita non lo avesse richiamato a sé.
Dalle finestre aveva cominciato a guardare il traffico che non l’avrebbe più avvelenato, la gente che non l’avrebbe più importunato con domande sciocche e saluti inutili, e si era sentito bene. L’unica compagnia era la sua grandissima nostalgia per Joe, che provava a dribblare parlando davanti alla cassettina. Durante la giornata la portava con sé, in cucina, nello studio, nel salotto, e quando andava a dormire la sistemava sul comodino, vicino a lui.
Non era stato affatto difficile fare a meno dell’umanità, piano piano aveva anche smesso di guardare dalle finestre, gli era bastato pensare che non esistesse più.
Capitolo due
Mercoledì, 1° marzo 1944.
Sotto il fragore delle bombe, Rosa sta per partorire. Con lei solo suo figlio, Piero, otto anni, il primo, l’unico rimasto in vita dopo aver perso gli altri due. Suo marito non c’è, sarebbe già dovuto rientrare. Forse lo rivedrà dopo il bombardamento, l’ennesimo ormai. Non ha fatto in tempo a chiamare Caterina, la levatrice; a differenza di come è stato per Piero, le contrazioni forti sono arrivate all’improvviso, insieme all’allarme, e ora deve sbrigarsela da sola. Rosa lo fa nascere inginocchiata a terra, in cucina, sopra a un asciugamano, e quasi spera che batta la testa e muoia.
Se ne andrebbe così come è venuto, non dovrebbe vedere nulla, la guerra, la fame, la violenza di questi giorni tetri.
Il bambino non batte la testa, sua madre lo accoglie.
Piero assiste alla nascita di suo fratello impietrito dalla paura. Paura delle bombe, ma soprattutto la paura che sua madre possa morire, lasciandolo da solo con quel bambino appena nato.
Rosa non è una madre affettuosa e Piero scambia il suo sguardo terrorizzato per odio. Odio per lui e per suo padre.
«Maledizione a lui, maledizione, guarda cosa mi tocca fare, da sola!» Questo urla Rosa e Piero è convinto che, se non l’hanno ammazzato le bombe, lo farà lei al suo ritorno.
Suo padre non ha fatto in tempo a scendere nel rifugio. Una vicina di casa lo trova immerso nella polvere, con la testa spaccata a metà. Si fa coraggio e bussa alla porta di Rosa. Piero corre ad aprire, non è suo padre, ma fa quasi lo stesso. «Maria, meno male, mamma ha partorito e papà non c’è, l’hai visto in strada o al rifugio?»
Maria avrebbe preferito parlare subito con Rosa, la presenza di Piero sulla porta le toglie il poco coraggio che ha, cerca le parole. Il suo silenzio dice tutto, Rosa capisce cosa è venuta a dire e sa anche che ora è sola davvero, sola con due bambini.
Urla, non sa nemmeno lei cosa, urla per far uscire tutto il veleno che ha accumulato negli anni, da ancora prima che si sposasse.
Maria corre da lei, ha paura che possa fare una pazzia.
La trova inginocchiata a terra, il bambino ancora nudo vicino a lei. Rosa non la vede nemmeno, guarda dritto davanti a sé, lo sguardo perso nel nulla.
«Stai tranquilla, Rosa, adesso ci sono io. Piero, vai a cercare Caterina. Andiamo a casa mia, va bene Rosa?»
Rosa non fa resistenza, Maria taglia il cordone ombelicale. «Piero, aspetta, come si chiama il tuo fratellino?»
«Non lo so, mamma non me l’ha detto…»
«Non avete mai parlato del nome da dare al tuo fratellino?! Ma sì, che stupida che sono, Sergio, è così che volevano chiamarlo!» In realtà Maria non lo sa, Rosa non ha mai parlato volentieri di quel bambino in arrivo. Sergio è il primo nome che le è venuto in mente. Povero Piero, neanche a lui hanno detto qualcosa… Che strana ’sta gente…
Capitolo tre
Quel giovedì pomeriggio, un incidente proprio sotto casa sua lo portò alla finestra. Il solito incrocio, il solito incidente, pensò lì per lì. Però sentiva gridare e non erano insulti, ma grida d’aiuto. Fu tentato di chiamare egli stesso l’ambulanza, ma poi si ricordò che il centralinista chiedeva sempre il nome di chi chiamava. Non voleva essere coinvolto, uscire dal suo anonimato.
Restò dietro ai vetri, da dove sentì l’arrivo dell’ambulanza. Sarebbe voluto tornare al suo lavoro, ma non riusciva a staccare gli occhi dai soccorritori che, con molta fatica, stavano facendo uscire da un’auto il corpo di una ragazza. Sembrava morta. Poteva avere vent’anni, i capelli biondi erano sporchi di sangue, non dava segni di vita. Una volta distesa sulla barella venne subito intubata e ciò lo turbò particolarmente. L’ambulanza partì a sirene spiegate, lui si inginocchiò e pregò Dio di salvarla.
Quando finì di recitare tutte le preghiere che conosceva, si sentì ancora più turbato e si chiese perché mai avesse pregato per quella ragazza. Da tanto tempo i suoi contatti con le persone erano ridotti al minimo e non sapeva niente di nessuno, cosa che, a suo parere, aveva aumentato particolarmente la qualità della sua vita. Rivolse la domanda a Joe, in risposta sentì il fruscio della sua coda su una gamba. Joe non mentiva mai, se aveva scodinzolato voleva dire che era contento, ma di cosa? La comunicazione con lui era sempre stata chiara, anche dopo la sua morte, ma questa volta si trovava in difficoltà.
Decise di tornare al lavoro, i numeri lo avrebbero riportato alla pace.
Quei capelli biondi sporchi di sangue occupavano tutto lo spazio tra sé e la tabella Excel, non riusciva a concentrarsi. Preparò un caffè d’orzo e cercò la pace nelle note di Chopin, in quel Notturno n° 2 che sempre aveva avuto il potere di fargli scordare tutto. Macché, anzi, quella musica celestiale lo teneva ancorato alla terra, a quel sangue, alla morte che forse era già arrivata a portarsi via una ragazza così giovane.
All’improvviso i propri vent’anni lo morsero allo stomaco e per un momento smise di respirare.
Erano veramente arrabbiati, gli chiedevano conto. Si può sapere che cosa ne hai fatto, di noi? E non dire che non ci hai visti, eravamo là come quelli di tutti gli altri, ma tu dov’eri, eh, dov’eri?
Cosa gli stava capitando? Ebbe paura, si tappò le orecchie, ma quelli insistevano. È da un bel po’ che proviamo a parlare con te, sai? E rispondi!
Cosa poteva dire, che i suoi vent’anni neanche li aveva visti? Erano troppo arrabbiati per una risposta così diretta, doveva trovare un modo per ammansirli. Sono stato molto occupato, lo sapete, mia madre, mio fratello…
See see, sempre ad accampare scuse tu, è la cosa che sai fare meglio.
Un impeto di rabbia. In effetti, i suoi vent’anni li aveva passati tra le disgrazie di casa, non come i suoi compagni di scuola, sempre occupati tra feste e cazzeggio. Ed erano passati senza che se ne accorgesse. Potevano tornare indietro? Poteva rivivere quell’età?
Ma poi, perché avrebbe dovuto? Solo perché si erano presentati pieni di rancore? Chi li aveva invitati? Cosa aveva permesso che venissero a disturbarlo?
Oh, ma sei proprio tardo, eh! Quella ragazza forse non saprà mai cosa avrebbe potuto vivere. Tu, invece, quanti anni hai, eh? E cosa hai vissuto? Con chi?
Ilaria Ventura
Esco è il racconto emozionante di vite apparentemente distanti ma in realtà così profondamente intrecciate.
La scrittura di Rinella è immediata e ti trascina in quei luoghi così ben narrati. La storia è avvincente e si finisce inevitabilmente per affezionarsi ai personaggi.
Aspetto, appena sarà possibile, la presentazione di questo bellissimo romanzo. Consiglio a tutti e buona lettura!
Rinella Nebbia (proprietario verificato)
Grazie a tutti per i vostri commenti!
Il rimando a Cent’anni di solitudine è fin troppo lusinghiero, ma mi fa pensare che del mondo magico di Garcia Marquez ci sia sempre bisogno, perché apre le porte dell’anima a qualcosa di più grande della nostra singola esistenza.
Grazie ancora a tutti!
Giuseppe Nebbia (proprietario verificato)
Letto tutto di un fiato.
Al di sotto della quotidianità dei protagonisti, corre la tensione del film noir, sai che qualcosa succederà.
La soluzione del caso, avverrà molti anni dopo e sarà una possibilità di riscatto per tutti.
La scrittura diretta, senza descrizioni o divagamenti , va dritta al punto.
I dialoghi offrono spaccati realistici in cui ognuno si può rivedere e ritrovare.
Direi, sicuramente da leggere
Flavia Chiericato (proprietario verificato)
La scrittura di Rinella Nebbia è piacevolmente scorrevole ma mai banale, i suoi personaggi ben sfaccettati, immersi in un flusso di eventi drammatici che qualche volta, però, sì risolvono in maniera inaspettata.
In un periodo di lockdown questa lettura, uscita in tempi non sospetti, ha quasi il sapore di una premonizione. Augurandoci che la primavera possa portarci un po’ di libertà, nel frattempo questo libro ci può fare evadere un po’ ma senza frivolezze.
Laura Giorgini (proprietario verificato)
“Esco” è un libro sulla libertà di essere sé stessi. Quella libertà – rischiosa e terrificante a volte, ma anche inebriante e meravigliosa – di emanciparsi dai condizionamenti: non solo quelli del mondo che proietta su di noi aspettative e cliché, ma anche dai condizionamenti privati, che discendono dalla famiglia, a cui ci ritroviamo più o meno consapevolmente assoggettati. E’ la storia di un uomo che, talmente schiacciato da questi condizionamenti si ritrae dalla vita e si nega ad essa, finché la vita stessa lo “stana” e gli offre un’occasione per scegliersi, riscoprirsi, perdonare e perdonarsi, e cominciare a vivere, oltre che a sopravvivere. Un uomo che sceglie di scoprire le parti neglette di sé, anche quelle più oscure, di lasciarsi coinvolgere nel flusso vitale e di affrontare tutti i drammi e le meraviglie connessi. E’ anche la storia dell’amicizia fra due donne che travalica il tempo e gli eventi più drammatici, di custodi benevoli e gentili, di riscatti personali inaspettati, di resilienze impensabili e della forza straordinaria e rivoluzionaria che scaturisce dall’essere autentici. Una lettura emozionante.
Laura Crisanto (proprietario verificato)
Finito il libro! Divorato in un giorno. Ricco complesso intrigante romantico introspettivo… Quanti nomi! Mi è venuta voglia di rileggere “cent’anni di solitudine “. Grazie per il finale ottimista, dopo tanto dolore!
Una porta che da un mondo in scale di grigio si apre verso un mondo a colori. Proprio quello che ci vuole ora
Rinella Nebbia (proprietario verificato)
Grazie Nadia!
Domani dovrei riuscire a sapere la nuova data…
Nadia Ducano (proprietario verificato)
Lungo racconto molto bello.
La vicenda, che si dipana tra la solitudine di un uomo del presente e una storia di amicizia femminile in un piccolo mondo antico, vi farà affezionare ai personaggi.
Peccato sia saltato l’evento di presentazione previsto per martedì scorso, spero l’autrice dia presto notizia di un’altra data, mi piacerebbe chiederle due cose sulla genesi del racconto.
Rinella Nebbia (proprietario verificato)
Grazie Riccardo!
garofalo.riccardo (proprietario verificato)
In un contesto socioculturale che rimanda continuamente alla necessità di dare un senso a tutto, Esco va controcorrente perché, anche conoscendo la fonte del dolore, spetta soltanto a noi decidere cosa farne, se consegnarlo alla Storia o restarne prigionieri. Esco è la storia di un atto di fede.
Rinella Nebbia
Grazie Salvatore!
Salvatore Pes (proprietario verificato)
La scrittura di Rinella Nebbia è immediata, ti porta direttamente dentro la solitudine di Antonio, quel rinchiudersi nella sua gabbia e convincersi di starci bene, ma a volte per “Uscire” basta aprire la porta ed inciampare nella vita, le storie narrate s’intrecciano tra diverse fasi temporali, non sono storie allegre, ma ti avvolgono e t’invitano a leggere il libro tutto di un fiato.
Rinella Nebbia
Grazie Alessandra!
fiore_alessandra
“Esco” è avvincente perché I suoi personaggi non sono scontati, alcuni si rivelano subito, con altri si empatizza nel corso del romanzo. E’una bella saga familiare molto radicata nel territorio dove la storia si svolge. E’una storia garbata, dal carattere discreto e dai molti segreti.
Rinella Nebbia
Grazie Sara!
Sara Alaimo (proprietario verificato)
“Esco” è la storia di un dolore atavico che precipita sul protagonista attraversando le generazioni. Passato e presente si intrecciano fino alla fine, forse solo liberandosi dai segreti, si può finalmente pensare di vivere. Buona lettura.