Negli ultimi nove anni ho vissuto una valanga di esperienze; infine, il superamento di una soglia, come se tutto quello che è successo in trentotto anni si fosse riversato improvvisamente nella mia coscienza.
Ho sempre avuto la propensione al cambiamento, mi ha sempre affascinato. Sono anche stato sempre abbastanza disattento nell’osservare ciò che mi succedeva intorno. Ero disinteressato a giudicare gli altri, ma nel contempo gioivo della curiosità di capirli, di conoscerne le vite vissute, in particolare quelle dei vinti.
Ho avuto modo di vedere da vicino come funzionassero alcuni sistemi di lavoro, sono rimasto disgustato da alcuni individui, sorpreso da altri, indignato per alcuni comportamenti e dispiaciuto per aver compreso l’indifferenza di tanti giovani spenti che non si ribellano a niente. Restano infelici alle veterane concezioni di basare tutto su raccomandazioni e clientelismo. Inermi e senza idee, aspettano che qualcuno gli dica cosa fare e restano schiavi inespressi di un sistema vecchio. Si accontentano di poco, pensano di vivere la modernità e spesso preferiscono la fuga. Hanno uno sballato senso della tolleranza, che è invece una cosa straordinaria.
L’immateriale, l’essenziale, il modo in cui viviamo nella società, l’approccio, l’essere individui sani, scrivere una poesia, imparare a fare gli gnocchi, i taralli, pretendere il sacrosanto diritto di sognare e di essere profondamente liberi: tutto questo rappresenta la vitalità del nostro essere chi siamo. O chi dovremmo essere, santiddio.
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Ho dovuto fare scelte importanti, che poi si sono rivelate una benedizione, e ho attraversato emozioni forti, toste, quasi da spezzarmi in due. Ho avuto il coraggio di rischiare, di mettermi a repentaglio; così ho lenito l’esistenza e sono andato alla ricerca della mia libertà interiore. Ho trovato Dio, la mia strada, i miei perché. Ho sciolto i rigidi freni, ho liberato l’entusiasmo e sto scoprendo il sentimento di meraviglia del mondo.
A volte ho come la sensazione di essere nato in un’epoca sbagliata, non mia; come se fossi nato nel passato per poi ritrovarmi a vivere in questo presente.
Durante il mio percorso, ho scoperto che non esiste un senso della vita universale, ma che ognuno ha il suo. Che esiste il male, al quale non c’è rimedio; e non farlo sta diventando un’opera faticosa in questa società che sembra perfetta. Costruiti dal materialismo e edificati dal consumismo, spesso siamo quello che non vorremmo ma pensiamo che sia necessario esserlo. Abbiamo nascosto la spontaneità, c’è paura; a volte neppure ridere sembra una cosa sana. Ci siamo persi, abbiamo perso noi stessi, la capacità di essere chi siamo veramente, sviscerati come i bambini che tengono i segreti nascosti; sono àncora di salvezza: apprendiamo da loro per riprenderci.
In alcuni momenti di solitudine mi sono convinto dell’immenso, della bellezza del silenzio, di esserci senza riserbo, di accettare il continuo cambiamento e di non fare solo ciò che sapevo già fare benissimo. Ora scelgo le strade nuove ed è meraviglioso!
La natura, prendetela come l’esempio perfetto da seguire quando si parla di mutamento, di evoluzione, di trasformazione e di grande bellezza. E seguitela. Essere se stessi vuol dire essere dentro tutto, liberamente, sconfitti e contenti, rischiare e scoprirsi ogni giorno come un’inaspettata sorpresa, e meravigliarsi.
Ho scelto di essere me stesso rinunciando a essere qualcun altro e qualcos’altro: diventare il primo attore di regie composte da altri significherebbe non amarsi.
Vorrei ringraziare chi non c’è stato, chi è scappato per ingordigia. E poi chi c’è sempre stato, mia moglie Marilena che ha accettato con fatica il mio progetto di vita. Vorrei ringraziare me stesso, per aver collaborato a questo libro, e Dalila Fiore che lo ha reso corretto. Quello che esprimo è semplicemente la mia idea, qualche breve concetto, qualche sentimento, un’emozione, qualche gioia. Ho scritto senza alcuna pretesa, ma consapevole che le parole possono essere accettate, proclamate o rifiutate. Perfino ignorate. Non importa.
Sono stato un bambino normalissimo, uno di quei tanti fortunati che si incontrano per strada oggi. Non ho avuto un’infanzia difficile, anzi, ho sempre trovato terreno fertile per far crescere divertimento e spensieratezza. Mi sono accontentato sempre e il premio di quell’accontentarmi è stato la felicità. Non si possedevano tante cose a quei tempi – peraltro non molto lontani – ma si aveva l’essenziale, quel poco che bastava per stimolare l’immaginazione e tirare fuori qualche idea che ci teneva impegnati anche per settimane.
Erano piccoli progetti che poi si modificavano nel corso della realizzazione e diventavano qualcosa di inaspettato. Si costruivano carrozzine con delle tavole di legno apparentemente senza vita, resuscitate da qualche cantiere abbandonato del centro storico, e con cuscinetti sferici in disuso, recuperati nelle officine meccaniche. Questi ultimi venivano montati e fissati con dei chiodi – anch’essi trovati lì, chissà dove – su un’ulteriore tavola di legno, modellata e arrotondata a seconda del diametro del cuscinetto, che formava il guidante, legato successivamente alle due estremità con una corda che serviva a direzionare l’abitacolo. Le due ruote posteriori erano fisse, un lavoro di assemblaggio più semplice ma altrettanto importante. Ognuno poi trovava la propria personalizzazione, la propria aerodinamica, il proprio modo di dominare il mezzo per gareggiare lungo le discese ripide dei percorsi studiati il giorno prima e talvolta tracciati con dei nastri disuguali. Ci si passava l’estate intera a migliorare le vetture, ad aggiustarle, tra un giro in bicicletta per le strade sterrate e una partita di pallone con l’immortale Super Santos al campo della scuola agraria, a cui si accedeva abusivamente attraverso il sentiero di un boschetto; tra spine e roghi, noi ragazzini ci facevamo strada sferrando colpi sonori con i rami spezzati dagli alberi di gelso del piazzale dell’istituto. Io avevo una bici color argento, con una spugna blu sul manubrio che riportava la scritta bianca BMX, e la custodivo gelosamente perché non tutti ce l’avevano.
Sono cresciuto nel centro storico di Piedimonte Matese, nel borgo di San Giovanni, oggi luogo assonnato, stanco, vissuto, dove si respira la storia millenaria e medievale ancora viva nelle pietre scordate da chi ora pensa a costruire le città nuove, rimpiazzando la bellezza con la modernità. È uno spazio semideserto, con la sua piccola piazza talvolta frequentata da individui curiosi o sensibili che ne calpestano i ciottoli malandati. San Giovanni è il posto che ha ospitato la lunga, grande storia del Palazzo Ducale, che con le sue orecchie ha sentito cantare Enrico Caruso mentre percorreva la vecchia via che da Castello portava a Piedimonte. Più recentemente il rione era avvolto dai profumi del buon cibo domestico preparato dai pochi residenti che la domenica mattina scendevano a messa, nella chiesa di San Marcellino, e risalivano con l’acqua fredda della sorgente in due o tre bottiglie di vetro. Io l’ho vissuto, i miei nonni lo facevano.
La sera il borgo era frequentato da pochi bambini. Giocavamo a chiapparello, oppure stavamo semplicemente a raccontarci qualcosa. Sotto l’unico lampione della piazzetta, quando c’era l’asfalto scuro, qualche volta facevamo il gioco della campana che però era subordinato al ritrovamento di un gessetto per disegnare a terra righe e numeri. Si perdeva molto tempo alla ricerca del gesso, ma anche per procurarsi un altro oggetto, altrettanto importante: la pietra. Il tipo di pietra era fondamentale, ognuno sceglieva la propria con molta attenzione, perché doveva avere il giusto peso e anche il colore era determinante. Io ci tenevo che la mia, oltre a essere funzionale, fosse anche bella e, infatti, spesso la conservavo pure per le partite successive.
Tra i giochi che ci tenevano impegnati, memorabile era anche quello che noi chiamavamo palline, le biglie. Lello era fortissimo e ci teneva a giocare contro di me perché anch’io ero bravo. Mi bussava: «Vulimm gioca’ a palline?». E così ci recavamo sotto ‘u suppigno, una specie di tunnel che da San Domenico porta al largo Tiratoie, dove c’era una piccola buca naturale, ben scolpita e levigata dal tempo, proprio al centro della carreggiata, ottima per il nostro scopo. Lello, tra l’altro, abitava poco distante da quel luogo.
Io avevo diverse palline di vetro, ma la mia preferita era quella che all’interno portava la bandiera della Germania che, in qualche strano modo, mi faceva stare vicino ai miei parenti che vivevano lì e che inconsapevolmente mi mancavano.
Quando sei piccolo ti si imprimono delle cose nel cuore che mai riuscirai a dimenticare e a spiegarti. È una sensazione bellissima poterle tenere nella testa nel corso del tempo che scorre. Ci sono individui, ricchi d’amore, dei quali si hanno immagini impresse nell’anima, indelebili. Li ricordi dall’infanzia, quando passavi nei vicoli del borgo e loro, sempre sorridenti per i bei tempi passati, ti sfottevano con gioia: a te, che rappresentavi il futuro del paese. Quel paese che poi è costretto a vedere un’altra finestra che si chiude e che lascia il giusto spazio a un grande ricordo.
A Vincenzo
Ero un piccolissimo uomo,
a San Domenico abitavo, vivevo.
Anche tu, lì, giovavi e vivevi.
Scendevo, sempre di corsa,
alla via che portava a te per forza.
Mi chiamavi Maradona:
«Maradò!» e ridevi a iosa.
Quelle parole, l’adrenalina,
m’inorgoglivo,
il pallone a terra,
tiravo a te, giocavo.
La ruota gira, fa la storia,
il tempo passa, riporta memoria.
A me, che oggi son cresciuto,
a te, che te ne sei andato.
Sant’Iddio che brutta sensazione,
che stato d’animo,
che contraddizione.
La vita, la morte.
Sembra ieri, proprio ieri,
s’attorcigliano pensieri, ricordi meri,
di un uomo buono, umile, sano,
impresso, marcato
e mai dimenticato.
A San Giovanni devo la mia infanzia. I ricordi di oggi, belli ed emozionanti, fanno male dentro, li sento ingiusti. Generano la forte sensazione di sofferenza per aver perduto quegli istanti bellissimi, andati via insieme ai tanti individui che ne hanno fatto parte.
Poesia a San Giovanni
Le tue vecchie mura
sono le mie mani.
La tua vecchia vita
è il mio domani.
Epopale il tuo abbandono,
i tuoi ricordi, la tua Aurora.
Le tue viuzze ripide e strette
toccano il cielo ancora.
Quella vecchietta
àncora il tempo,
resiste all’intemperia,
l’acqua, il sole, il vento.
Incompreso luogo,
continui, sofferente
oltraggiato e amato
ma fra gli impegni assente.
Nelle mura, le anime
ancora girano il volto antico.
Si risente, immortale,
l’eco di Enrico.
Vivrai, avrai, verrà l’istante.
Sarà d’amore un attimo,
San Giovanni non è un luogo,
è uno stato d’animo.
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