1
La cosa più strana, a ripensarci, era che non me ne fossi accorto subito. E dire che di indizi ce n’erano: era accaduto qualcosa, doveva essere accaduto qualcosa.
Come al solito avevo salito le scale del primo e del secondo piano a due a due, come un adolescente arrapato, poi avevo rallentato, camminando composto fino al quarto, nel tentativo di calmare il fiatone già impellente.
E avevo trovato la porta aperta. Non era mai successo, nemmeno quando le mandavo un messaggio per dirle che stavo arrivando – prassi solitamente compiuta una volta sceso dalla metro, come a prepararla, a scaldarla.
E invece quel giorno la porta era aperta, e io non le avevo scritto proprio niente. Se pensai a qualcosa, pensai a una sua dimenticanza, o disattenzione. A una distrazione. Mica era del tutto aperta: solo un po’. Fatto sta che entrai, e lei non c’era.
«Maria» chiamai, ma nessuno rispose.
Guardai il cellulare: erano le undici e mezzo, qualcosa del genere, comunque prima di pranzo. Ero scocciato. Cazzo, avevamo entrambi la mattina e il pomeriggio liberi, era ovvio che avremmo pranzato insieme, per la miseria.
Magari era solo uscita a fare la spesa, o stava parlando con una vicina, o era andata a comprare le sigarette, o a ritirare i soldi. O era sotto la doccia. Andai a controllare, ma il bagno era vuoto. E poi avrei sentito l’acqua scrosciare.
Decisi di non scriverle. L’avrei aspettata, e quando fosse arrivata le avrei detto di essere appena entrato. Mi misi seduto sul divano di pelle blu dove tre notti prima, o forse quattro, magari cinque, avevamo fatto sesso. Non era piaciuto a nessuno dei due, ma entrambi avevamo fatto finta di niente, come una coppia consumata che non eravamo.
Sul tavolino di vetro davanti al divano c’era una canna. Chi è che lascia una canna e se ne va? Chi è che si prende lo sbatti di rollarsi una canna e poi nemmeno se la fuma? Evidentemente era dovuta uscire di corsa, aveva abbandonato lì la canna e aveva dimenticato di chiudere la porta. Forse si era accorta di aver lasciato i panni in lavanderia; mi sembrava del tutto ragionevole.
Allora decisi di farle un dispetto e mi fumai quella canna lasciata a se stessa. Stavo lì seduto sul divano blu, appiccicaticcio di sudore in quella stanza già troppo calda, con lo spinello in mano, o tra le labbra. Rumori pochissimi, giusto quelli del traffico, ma dalla parte opposta rispetto alla finestra, quindi si sentivano appena. Mi venne sonno.
A un certo punto mi alzai e chiusi la porta, che era rimasta aperta tutto quel tempo. Tornai a sedermi, finii la canna con un certo disappunto, come se fossi stato costretto, come se quel fastidioso scherzo andasse per forza portato fino in fondo. Da quanto tempo non fumavo una canna? Almeno un paio d’anni. C’era ancora il Lori.
Stavo iniziando ad annoiarmi. Mi alzai, aprii il frigo e lo trovai semivuoto, esaminai le bottiglie speranzoso, ma c’era solo gin. E poi era ancora presto per bere. Scartai una sottiletta e la divorai, poi bevvi qualche sorsata direttamente dal lavandino, piegato in avanti come una bestia, maledicendo il calcare che sporcava l’acqua in buona parte di Milano.
Tornai a sedermi e aspettai, ma avevo davvero caldo, era il primo caldo e quindi sembrava ancora più caldo, ed ero annoiato. Ormai ero lì dentro da almeno mezz’ora. No, probabilmente di più, perché avevo finito la canna. Non ero nemmeno sballato. Sballato. Sorrisi appena, pensando a quanto quella parola fosse da boomer. Da sbirro-boomer.
Continua a leggereMi alzai di nuovo, aprii il frigo e afferrai il gin. Non c’era la limonata, quindi mi accontentai dell’acqua tonica. Nel freezer scovai i cubetti di ghiaccio, e ne misi tre nel bicchiere. Un cocktail vero e proprio, Gin Tonic prima di pranzo. Lo scolai a fatica, più che altro perché mi rinfrescava, mica perché mi piaceva. In realtà il gin mi fa quasi schifo. Valutai l’idea di buttarlo e bere acqua, acqua con ghiaccio, ma poi mi venne in mente il calcare e gli preferii quel gin schifoso. Mangiai un’altra sottiletta, giusto per cambiare sapore, per darmi una tregua, e mi ritrovai le dita impiastricciate dei rimasugli di quel formaggio chimico.
All’improvviso la stanza mi sembrò piccolissima e ostile. Più calda di quello che era, e senza motivo l’odore di erba che finora non solo avevo tollerato ma addirittura prodotto e inalato mi venne a noia. Allora andai verso la porta finestra – che era aperta – e uscii in terrazzo. O meglio, un balconcino minuscolo, buono giusto per fumarsi una sigaretta nel caso in cui qualcuno fosse mai riuscito ad avere la voglia sufficiente per non fumare dentro casa. Guardai senza interesse le facciate dei palazzi che circondavano il cortile sottostante: forse erano tutti al lavoro, perché non vidi anima viva, né un viso alla finestra, né persone intente a stendere o a ritirare il bucato, né la sagoma di una tovaglia sbattuta per liberarla dalle molliche, nemmeno l’ombra di un movimento.
Poi notai la sedia. Era una delle sedie che, di solito, stava in salotto, nel salotto-cucina-ambiente-unico che mi aveva ospitato fino a un secondo prima. Non aveva senso lì, sul balcone. Pensai che Maria l’avesse portata fuori per stare più comoda, per fumarsi la canna in tutta tranquillità, e la immaginai seduta con le gambe magre stese in avanti, accavallate sopra la ringhiera, e lo smalto nero rovinato delle unghie dei piedi a riflettere la luce del sole, a sciogliersi al caldo.
E finalmente la vidi.
Guardai in basso, verso il cortile, e la vidi. O meglio, vidi il corpo, ne distinsi il corpo. Maria era laggiù, a terra. Era morta.
Era morta, era evidente, la carcassa contorta in una pozza di sangue, le ossa spezzate a rendere quell’involucro di carne simmetricamente scomposto.
Era laggiù, cazzo, Maria era laggiù. Non era né a ritirare i panni, né da una vicina, né a fare qualsiasi altra idiozia mi fosse passata per la testa fino a poco prima. Pie e ingenue speranze al cospetto della verità più truce: era laggiù, ed era morta.
Poteva essere ferita? Magari agonizzante, ma ancora in vita? No. Era morta, non c’erano speranze. Gli occhi sbarrati, nemmeno un tremito, niente di niente. Il niente.
Devi effettuare l'accesso per scrivere una recensione.
bookabook srl via Vitruvio 42 – 20124 Milano P.IVA 08455350960
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.