La cosa più strana, a ripensarci, era che non me ne fossi accorto subito.
E dire che di indizi ce n’erano: era accaduto qualcosa, doveva essere accaduto qualcosa.
Come al solito avevo salito le scale del primo e del secondo piano a due a due, come un adolescente arrapato, poi avevo rallentato, camminando composto fino al quarto, nel tentativo di calmare il fiatone già impellente.
E avevo trovato la porta aperta. Non era mai successo, nemmeno quando le mandavo un messaggio per dirle che stavo arrivando – prassi solitamente svolta una volta sceso dalla metro, come a prepararla, a scaldarla.
E invece quel giorno la porta era aperta, e io non le avevo scritto proprio niente. Se pensai a qualcosa, pensai ad una sua dimenticanza, o disattenzione. A una distrazione. Mica era del tutto aperta: solo un po’. Fatto sta che entrai, e lei non c’era. «Maria» dissi, ma nessuno rispose.
Guardai il cellulare: erano le undici e mezza, qualcosa del genere, comunque prima di pranzo. Ero scocciato. Cazzo, avevamo entrambi la mattina e il pomeriggio liberi, era ovvio che avremmo pranzato insieme, per la miseria.
Magari era solo uscita a fare la spesa, o stava parlando con una vicina, o era andata a comprare le sigarette, o a ritirare i soldi. O era sotto la doccia. Andai a controllare, ma il bagno era vuoto. E poi avrei sentito l’acqua scrosciare.
Decisi di non scriverle. L’avrei aspettata, e quando fosse arrivata le avrei detto di essere appena entrato. Mi misi seduto sul divano di pelle blu dove tre notti prima, o forse quattro, magari cinque, avevamo fatto sesso. Non era piaciuto a nessuno dei due, ma entrambi avevamo fatto finta di niente, come una coppia consumata che non eravamo.
Sul tavolino di vetro davanti al divano c’era una canna. Chi è che lascia una canna e se ne va? Chi è che si prende lo sbatti di rollarsi una canna e poi nemmeno se la fuma? Evidentemente era dovuta uscire di corsa, aveva abbandonato lì la canna e aveva dimenticato di chiudere la porta. Forse si era accorta di aver lasciato i panni in lavanderia; mi sembrava del tutto ragionevole.
Allora decisi di farle un dispetto e mi fumai quella canna lasciata a sé stessa. Stavo lì seduto sul divano blu, appiccicaticcio di sudore in quella stanza già troppo calda, con lo spinello in mano, o tra le labbra. Rumori pochissimi, giusto quelli del traffico, ma dalla parte opposta rispetto alla finestra, quindi si sentivano appena. Mi venne sonno. A un certo punto mi alzai e chiusi la porta, che era rimasta aperta tutto quel tempo. Tornai a sedermi, finii la canna con un certo disappunto, come se fossi stato costretto, come se quel fastidioso scherzo andasse per forza portato fino in fondo. Da quanto tempo non fumavo una canna? Almeno un paio d’anni. C’era ancora il Lori.
Stavo iniziando ad annoiarmi. Mi alzai, aprii il frigo e lo trovai semivuoto, esaminai le bottiglie speranzoso ma c’era solo il gin. E poi era ancora presto per bere. Scartai una sottiletta e la divorai, poi bevvi qualche sorsata direttamente dal lavandino, piegato in avanti come una bestia, maledicendo il calcare che sporcava l’acqua in buona parte di Milano.
Tornai a sedermi e aspettai, ma avevo davvero caldo, era il primo caldo e quindi sembrava ancora più caldo, ed ero annoiato. Ormai ero lì dentro da almeno mezz’ora. No, probabilmente di più, perché avevo finito la canna. Non ero nemmeno sballato. Sballato. Sorrisi appena, pensando a quanto quella parola fosse da boomer. Da sbirro-boomer.
Mi alzai di nuovo, aprii il frigo e afferrai il gin. Non c’era la limonata, quindi mi accontentai dell’acqua tonica. Nel freezer scovai i cubetti di ghiaccio, e ne misi tre nel bicchiere. Un cocktail vero e proprio, gin tonic prima di pranzo. Lo scolai a fatica, più che altro perché mi rinfrescava, mica perché mi piaceva. In realtà il gin mi fa quasi schifo. Valutai l’idea di buttarlo e bere acqua, acqua con ghiaccio, ma poi mi venne in mente il calcare e gli preferii quel gin schifoso. Mangiai un’altra sottiletta, giusto per cambiare sapore, per darmi una tregua, e mi ritrovai le dita impiastricciate dei rimasugli di quel formaggio chimico.
All’improvviso la stanza mi sembrò piccolissima e ostile. Più calda di quello che era, e senza motivo l’odore di erba che finora non solo avevo tollerato ma addirittura prodotto e inalato, mi venne a noia. Allora andai verso la porta finestra – che era aperta – e uscii in terrazzo. O meglio, un balconcino minuscolo, buono giusto per fumarsi una sigaretta nel caso in cui qualcuno fosse mai riuscito ad avere la voglia sufficiente per non fumare dentro casa. Guardai senza interesse le facciate dei palazzi che circondavano il cortile sottostante: forse erano tutti a lavoro, perché non vidi anima viva, né un viso alla finestra, né persone intente a stendere o a ritirare i panni, né la sagoma di una tovaglia sbattuta per liberarla dalle molliche, nemmeno l’ombra di un movimento.
Poi notai la sedia. Era una delle sedie che, di solito, stava in salotto, nel salotto-cucina-ambiente unico che mi aveva ospitato fino ad un secondo prima. Non aveva senso lì, sul balcone. Pensai che Maria l’avesse portata fuori per stare più comoda, per fumarsi la canna in tutta tranquillità, e l’immaginai seduta con le gambe magre stese in avanti, accavallate sopra la ringhiera, e lo smalto nero rovinato delle unghie dei piedi a riflettere la luce del sole, a sciogliersi al caldo.
E finalmente la vidi.
Guardai in basso, verso il cortile, e la vidi. O meglio, vidi il corpo, ne distinsi il corpo. Maria era laggiù, a terra. Era morta.
Era morta, era evidente, la carcassa contorta in una pozza di sangue, le ossa spezzate a rendere quell’involucro di carne simmetricamente scomposto.
Era laggiù, cazzo, Maria era laggiù. Non era né a ritirare i panni, né da una vicina, né qualsiasi altra idiozia mi fosse passata per la testa fino a poco prima. Pii ed ingenue speranze al cospetto della verità più truce: era laggiù, ed era morta.
Poteva essere ferita? Magari agonizzante, ma ancora in vita? No. Era morta, non c’erano speranze. Gli occhi sbarrati, nemmeno un tremito, niente di niente. Il niente.
Non mi spaventai, non sobbalzai, non urlai, non gemetti, non la chiamai, non chiamai nessuno. Rimasi ad osservarla, ad osservare quello che era diventata. Ragionai distrattamente su come quello fosse il suo ultimo stadio evolutivo. Maria era nata, cresciuta, aveva fatto quello che aveva fatto, aveva conosciuto me, aveva scopato con me, diverse volte, e poi si era buttata dal balcone del suo appartamento al quarto piano e si era sfracellata sulle mattonelle patetiche del cortile.
La osservavo con distaccata rassegnazione.
Mi chiesi se in qualche modo quel suicidio si sarebbe potuto evitare. Aveva dato dei segnali negli ultimi giorni? No. Non mi sembrava, almeno. Perché? Perché decidere di ammazzarsi quella mattina? Perché proprio quella in particolare? Forse perché sapeva che la sarei andata a trovare? Ma non lo sapeva; non le avevo scritto. Forse l’aveva fatto per quello: perché non le avevo scritto.
Guardando il suo cadavere devastato cercai di immaginarmi i suoi ultimi istanti di vita. Anzi, le sue ultime ore. Probabilmente si era svegliata intorno alle nove, come al solito quando non doveva andare a lavorare, era andata in bagno a pisciare, poi si era guardata allo specchio per cinque minuti abbondanti, facendo caso alle nuove rughe spuntate chissà quando che ci tenevano a ricordarle che stava invecchiando che il culo le si sarebbe ingrossato a breve che le tette sarebbero avvizzite che i capelli tendenti al grigio si sarebbero stinti pian piano fino al bianco fino ad un casco bianco e i denti gialli sempre più marci. Poi aveva bevuto dal rubinetto come un cane come un animale, come me, si era sciacquata il viso senza perdere altro tempo a guardarsi era andata nel salotto-cucina-ambiente unico aveva messo a scaldare il caffè con le mani ancora intorpidite che già puntavano alle sigarette ma perché non farsi una bella canna a questo punto, già che ci siamo, mentre il caffè saliva si era rollata la canna e il caffè si era un po’ rovesciato cazzo e dire che aveva sentito la moka ribollire ma la lasciava sempre strabordare perché aveva una passione contorta per le inondazioni e un desiderio perverso di lordare ciò che toccava. Aveva riempito la tazzina, poi aveva aperto la porta finestra e era rimasta in piedi con il culo secco appoggiato alla cucina, indecisa su come sfruttare quel tempo che le rimaneva le avanzava mentre il caffè si freddava quel tanto che bastava per essere bevuto e valutò che fumarsi la canna ne avrebbe richiesto troppo e che interrompere l’atto spinellante sarebbe stato un peccato e ne aveva dedotto che la cosa migliore sarebbe stata farsi un paio di fette biscottate con la marmellata se solo avesse avuto le fette biscottate e se solo avesse avuto la marmellata e nel tempo che gocciolava nel mentre dei suoi afosi ragionamenti il caffè si era freddato ma non abbastanza e lei lo aveva buttato giù lo stesso in un sorso e si era vagamente ustionata la lingua che poi non era così e addirittura le piaceva l’idea di aver sbagliato anche quello e le piaceva la tazzina sporca sul lavandino e le piaceva lasciarla lì senza far scorrere l’acqua e abbandonarla a giorni o ore di fondi di caffè che si sarebbero appiccicati alla porcellana e le piaceva l’idea di essere così deprimente da sedersi sul divano blu senza lavarla e stendersi lì sul divano blu a pensare che forse il giorno prima o quello prima ancora avrebbe potuto andare a fare la spesa e comprare la marmellata e persino le fette biscottate e che poteva accendersi la canna alle nove di mattina ma questo non avrebbe cambiato il fatto che il suo culo secco si stava facendo sempre più flaccido e rugoso e che il viso si stava trasformando in un campo arato e che i solchi che le percorrevano la faccia si sarebbero ingigantiti e ampliati e moltiplicati a prescindere che lei fumasse o no quella canna, e la tazzina sarebbe rimasta lì sporca a prescindere che lei avesse trovato la forza o meno di scrivermi un messaggio per sapere dov’ero cosa facevo e con chi e forse sarei potuto arrivare in tempo magari l’avevo persa per un pelo che si alzava senza fumarsi la canna e andava sul balcone e guardando giù decideva che poteva pure provare a saltare, che forse quello qualcosa avrebbe cambiato, e allora era tornata dentro e aveva preso la sedia e l’aveva portata fuori e aveva pensato a me che come uno stronzo non mi facevo mai sentire e non l’ascoltavo e guarda un po’ non la capivo al punto che aveva voglia di ammazzarsi e nemmeno ne avevo avuto il sospetto. Allora era salita sulla sedia e con le gambe tremanti ma forse salde aveva spiccato un piccolo balzo e era precipitata giù e si era schiantata, questione di attimi che poco prima stava per fumarsi una canna lavare la tazzina scrivermi un messaggio e ora era morta.
E chissà quanto coraggio aveva richiesto una cosa simile. Faticavo a comprendere il livello di disperazione sufficiente a poter decidere di fare quello che lei aveva fatto. Mentre guardavo giù, paralizzato, il suo corpo immobile, mi chiedevo dove avesse scovato quella forza disumana e invincibile, e in quale preciso instante avesse deciso che sì, era meglio così, era meglio saltare e sfracellarsi.
Era colpa mia? Potevo davvero avere un peso simile? Non stavo ingigantendo le mie responsabilità? Non ero nemmeno il suo fidanzato…Ci frequentavamo. Scopavamo. Parlavamo poco e male, e sempre di cose disgraziate.
Cosa aveva provato issandosi su quella sedia? E quanta paura aveva avuto cadendo? Chiusi gli occhi, o forse li lasciai sbarrati, e immaginai di precipitare, e ne fui terrorizzato. Non si poteva non aver paura del vuoto, e dello schianto imminente. Aveva urlato? Probabilmente no, se no qualcuno avrebbe sentito, qualche vicino si sarebbe affacciato. E il tonfo? Non c’era stato nessun tonfo?
Mi venne in mente quando, qualche anno prima, mi trovavo ad un festival di musica merdosa con amici, anzi con gente a caso e il Lori, e c’era una specie di torre cui si poteva accedere pagando qualcosa tipo tre euro. Gli altri non volevano salire, allora io e il Lori siamo andati da soli e in cima alla torretta c’era il tizio che ci diceva quando potevamo saltare. Controllava che il precedente saltatore non si fosse ammazzato e dava il permesso agli altri, ai seguenti, di buttarsi. Per primo era andato il Lori. Non aveva urlato. Il tizio lo aveva giudicato sufficientemente vivo e mi aveva fatto cenno di saltare. Mi tremavano le gambe, me lo ricordo bene, ma saltai, e un attimo dopo, al massimo due secondi, mi ritrovai ad affondare in un morbido gonfiabile che impediva a noi deficienti di spezzarci la spina dorsale. Il gonfiabile si sgonfiava permettendo a noialtri di scendere, e subito tornava fiero a gonfiarsi, in attesa del successivo salto. Il Lori non aveva urlato. Io sì.
E chissà la paura che doveva aver provato Maria. Lì sotto, in cortile, non c’era nessun gonfiabile. Si era pentita, in volo, della sua scelta? L’aveva giudicata istintiva, affrettata? Aveva avuto il tempo per giudicarla tale, o il terrore aveva monopolizzato il cervello poco prima che questi si spegnesse per sempre? A chi aveva dedicato l’ultimo pensiero, se c’era stato un ultimo pensiero? A me?
Aveva provato dolore al momento dello schianto? O era morta sul colpo? O aveva agonizzato nel suo stesso sangue prima di aver ottenuto definitivamente successo nel suo intento suicida? Aveva provato più dolore prima o dopo lo schianto?
E se non si fosse trattato di suicidio?
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.