Parte I
“In tempi come questi
la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi
e continuare a sognare.”
Henri Laborit
Era una strana montagna a due punte. Svettava fiera sulla vallata, di cui era da sempre regina e guardiana. La gente smetteva di guardarla non appena capiva che niente sarebbe cambiato e questo, in genere, succedeva molto presto. Nelle notti d’autunno, la luna si poggiava in mezzo alle cime, per poi morire in un mondo sconosciuto al di là della montagna.
Fu un ottobre di freddo improvviso, la neve non tardò a ricoprire tetti e bestemmie dei contadini, dopodiché tornò il caldo e il cielo rimase sereno per giorni. Quella notte non erano che rimaste poche chiazze biancastre ai lati della strada e il paese dormiva con respiro lento e affannato, mentre qualche cane abbaiava distante.
Le tre ombre fecero la loro comparsa su un sentiero fangoso.
La prima, più indietro, procedeva con passo lento, impaurita.
La seconda si guardava intorno furtivamente.
La terza camminava sicura.
Nino si fermò dalla fontana. Riempì la borraccia con acqua gelata e si voltò dietro di sé, assicurandosi che Meo e Fausto lo stessero seguendo. Una volta riuniti, i tre fuggirono lungo l’unica strada asfaltata.
1
Daniele amava la brillantina.
Ogni volta che tornava in paese, se ne cospargeva con generosità il ciuffo biondo, facendo sviare l’attenzione dal naso imponente. Si sincerava sempre di avere un pacchetto di Nazionali nel taschino della camicia e, a chiunque gli chiedesse una sigaretta, rispondeva: «Prendile pure tutte».
Nino non sapeva che lavoro facesse il cugino, ma non gli importava più di tanto. Rimaneva in silenzio per ore ad ascoltare i racconti sulla sua vita in città.
«La prossima settimana arriva il frigo» aveva annunciato Daniele in un fresco pomeriggio d’agosto. «Il frigorifero, hai capito, Giaunin?»
Il vecchio aveva smosso lentamente la testa, come un cane anziano sotto il sole cocente.
Anche Nino sapeva del frigo. Sapeva pure che in città vivevano più di mezzo milione di persone e francamente non riusciva a immaginarsi una valle così grande da poterci far stare tutte quelle case.
«Le donne, Nino» gli aveva spiegato il cugino, stanco di rivolgersi al volto senza espressione di Giuanin. «Le guardi, senza problemi. E loro, sai che fanno? Sorridono. Non è meraviglioso?»
Mesi prima, si erano messi d’accordo perché Nino venisse a trovarlo, ma all’ultimo Daniele si era tirato indietro. “Ho da fare con gli amici” gli aveva detto. “La prossima volta ci sarò e vedrai, ne combineremo delle belle.”
La volta dopo, però, era spuntato un impegno, e così via per almeno altre quattro occasioni. Seppur dispiaciuto, Nino non gliene aveva fatto un rimprovero. Stravedeva per il cugino dalla parlantina veloce e i modi bruschi. O, per meglio dire, erano i racconti della città a farlo respirare. L’unico sussulto di una vita spenta e monotona.
«Dovresti vedere che schianto le pupe al mare» aveva proseguito Daniele, toccandogli il gomito. «Chilometri di spiagge con quei ben di Dio all’aria. Mi capisci, Nino? Eh, mi capisci?»
Prima di andare via, il cugino gli aveva fatto fare un giro sulla macchina nuova. Diceva, con aria di sufficienza, di averla comprata con i soldi di uno stipendio qualunque, ma non appena Nino aveva appoggiato un piede sul cruscotto, si era infuriato.
«Sei pazzo? Toglilo subito.»
Lui aveva obbedito, per niente offeso. Aveva annusato l’odore di plastica dell’abitacolo: sapeva di speranza e futuro.
Il cugino era partito prima di cena in un vortice di fumo maleodorante, strombazzando per l’unica strada del paese e Nino l’aveva salutato con il solito trasporto. Si sarebbero rivisti molto prima di quanto Daniele avesse potuto immaginare.
«Perché?» Fausto aveva il volto accigliato. Teneva le braccia conserte, rifiutandosi di guardare Nino negli occhi. «Perché?» chiese di nuovo, in preda ai tormenti.
«Te l’ho già detto, Fausto» rispose pazientemente Nino. «Sono stufo di spaccarmi la schiena nei campi. Meritiamo ben altro.»
«Benissimo, allora faremo come tutti. Aspetteremo qualche anno e poi ce ne andremo. Non voglio scappare, Nino.»
«Chi ha detto “scappare”?»
Meo colse alla sprovvista i due amici, spuntando da dietro un muretto. Aveva una grossa borsa a tracolla piena di noci.
«Ho deciso di andare via» spiegò Nino.
«Questa è una notizia. E dove te ne vai?» Con uno sguardo, Meo fece capire a Fausto che era giunto il momento di alzarsi. Si sedette al suo posto su una grossa pietra, su cui iniziò a sbattere le noci per frantumarne i gusci.
«Vado in città.»
A Meo andò di traverso il gheriglio che aveva in bocca. Fausto non riuscì a trattenersi da una breve risata.
«E tuo zio lo sa?» chiese.
«Non ho intenzione di dirglielo.» Nell’espressione sempre più sorpresa dell’amico, Nino trovò il coraggio per proseguire. «Avanti, venite con me. Se rimanete, sarete costretti a fare una vita d’inferno.»
Il sole era già tramontato in paese, mentre gli ultimi raggi si attardavano sulle due punte della montagna. Fausto si guardò intorno, non c’era anima viva intorno a loro.
«Questo è vero.» Meo rifletté. «Che hai in mente di fare?»
Rincuorato, Nino si fece ancora più serio. «Fuggiremo. Qualche settimana per prepararci e poi andremo in città. Mio cugino ci aspetta.»
«Ci aspetta?» Fausto lo interruppe.
«Sì, ho pure il suo indirizzo, guarda.» Prese dalla tasca un foglio stropicciato su cui aveva ricopiato la via riportata sulla patente di Daniele.
«Ma come faremo? In città, senza un lavoro» pensò Meo a voce alta.
«Forse non vi è chiaro.» Nino respirò intensamente, quindi riprese a parlare deciso. «In città si trova sempre il lavoro, basta darsi da fare. Tu, Faustino, sei generoso come lo era tuo padre, sono certo che te la caverai.» Il ragazzo chinò la testa. «E tu, Meo, sei il più grande lavoratore di questo paese. Pensi che in città non ci sia una bottega dove non servano due braccia come le tue?»
In effetti, pensò Meo, non era poi molto ciò che si sarebbe lasciato alle spalle. Gli venne in mente il freddo pungente dell’inverno, capace di insinuarsi fin dentro le ossa. O la canicola delle interminabili giornate estive, quando un sudore fetido e denso grondava giù dalla fronte.
«Ma scusa, Nino,» chiese dubbioso «perché non te ne vai da solo?»
Nino sapeva quanto sarebbe stato difficile per i due abbandonare il paese. Orfano dei genitori, con un vecchio zio che lo accudiva solo per senso del dovere, il ragazzo non aveva invece molto da perdere.
«Perché siamo cresciuti insieme. E insieme faremo grandi cose in città.»
«Il mio vecchio mi prenderà a cinghiate quando lo verrà a scoprire» disse Meo con una certa soddisfazione.
«Sei con me?» chiese l’altro, incredulo.
«Sì, al diavolo lui e questa vita. Scappiamo, amico mio.»
Il cuore di Fausto prese a battere veloce: guardò prima Nino, poi Meo. Entrambi si aspettavano solo una risposta. E pure lui, in fondo, sapeva che non avrebbe mai potuto vivere senza di loro.
2
Era morto qualche anno prima, travolto da un grosso macchinario usato per tagliare il legno.
Fausto ne aveva ereditato le mani, grosse e nerborute come quelle di un boscaiolo di cinquant’anni, ma il carattere era della madre: insicuro, timido e impacciato. Dopo la tragedia, il ragazzo aveva abbandonato la scuola, mettendosi ben presto alla guida del trattore di famiglia, unica ricchezza lasciata dal padre insieme a qualche campo e poche vacche da latte. La madre non usciva più di casa, se non per andare al cimitero e a messa. Stretta in uno scialle nero che ne occultava volto e pensieri, lasciava che fosse il figlio a occuparsi di quell’annosa questione che era diventata la vita.
Fausto aveva imparato a sopportare il dolore, costruendosi un mondo di solitudine e sacrifici. Un giorno, mosso da un insolito impeto, aveva chiesto all’ex compagno di classe Nino di insegnargli quel poco che gli mancava per saper leggere e scrivere. Si ritrovavano la notte, all’insaputa di tutti, in un fienile abbandonato, in compagnia di un vecchio abecedario rubato a un maestro d’italiano balbuziente. Era lo stesso fienile dove Fausto si rintanò la sera prima della partenza, scoprendo di non riuscire a piangere. Avrebbe pure voluto, perché sapeva che la madre avrebbe sofferto terribilmente. O forse no, la sua fuga sarebbe stata solo un’altra coltellata, l’ennesima, su un corpo ormai martoriato.
Il ragazzo fu a lungo sfiorato dall’idea di abbandonare i due amici. Il giorno prima, a messa, aveva guardato don Guerino con la stessa espressione di un condannato a morte. Meo, poco lontano, aveva assistito alla scena con un brivido di apprensione, ma Fausto si era ben presto dileguato insieme agli altri fedeli, e il confortante sapore dell’ostia imbevuta nel vino aveva, per una volta, assunto un retrogusto di ansia e tensione. Non poteva vivere senza Nino e Meo, senza quei sorrisi a cui si aggrappava per assaporare un’idea di felicità.
Venne colto da una profonda angoscia quando si immaginò solo, alla guida del trattore, di ritorno da una giornata uguale a tutte quelle che sarebbero venute.
Vado via, però torno.
Tuo, F
Lasciò il biglietto sulla credenza della cucina, prima di afferrare la sacca e uscire di soppiatto da casa. Meo lo aspettava nascosto dalle sterpaglie, dietro a un immenso cumulo di letame.
Continua a leggere
«Ti vuoi sbrigare?» bisbigliò.
Nino era poco più avanti. Con una mano si portava in continuazione i capelli all’indietro, lasciando intravedere i suoi occhi azzurri brillare nella penombra. Respirò lentamente l’aria che proveniva dal bosco e odorava di umido, foglie e passato. Meo si mise al suo fianco, osservando compiaciuto le poche chiazze di neve ai bordi della strada.
«L’avevo detto» disse soddisfatto. «Questa neve non era destinata a durare.»
Fausto guardava con apprensione le sue uniche scarpe, già inzaccherate di fango.
La strada correva lunga e diritta, come una canna di fucile. Tagliava a metà campi di fragole, dove ben presto decine di contadini avrebbero chinato la schiena. Grossi teli di plastica nera sarebbero stati distesi sopra le radici, con la speranza di vincere l’eterna sfida contro il freddo invernale.
Prima di lasciare il paese, Meo sentì distintamente la fontana sussurrare nell’aria. Da bambino ci veniva con la madre, divertendosi a travasare l’acqua da una pentola all’altra. Dopo una decina di minuti, fu il turno del fiume, con il suo gorgoglio soffuso oltre la boscaglia. Ci era andato qualche settimana prima, in un punto in cui il greto si apriva in una pozza tonda, sempre piena di pesci. Ne aveva preso uno con le mani, come provava a fare da tempo. Il volto del ragazzo, solitamente ingrugnito, si era sciolto in un’espressione di beatitudine. La stessa sensazione che provava lasciandosi il paese alle spalle, sotto un cielo ormai schiarito dai primi vagiti dell’alba. In città c’era il mare e lui avrebbe speso i primi soldi in una canna da pesca. Poi, quando ne avrebbe avuti di altri, si sarebbe preso una Vespa con cui scorrazzare amici e donne di cui – ne era certo – avrebbe ben presto fatto man bassa. Non provava grandi rimorsi: era il penultimo di dieci fratelli, tutti consacrati alla vita nei campi, cresciuti con poco mangiare e senza ambizioni.
«Diavolo, ragazzi, siamo in ritardo» disse Nino guardando l’orologio.
Percorsero l’ultimo chilometro alternando brevi tratti di corsa con altri, più lunghi, di camminata spedita. Il cartello arrugginito della fermata comparve solo all’ultimo, nascosto dietro a un albero. Un uomo con un paniere ricolmo di uova guardò i tre con aria interdetta, ma non chiese nulla. La corriera giunse con qualche minuto di ritardo, il tempo necessario perché Nino sentisse rivoli di sudore gelato scorrere sulle tempie. Fausto, di gran lunga il più alto dei tre, dovette chinarsi per entrare nel mezzo e si sedette nell’ultima fila, nel posto sopra alla ruota posteriore, addormentandosi immediatamente.
Meo lo svegliò dopo mezz’ora, strattonandolo.
«Siamo arrivati.»
Aprendo gli occhi, Fausto vide un anonimo palazzo grigio, con la scritta “Stazione” ormai sbiadita dal tempo.
Lungo il binario, studenti dalla faccia assonnata si facevano manforte tra loro, mentre qualche uomo leggeva distrattamente il giornale, in piedi. In disparte dagli altri, i tre tenevano le mani in tasca e non parlavano. Tintinnò una campanella e da un riquadro si accese una scritta luminosa: “In arrivo”.
«Una volta arrivati, dove andremo?» chiese Fausto, battendo i piedi per il freddo.
«Da mio cugino.» Nino fu rinfrancato nel sentire nella tasca il foglietto con l’indirizzo di Daniele.
«E poi che faremo?» Insistette l’altro.
«Cercheremo un lavoro.»
«E se non lo troviamo?»
Meo lo scontrò con la spalla. «Cristo santo, Fausto, la vuoi piantare?»
Quello allora si strinse dentro al cappotto per cercare un po’ di calore, ma non riuscendoci, fece qualche passo in direzione opposta agli amici, sospirando.
Il treno era decisamente più accogliente della corriera. Trovarono posto in uno scompartimento riscaldato e con un lieve odore di tabacco. Nino abbassò il finestrino con forza, si affacciò fuori e ben presto un vento gelido gli sferzò il viso. La stazione scomparì in pochi secondi, dietro all’ansa formata dai vagoni in movimento. Nel vedere Fausto e Meo accasciati sui sedili e addormentati, fu scosso da un’inaspettata energia. Ripensò alla sveglia in piena notte, alle ombre riflesse dal plenilunio.
In quell’istante, il controllore entrò nello scompartimento senza bussare. Solo quando chiese la loro destinazione, Nino capì di essere davvero fuggito, provando un misto di eccitazione e sgomento.
3
I freni cigolarono a lungo prima che il treno si fermasse del tutto. La porta del vagone si aprì con uno sbuffo nervoso, lasciando trapelare un’aria decisamente più umida di quella a cui erano abituati. Meo rimase qualche istante a guardare gli altri passeggeri, invidiandone il piglio sicuro, cercando di seguire la stessa direzione che prendeva la gente, senza preoccuparsi di Nino e Fausto. Li ritrovò alla fine di un lungo sottopassaggio, nella grande sala degli arrivi, dove l’altoparlante annunciava laconico il ritardo di un treno proveniente da un luogo mai sentito prima. Le persone si accalcavano in prossimità del tabellone delle partenze, per poi schizzare verso i binari. Chi, come loro, era appena arrivato, si guadagnava l’uscita con passo affrettato.
«Seguitemi» disse Nino, ma si arrestò poco dopo, davanti a un piazzale immenso. Era affollato in ogni angolo, con al centro decine di automobili che sfrecciavano impazzite, in un rumore infernale di clacson e motori.
Fausto si guardava intorno smarrito, mentre Meo non vedeva l’ora di buttarsi in mezzo alla calca.
Indecisi sul da farsi, fermarono un uomo in giacca e cravatta, che rispose con una prima occhiata frettolosa all’iniziale “Mi scusi” di Nino.
«Per andarci, devi prendere l’autobus o prendere un taxi» bofonchiò leggendo l’indirizzo del cugino. «Se hai i soldi, ovviamente» aggiunse, notando i vestiti dei tre.
«Come si permette!» disse Meo già pronto a saltargli addosso, ma l’uomo era schizzato via, senza nemmeno salutare.
La fermata era poco lontana e segnata da un cartello ben più imponente di quello striminzito della corriera in paese. Una sfilza di numeri e sigle fece venire il mal di testa a Nino, costringendolo a chiedere aiuto a un autista, mentre Fausto osservava davanti a lui alberi curiosamente delimitati da recinzioni in ferro alte mezzo metro. La gente camminava sopra a un asfalto scolorito e in città era tutto grigio, anche il cielo. Il sole non era che un alone opaco e indistinto, per strada i lampioni erano accesi, nonostante non fossero nemmeno le quattro. Il bagliore giallognolo delle luci non faceva che rendere l’atmosfera ancora più cupa.
A bordo dell’autobus, in balia dei continui strattoni per via del traffico, Meo perse più volte l’equilibrio. I sedili di legno vibravano rumorosamente, rendendo difficile qualsiasi conversazione tra i tre, di certo non abituati ad alzare il tono della voce. Gli altri passeggeri, invece, sembravano a loro agio nel gridare a squarciagola.
Dopo una mezz’ora abbondante, una signora si avvicinò a Nino. Aveva due grosse borse di tela, da cui spuntavano dei gambi di sedano.
«Ecco, giovanotto,» disse con un mezzo sorriso «la prossima fermata è la vostra.»
Nino ringraziò, tirò un cordino sopra alla testa e le porte si aprirono su una strada avvolta da una fitta penombra.
Come un cecchino appostato su un tetto, in quel quartiere il buio era sempre in agguato. La via principale era lunga e stretta: da un lato, in posizione sopraelevata, scorreva una ferrovia, percorsa in continuazione da lunghi treni merci. Dall’altro, una schiera di palazzi si susseguiva a perdita d’occhio. Alcuni edifici avevano pregevoli facciate con statue scolpite nella pietra, i cui sguardi erano anneriti da un nero fuligginoso. I passanti si facevano largo su di un marciapiede striminzito.
Daniele abitava in una viuzza subito dietro, in una palazzina costruita pochi anni prima, dove vivevano perlopiù gli operai della vicina fabbrica. L’esterno, di un azzurro tenue, mostrava già vistose venature a causa delle numerose infiltrazioni e la muffa cresceva rigogliosa, ma per Nino fu come essere davanti al palazzo di un re. Una volta Daniele gli aveva parlato di un curioso aggeggio sistemato a fianco del portone. Ora si ritrovava a suonare con forza il citofono, schiacciando il pulsante in prossimità del cognome del cugino.
Non rispose nessuno.
Mentre era indeciso se insistere o meno, Nino sentì un gracidare confuso.
«Chi è?»
La voce di Daniele era insolitamente stanca.
«Daniele!» esclamò. «Ti ho fatto una sorpresa.»
Meo aveva già da tempo capito e al sentire quelle parole alzò le spalle, indifferente.
Fausto si sentì tradito e raggirato. «Ma non mi avevi detto che ci aspettava?» chiese con un filo di voce.
Nino gli fece segno di stare zitto. «Daniele, ci sei?» chiese rivolgendosi al citofono.
Seguì un respiro lungo, affannato.
«Nino?» domandò Daniele.
«Risposta esatta. Ci fai salire?»
«Dimmi che è uno scherzo.»
Nino deglutì e riprese a parlare con un tono più basso: «No, non è uno scherzo. Sono venuto a trovarti, hai visto? Se ci apri, ti spiego».
«Aspetta un secondo. Non sei solo?»
«No, sono con Fausto e Meo. Se mi fai salire, ti spiego tutto. Domani andiamo via, promesso.»
Meo indovinò la reazione del cugino ancora prima che quello rispondesse.
«Ma dico io, Nino, ti ha dato di volta il cervello? Cosa sei venuto a fare? Io non ho tempo per certe bambinate.»
«Ascoltami, Daniele: fammi salire e poi decidiamo.»
«Non decidiamo un bel niente. Sei scappato, vero?»
Nino non disse nulla.
«Assurdo. Veramente assurdo» proseguì il cugino. «E ora vorresti pure che ti aiutassi? Ma sai che la gente ha già i suoi problemi? Vattene e lasciami in pace, Nino.» E riattaccò.
Dopo qualche istante, Meo tornò a schiacciare con forza il pulsante.
«Che vuoi ancora?» rispose Daniele, minaccioso.
«Ascoltami bene: tuo cugino sarà pazzo, ma io è dalle quattro di stamattina che sono in piedi. Non abbiamo mangiato da ieri e non sappiamo dove andare. Ti stiamo chiedendo solo un posto per la notte.» Meo fece per allontanarsi, ma tornò subito sui suoi passi, indemoniato. «Cristo, Daniele! Non ci puoi dire di no!»
Dopo qualche secondo di esitazione, scattò la serratura.
«Solo per stanotte.»
L’attico, di cui tante volte Daniele si era vantato, era un sudicio bilocale al penultimo piano.
Dall’unico termosifone della casa usciva uno sfiato di acqua giallognola e nell’aria c’era un vago tepore intriso di zolfo. Daniele non aveva il ciuffo impomatato come al solito e al posto della camicia inamidata indossava una canottiera di flanella, con una grossa macchia di sugo sul petto. Nino abbozzò un sorriso, il cugino lo ignorò. Poco dopo indicò un fornello del gas, sul fuoco c’era una pentola con dell’acqua.
«Stavo mettendo su un po’ di pasta» disse con aria di sufficienza e i tre guardarono il pacco di spaghetti con voracità.
«Posso andare in bagno?» chiese poi Fausto, al limite della sopportazione.
«In casa non c’è, devi andare al piano.»
Fausto tornò dopo qualche minuto. Meo vide sul suo volto qualcosa di più che un sollievo, così decise di andare anche lui, incuriosito dalla reazione dell’amico. Il bagno si trovava in fondo a un lungo corridoio, preannunciato da una porta con un vetro opaco, da cui trapelava l’ultima, flebile luce della giornata. Il ragazzo la aprì e si diresse verso la finestra che si affacciava sul lato opposto rispetto alla via da dove erano arrivati. La vista si perdeva sui tetti delle case e più in là un’alta ciminiera rilasciava un fumo bianco e denso nell’aria. Furono delle gru ad attirare la sua attenzione. Alte decine di metri, si stagliavano in un cielo ancora inumidito di sole. Più in basso c’era un enorme manto blu scuro, che si faceva più azzurro in prossimità dell’orizzonte. Era lì, in una sottile linea confusa, che iniziava il cielo e finiva ciò che Meo mormorò appena.
«Il mare…»
Tornò in casa di corsa, mentre Nino continuava a guardare il cugino, senza sapere bene cosa dire.
«Vieni a vedere» disse eccitato.
Preoccupato dall’idea di rimanere solo con Daniele, Fausto li seguì senza capirne il motivo.
Nino fu così emozionato da lasciarsi scappare un piccolo grido. Non bisognava sforzarsi, per vedere il mare. L’entusiasmo non incontrava ostacoli, la fantasia non aveva limiti. Per un breve e concitato istante fu sfiorato dal desiderio di scoprire cosa ci fosse dietro a quell’orizzonte lontano. In fondo, pensò, era quello il motivo che portava la gente a prendere la via del mare. Poi tornò a scrutare il cielo rovesciato che aveva davanti, e fu felice.
Fausto, che non provava la stessa emozione, fu comunque sollevato nel vedere il volto estasiato dei due amici.
Tornarono in casa parlottando tra loro.
«Che faremo domani?» chiese Fausto.
«Cercheremo un lavoro» rispose Nino.
Una volta rientrati, Meo si fermò davanti all’unica camera della casa, mentre Daniele era intento a far finta di leggere un giornale, sdraiato su un letto cigolante e con un braccio dietro la nuca.
«Dai, vieni con noi di là.»
Disse che era stanco, non aveva più fame e sarebbe andato presto a dormire.
Più tardi, dopo aver mangiato, Nino spiegò a Fausto e Meo come il centro della città fosse pieno di botteghe. Era stato proprio il cugino a raccontarglielo.
Meo si lasciò prendere dall’entusiasmo. «Vedrete quanti soldi faremo» disse leccando il poco olio rimasto nel piatto.
Daniele aveva ascoltato tutta la conversazione. Che buffo, pensò. È bastato il mare e sono già in preda al delirio. Si rabboccò la coperta e, prima di chiudere gli occhi, vide la tuta blu appoggiata sulla sedia. L’avrebbe indossata la mattina dopo alle cinque, prima di iniziare il turno in fabbrica.
4
Fu una notte scomoda e fredda.
Nino trovò alcuni asciugamani da stendere in terra, ma servì a poco. Dormirono su un pavimento di pietra, con il fastidioso gocciolio del lavandino a rendere il sonno ancora più tormentato. Meo si svegliò la prima volta alle due, poi alle quattro. Aveva la testa di Fausto conficcata sullo stomaco e la netta sensazione di essere più stanco di prima.
La voce di Daniele risuonò minacciosa poco dopo. «Devo andare al lavoro, avete dieci minuti per prepararvi.»
Nino non ebbe il coraggio di chiedere più nulla al cugino e una volta in strada provò una certa liberazione. Con i pochi soldi da parte, comprarono tre biglietti dell’autobus in un’edicola, invidiando il tepore della stufetta intravista all’interno. Tirava infatti un vento freddo da nord e le gocce di una pioggia sottile erano proiettili impazziti nell’aria. Aspettarono in una fermata all’aperto, mentre un esercito di tute blu, lentamente, andava al lavoro. Molti avevano un’espressione cupa e camminavano in silenzio, altri si facevano coraggio tra loro, scambiandosi qualche battuta su una partita di calcio giocata il giorno prima.
L’autobus li lasciò in una grande piazza, all’ombra di un edificio così alto da grattare il cielo. A Nino venne in mente uno dei tanti racconti di Daniele, ma ricacciò ben presto il pensiero. Le prime avvisaglie di impiegati, diretti ai vicini uffici, iniziavano ad affollare gli incroci. Uomini incravattati, con grossi occhiali da vista, si mischiavano a donne dai lineamenti gentili. Erano maledettamente belle, pensò Fausto.
In un angolo della piazza, in posizione rialzata, si faceva largo una porta medievale. Costituita da due grossi torrioni in pietra, era il fiero baluardo della Storia davanti a tutta quella modernità fatta di edifici in calcestruzzo e scritte al neon. Per arrivarci c’era una stradina in salita, con qualche sparuto ulivo ai lati.
«Dobbiamo andare di qui» disse Meo, sentendosi attratto da una forza misteriosa.
Superata la porta, i tre fecero una discesa, poi presero una strada laterale in salita, quindi un’altra viuzza, buia e puzzolente di piscio.
«Ci siamo persi.» Fausto sospirò dopo poco.
La pioggia aveva smesso di scendere, ma la luce sembrava dover chiedere permesso prima di entrare in quella parte della città. I muri dei palazzi erano grigi e sbilenchi, talmente vicini tra loro da sembrare che si toccassero.
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