In me urla il padre e strepita la figlia, si incaponisce il padre e si ribella la figlia. Un equilibrio impossibile, una pena che abbraccia una speranza su un bordo instabile. Incapaci di abbandonarci al destino, ci rifiutiamo di credere che sia realmente tutto qua. Un presente fatto di flashback. Un dialogo in crescendo stretto tra le quattro mura di una stanza d’ospedale, l’evasione affidata ai soli ricordi. E ai nuovi inizi. Figlia e padre si rincorrono, si pensano lontani, accusano, si giustificano. Su un palcoscenico scarno ed essenziale, i due protagonisti alternano le loro voci. Di tanto in tanto l’occhio di bue punta la sua luce su personaggi e comparse di questa intima vicenda familiare. Una storia, la storia di una famiglia, la storia di tutti.
Perché ho scritto questo libro?
Questo libro nasce per sublimare la scomparsa di mia madre e le altre perdite con le quali ho dovuto fare i conti lungo il cammino. La fantasia ha mescolato eventi e sensazioni reali con una storia immaginaria e alcune canzoni a me care hanno fatto capolino lungo le pagine. I protagonisti si sono fatti avanti da soli: dapprima le loro voci erano echi indistinti ma con il tempo ho imparato a riconoscerle, le ho lasciate correre ed ora il racconto narra le tappe di un’evoluzione.
ANTEPRIMA NON EDITATA
CAPITOLO 1
La stanza è piena di risposte a domande che nessuno ha fatto, e di domande a cui nessuno saprà dare una risposta.
L’aria entra svogliata e fiacca da una finestra aperta: fossimo in un film il cielo dovrebbe piovere a dirotto, o quantomeno essere gonfio e grigio, minaccioso, a seguire la linea spezzata dei nostri pensieri, i tuoni a sincopare i tuoi singhiozzi.
Ma invece no, è sfacciatamente turchese, neanche una nuvola di dubbio a cavalcare questo palcoscenico: una perfetta nitida giornata di inizio maggio, se respiri a fondo e superi la coltre di disinfettante del reparto senti anche il profumo del gelsomino sul terrazzino, ti riporta sicuramente a qualche ricordo lontano di casa vecchia, che chissà se l’hanno messo lì apposta per confondere l’odore delle medicine, della vecchiaia o del dolore, o è solo una coincidenza, magari non sapevano dove sbatterlo e invece di buttare quella mezza radice secca l’hanno affondata in un palmo di terra, e quello è venuto su per dispetto, pure in mezzo ai mozziconi di sigaretta che gli ansiosi gli hanno spento addosso. Mi sembra quasi di annusare quel filo di fumo spento che pigro si infila tra le lamelle della veneziana ed arriva qui, fa lo slalom tra i tuoi capelli, si arriccia e si snoda piano, si allunga, sfiora boccette e siringhe, poi si accartoccia tra le tue mani nervose che appallottolano il fazzoletto, chiudono il pacchetto di Lucky Strike e infilano tutto veloce nella borsa.
L’odore penetrante di tabacco ha fatto appena in tempo ad arrivare alle mie narici e poi si è dileguato, lasciando spazio alla pesantezza dei tuoi occhi gonfi e il tuo sguardo si è posato qui, su questo povero vecchio, ieri ancora presente e pieno di sé, ora improvvisamente sospeso, attaccato ad un respiratore, il vocione serio che lascia spazio ad un suono ritmico e sbuffante.
Credo che i miei occhi siano chiusi, non chiedermi com’è ma riesco a vedere lo stesso ciò che mi accade intorno: di ieri sera ho solo qualche frammento di memoria, una fitta improvvisa e lancinante al petto, una caduta forse, il telefonino accanto per caso o per destino, credo di aver premuto qualche tasto e forse sarò veramente riuscito a chiamarti, o magari chissà, il tuo sesto senso aveva già capito tutto e sei arrivata fino a me, puntuale e salvifica, che ti chiamerei ancora “la mia principessa azzurra”, se non conoscessi già la tua smorfia, a metà tra il divertito ed il “papà, non ho più sette anni”.
Se avrai voglia, quando mi sveglierò mi racconterai tu com’è andata ieri sera: per me, dopo qualche voce concitata, qualche bip-bip irregolare ed un lungo ronzio, c’è stato solo il silenzio, un galleggiare tra coscienza e incoscienza, credo di aver fluttuato per qualche ora… o magari qualche giorno?
Ora mi sento stranamente lucido, come se tutta l’opacità che mi sentivo appiccicata addosso come un’afa estiva fuori stagione fosse evaporata all’improvviso, lasciandomi uno sguardo chiaro e terso, una messa a fuoco senza sbavature sugli anni passati, come se questa caduta mi avesse sollevato in un punto panoramico da cui poter osservare con calma e senza maschere la scia di giorni che ho tratteggiato dietro di me.
Ed ora qui, in questo ospedale, che se potessi affacciarmi alle finestre riconoscerei il profilo dei monti ad ovest, tremanti e imponenti al tempo stesso, a digradare fino al mare, nastri celesti che si tramutano in blu intenso all’orizzonte, già color vacanza, poter intuire da lontano l’odore di salsedine…
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